Il poeta arcaico greco Archiloco e la percezione della precarietà dell'uomo

Autore:
Morani, Moreno
Fonte:
CulturaCattolica.it
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«Ogni cosa attribuisci agli dèi: spesso infatti dalle disgrazie risollevano gli uomini che giacciono sulla nera terra, e spesso mettono giù supini quelli che camminano molto saldamente, e a questi poi capitano molte disgrazie e vagano senza mezzi e fuori di senno».
Sono le parole di un poeta arcaico greco, Archiloco, nato nell’isola di Paro da un nobile e da una schiava, che trascorse una dura esistenza da soldato mercenario partecipando alle guerre locali che per diverso tempo afflissero quella zona della Grecia. Archiloco è il più antico poeta greco per il quale possiamo stabilire con certezza una data: come si desume da uno dei suoi frammenti, assistette all’eclissi di sole che fu visibile nell’Egeo durante la primavera del 648. Le sue parole dunque permettono di percepire la voce di una sensibilità e di un modo di vedere arcaico.
Il frammento che abbiamo citato all’inizio mette in luce uno dei sentimenti che più fortemente e continuativamente percorrono l’anima greca praticamente in ogni epoca dell’antichità: la percezione della precarietà dell’uomo, la cui vita è esposta a cambiamenti repentini. Di fronte al volere degli dèi l’uomo non può nulla: deve accettarne la volontà senza possibilità né di opporsi né di piegarne la volontà secondo il proprio desiderio: poco può la preghiera di fronte alle decisioni, spesso incomprensibili, degli dèi. Essi, se lo vogliono, possono sovvertire anche le leggi della natura, facendo venire l’oscurità nel bel mezzo della giornata. Questa è la conclusione a cui il poeta arriva descrivendo lo spettacolo inconsueto e inatteso di un’eclissi solare:
«Non vi è nulla che possa dirsi inatteso o che possa essere escluso con giuramento, né tale da destare meraviglia, visto che Zeus padre degli Olimpi a mezzogiorno ha fatto venire la notte nascondendo la luce del sole fulgente, e fredda paura è calata sugli uomini».
Dopo un simile spettacolo più nulla è impossibile: potresti vedere i delfini che vagano sulla terra nascondendosi nei boschi e le bestie feroci che nuotano nel mare.
Il contrasto tra la volontà dell’uomo di essere sé stesso e la dura necessità di accettare le decisioni degli dèi diviene ancora più acuto, se si osserva che Archiloco è uno spirito ribelle, o, come oggi diremmo, trasgressivo: non si lascia abbagliare dai falsi valori o dalle convenzioni che regolano la società della sua epoca. La sua è una vita faticosa e raminga: servo di Ares, dio della guerra, ripone nella sua lancia tutti i mezzi di vita e di sostentamento. In un famoso passaggio si vanta di avere lasciato in balia del nemico lo scudo: grave colpa, perché il codice d’onore dell’epoca prevedeva che il combattente non si separasse mai dal suo scudo: “O con questo o sopra di questo”, cioè “O torni vivo col tuo scudo o torni cadavere sopra di esso”, così dicevano le madri di Sparta congedando i loro figli che partivano per la guerra. Ma abbandonare lo scudo significava per Archiloco salvare la vita, e quindi opporre un valore concreto e immediato, la vita, a una convenzione che, sia pure diffusa e ritenuta importante, era comunque astratta: «L’ho abbandonato contro la mia volontà. Ma ho salvato me stesso. Che m’importa di quello scudo? In malora lo scudo. Presto ne comprerò uno non peggiore». E a quanti esaltano i comandanti belli, tronfi, alti, biondi, secondo i canoni della poesia epica, oppone la sua preferenza per un capo che sia anche piccolo e con le gambe storte, ma che si distingua perché nella battaglia sta saldo e pieno di coraggio. La faticosa vita del soldato non gli impedisce di avere una profonda sensibilità: percepisce il fascino della bellezza femminile e ha accenti molto delicati nella descrizione di ritratti di donne, anche se la sua relazione con la sua donna è molto turbolenta e sfocia in un aspro litigio col padre di lei, che dopo avergliela promessa in sposa sembra venir meno alla parola data.
Il dramma più profondo dell’uomo greco arcaico è quello di riconoscere che tra la propria voglia di affermarsi e la possibilità concreta di attuare il suo progetto c’è una frattura, anzi un abisso: l’uomo può decidere della sua vita e del suo destino in misura molto modesta. E questo è anche più grave per un soldato che, mentre si può vantare del suo ardimento, della sua forza fisica, della sua volontà di difendersi («una cosa sola io so, e grande: replicare con colpi terribili a chi mi fa del male»), deve riconosce che, alla fin fine, «i limiti della vittoria sono fra gli dèi».
Quale rimedio dunque per l’uomo che si trova in questa situazione? Riconoscere la propria condizione e saperla accettare virilmente, perché la vita ha un “ritmo”, le disgrazie si alternano coi momenti felici, e quindi occorre continuamente fare appello alla propria coscienza umana per evitare eccessi sia in un senso sia nell’altro. Così, in un momento di disperazione (di cui ignoriamo i motivi), dal fondo della propria sofferenza il poeta avvia un accorato dialogo con sé stesso.
«Cuore, cuore, che ti affliggi in affanni senza rimedio, sollevati dalle disgrazie e difenditi opponendo agli avversari il petto stando di fronte ai nemici saldamente: e non esaltarti eccessivamente se vinci e non lamentarti prostrandoti tra le mura domestiche se sei vinto: ma gioisci nei momenti felici e lasciati andare nei momenti dolorosi senza eccessi: riconosci quale ritmo governa gli uomini».
Le vicende della vita sono spesso dolorose: una disgrazia grave ha toccato la città, quando una nave che trasportava la gioventù dell’isola è incorsa in un disastroso naufragio. In circostanze del genere si deve fare appello alla propria capacità di accettazione: tlemosýne è il termine che il poeta usa: è un termine che riassume una quantità di sentimenti: rassegnazione, resistenza, coraggio: la forza di sopportazione che nasce all’interno di te e che ti rende capace di far fronte anche alle circostanze più drammatiche: è una parola formata su una radice in stretta continuità con il verbo che significa insieme 'patire' e 'osare', e le voci derivate da questa radice sono usate spesso anche per indicare anche quell’esagerazione nell’osare che, ancora più che coraggio o ardimento, sembra temerarietà: per resistere di fronte alle vicende della vita si deve fare appello a un coraggio che rasenta l’incoscienza:
«Nessuno dei cittadini, o Pericle, né la città, biasimando il lutto e il pianto, si abbandonerà a gioie conviviali: perché l'onda del mare dal cupo fragore ha inghiottito uomini tali, e abbiamo i petti gonfi di dolore. Ma gli dèi, amico mio, per i mali incurabili hanno offerto un farmaco: la forza di sopportarli. Il dolore tocca oggi ad uno, domani a un altro. Ora ha colpito noi, e leviamo gemiti per la nostra ferita sanguinosa: poi però sarà la volta di altri. Ma coraggio, fatevi forza al più presto, mettendo da parte un lamento da donne».
Senza la luce di una Rivelazione che lo sorregga e gli indichi la strada, l’uomo greco non può fare altro che cercare dentro di sé la forza per affrontare le incertezze e i dolori della quotidianità.