La Creazione secondo la Bibbia, i Greci antichi, i Rgveda indiani
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La Bibbia inizia con le parole “Nel principio Dio creò il cielo e la terra”. Il verbo che viene usato nel testo ebraico (bārā’) può avere come soggetto esclusivamente Dio. L’atto del creare, cioè del dare esistenza alle cose e alla vita dal nulla, è prerogativa di Dio, ed è la decisione di Dio che impone l’”inizio”. Prima di questo inizio non c’è materia, come ci ricorda il Vangelo di Giovanni, le cui prime parole richiamano volutamente la Genesi, vi è Dio: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”: vi è solo Dio, in tutta l’infinità del suo intelletto e del suo amore.
L’idea della creazione va al di là delle nostre possibilità immaginative e intellettuali. E’ difficile rendersi conto di come dal nulla possa avere origine un qualcosa, ed è difficile la stessa percezione del nulla. La frase, spesso detta e ripetuta, che in natura nulla si crea e nulla si distrugge non solo esprime chiaramente la difficoltà di pensare a una trasformazione dal nulla all’esistenza (o, inversamente, dall’esistenza al nulla), ma apre una domanda ancora più imbarazzante: se nulla si crea e nulla si distrugge, che origine ha questa materia in cui nulla mai si perde e nulla si aggiunge? Anche l’idea di “nulla” oltrepassa la capacità intellettiva dell’uomo, perché immaginarsi il nulla è altrettanto difficile quanto figurarsi l’infinito: possiamo operare con misure e numeri grandissimi o piccolissimi, ma il salto da queste all’infinito o al nulla presenta uno stacco che mette a dura prova la nostra intelligenza. Altro è pensare allo zero come momentanea assenza di oggetti, altro è pensare a quel nulla completo in cui interviene l’iniziativa di Dio per costituire l’inizio.
La domanda sull’origine dell’universo e del tempo rimane senza risposta, se affrontata con i soli strumenti del pensiero e della ragione, proprio perché ci sono troppi fattori che sfuggono e oltrepassano le nostre capacità. La riprova si può avere osservando il modo con cui è narrato l’inizio dell’universo in tradizioni e culture che non hanno avuto il supporto di una Rivelazione che ne orientasse il pensiero. Ma la difficoltà si pone anche per i Cristiani, se è vero che uno scrittore ecclesiastico del IV secolo, Apollinare di Laodicea, che fu vescovo di Antiochia (e poi condannato come eretico), affermava che “Dio creò il cielo e la terra dall’abisso”, presupponendo così l’esistenza di un elemento primigenio che avrebbe preceduto la Creazione.
Come concepivano l’origine del mondo i pagani della civiltà greco-romana? Giulia Regoliosi, in un contributo pubblicato sul Sussidiario del 24 gennaio 2014, ha messo in rilievo due elementi importanti: l’idea costante in tutto il mondo antico della preesistenza di una materia, sia pure informe (e quindi non si può parlare propriamente di creazione, perché non c’è un passaggio dal nulla all’esistenza), e la generale ritrosia a vedere nelle figure divine dei creatori. Dalla Grecia arcaica fino alla Roma imperiale pensatori e letterati presentano l’inizio dei mondo piuttosto come la sistemazione da un disordine primitivo a una struttura ordinata, dal chaos originario al kosmos (parola, quest’ultima, che indica l’universo ma anche l’ordine, la disposizione in cui ogni cosa è al suo posto). Il passaggio non si attua in modo pacifico e indolore, ma attraverso lotte primordiali e conflitti fra divinità che hanno età, prerogative e ideali anche sensibilmente diversi. Circa il secondo punto, risulta spesso arduo ai pagani pensare che le divinità possano essersi “sporcate le mani” con la creazione. Nella sensibilità greco-romana operare con la materia, come sarebbe costretto a fare il Dio creatore, è un’azione assimilata al lavoro servile, e quindi indegna di un uomo, e a maggior ragione di una divinità: queste si fanno affiancare da un artefice (un demiurgo) che si assume l’onere del lavoro. Anche nel racconto del Timeo di Platone, che pure osserva come l’attuale ordinamento del mondo rispecchi la bontà e l’intelligenza del demiurgo, “il kosmos, l’universo fabbricato dal dio, è bello e buono per volontà dell’artefice, che l’ha voluto simile a lui. Ma l’artefice non è creatore: agisce per benevolenza verso una realtà caotica, adattando un universo preesistente, che ancora non è kosmos, a un modello di universo ideale”.
Questa difficoltà non si trova solo nel mondo greco, e ha origine antiche: i Greci ereditano qui un motivo che risale all’epoca della primitiva comunità indoeuropea: la religione degli Indoeuropei (o meglio, delle varie tribù che parlavano lingue indoeuropee) riconosceva come divinità principale il Padre Cielo, una divinità che gli storici delle religioni qualificherebbero come “deus otiosus”: definito ‘padre’, ma lontano dalle vicende del mondo e degli uomini, inerte, in una situazione di solitudine (perché le nozze con la Madre Terra avvengono in un momento successivo e solamente in alcune culture), non partecipe della creazione del cosmo, che è delegata ad altre figure.
Anche un’altra grande cultura del mondo antico, la cultura indiana, mostra la stessa difficoltà nel descrivere la creazione. Nel rigoglioso ed esuberante complesso di miti che la cultura indiana annovera, i racconti cosmogonici sono molteplici e contraddittori. All’inizio sembra esservi una figura un po’ misteriosa, il Prajāpati (nome che letteralmente significa ‘signore delle creature’), il cui rapporto con le divinità del pantheon indiano appare enigmatico (sia nella fase più antica sia nella fase dell’induismo più recente): le varie tradizioni non sono nemmeno in grado di precisare se questa figura un po’ evanescente è unica o se esistono diversi Prajāpati. Gli dèi e gli uomini sarebbero una sua emanazione, ma è difficile parlare di un atto creativo vero e proprio. La confusione è grande: già ai primordi della cultura indiana, nei Veda, i libri sacri della fase indiana più antica, e più precisamente nella raccolta intitolata Rgveda, che comprende gli inni destinati alle varie divinità, l’ignoto autore di un inno (X 129) esprime l’impossibilità per l’uomo di proferire parola su un argomento del genere: l’inno testimonia il turbamento dell’uomo di fronte a questo spettacolo primordiale in cui non esiste né l’essere né il non essere, ma vi è un Uno misterioso, un principio vitale non meglio definito, e nello stesso tempo critica i saggi che presumono di capire qualcosa: “chi veramente sa?” si chiede l’ignoto autore. Riportiamo le parti essenziali dell’inno:
A Prajāpati. 1. Allora non c'era il non essere, non c'era l'essere; non c'era l'atmosfera, né il cielo che è al di sopra. Che cosa si muoveva? dove? sotto la protezione di chi? Che cosa era l'acqua che non si scandaglia, profonda? 2. Allora non c'era la morte, né l'immortalità; non c'era il contrassegno della notte e del giorno. Senza produrre vento respirava per propria forza quell'Uno; oltre di lui non c'era nient’altro. 3. Tenebra ricoperta da tenebra era in principio; tutto questo universo era un ondeggiamento indistinto. Quel principio vitale che era serrato dal vuoto, generò sé stesso come l’Uno mediante la potenza del proprio calore. 4. Il desiderio nel principio sopravvenne a lui, e ciò fu il primo seme della mente. I saggi trovarono la connessione dell’essere nel non-essere cercando con riflessione nel loro cuore. (…) 6. Chi veramente sa, chi può qui spiegare donde è originata, donde questa creazione? Gli dèi sono posteriori alla creazione di questo mondo; perciò chi sa donde essa è avvenuta?(…)
Tornando alla Bibbia, la descrizione del Genesi costituisce un testo la cui bellezza, anche sul versante strettamente letterario, è troppo spesso trascurata: la raffigurazione di Dio che si allieta e si compiace per la perfezione della sua opera (“Dio vide che questo era buono”) e nello stesso tempo la sorveglia amorevolmente (“lo spirito di Dio era sulla superficie delle acque”) è anche un’immagine di rara efficacia poetica. Verso l’inizio (Gen. 1, 2) troviamo nel testo ebraico un’espressione un po’ misteriosa: “la terra era tōhû wābōhû”, che abitualmente si traduce “informe e vuota”. Ma la seconda parola, che non si trova in un nessun altro passaggio della Bibbia, è di interpretazione discussa. Mi è capitato diversi anni fa, in un convegno di studi, di ascoltare la relazione di un insigne specialista di lingue semitiche che, sulla base di una ampia serie di confronti e di riferimenti, dava a questa parola il valore di “eros, desiderio”. L’interpretazione non è peregrina. Anche l’inno vedico ci parla del “desiderio (che) nel principio sopravvenne a lui (l’Uno)” e la tradizione greca più arcaica parla di Eros come di una delle divinità primordiali, originate all’inizio: prima Chaos, poi Gaia (la terra) e Tartaro, poi Eros, “il più bello di tutti gli immortali” secondo il poeta Esiodo (Teogonia, v. 120). I pagani faticano a concepire l’azione di un Dio creatore e di un’azione creatrice che discende dalla sua libera iniziativa e da un suo atto d’amore, ma l’immagine del mondo come frutto di desiderio e di un misterioso atto d’amore è più immediata. Se interpretiamo il passo di Genesi come “la terra era deserto ed eros”, abbiamo un’immagine della terra percorsa da un fremito di desiderio che è in qualche modo il riflesso dell’amore di chi l’ha creata. Se Paolo, nella Lettera ai Romani (8, 23 ss.), ci descrive il Creato che, lacerato dalla ferita del peccato originale, geme e soffre le doglie del parto, qui nel Genesi avremmo la descrizione di un Creato giovane e intatto, ancora informe e solitario, ma felicemente attraversato da un’aspettativa, desideroso di accogliere la vita.