Il "Bellerofonte" di Euripide: il disagio e le domande dell'uomo alla ricerca degli dèi

Autore:
Morani, Moreno
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Euripide è il più giovane dei tre grandi poeti tragici ateniesi (Eschilo, Sofocle e per l’appunto Euripide). L’epoca in cui vive è segnata dalla lunga guerra che Atene combatte con la sua rivale di sempre, Sparta, una guerra che porterà Atene al dissanguamento delle risorse economiche e ad una sconfitta disastrosa, ma soprattutto la lascerà stremata sul piano culturale e ideale. A differenza del suo quasi contemporaneo Sofocle, profondamente legato alle tradizioni culturali e religiose della città, Euripide sente il fascino di correnti culturali che rimettono in discussione il bagaglio di idee che Atene ha ereditato dai secoli passati: il suo animo è inquieto, e il poeta porta continuamente sulla scena i suoi dubbi, le sue domande, le sue ansie: di fronte ai capricci del destino, vedendo come l’ingiustizia spesso prevale sull’onestà e sulla bontà, è difficile credere che vi sia un disegno intelligente che guida il mondo e le azioni degli uomini. Come è possibile che l’uomo debba essere sottomesso a dèi che spesso lo maltrattano per puro capriccio, e addirittura lo coinvolgono in giochi di potere e di contrasto con altri dèi per poi abbandonarlo a una fine triste e immeritata?
Di Euripide ci rimangono diciannove drammi (di uno è incerta la paternità), ma vorremmo qui proporre la lettura di una tragedia perduta, il Bellerofonte, di cui ci resta un discreto numero di frammenti, sufficiente per farci un’idea del disegno generale dell’opera.
Bellerofonte è un eroe ben noto al pubblico ateniese, ed Euripide aveva già dedicato una tragedia (la Stenebea) a un altro episodio del mito che lo riguarda. In gioventù Bellerofonte, resosi involontario colpevole di un omicidio, aveva dovuto riparare a Tirinto, dove era stato ospitato da Preto, re della città. La bella moglie di Preto, Stenebea, si era invaghita dell’eroe, ma era stata respinta. Desiderosa di vendetta, aveva calunniato Bellerofonte, accusandolo di avere tentato di sedurla. Preto crede alla donna, ma, non potendo uccidere l’eroe, in quanto suo ospite, lo manda in Licia dal re Iobate, padre di Stenebea, con una lettera in cui si chiede in realtà a Iobate di ucciderlo. Non avendo il coraggio di compiere la vendetta con le proprie mani, Iobate manda Bellerofonte a compiere quella che parrebbe una missione impossibile: combattere contro la Chimera, un mostro orrendo che vomita fuoco. Con l’aiuto della dea Atena, Bellerofonte si impadronisce di Pegaso, un cavallo alato di stirpe divina, e riesce ad avere la meglio sul mostro: ritorna poi da Iobate, che gli rivela il disegno di vendetta di Preto. In preda all’ira, l’eroe decide di vendicarsi: torna a Tirinto, fa credere a Stenebea di amarla e le propone di fuggire con lui in groppa a Pegaso: quando sta traversando il mare però la disarciona e la getta in mare, dove il suo corpo verrà trovato da alcuni pescatori (era quest’ultima parte del racconto a costituire la trama della Stenebea).
Nel Bellerofonte l’eroe, ormai provato dalle molte vicende subite, addolorato e irritato con gli dèi per le disavventure che gli hanno fatto passare, in una situazione di solitudine e di angoscia, manifesta la sua sfiducia nei confronti della vita e degli dèi:
«Io – seguendo un detto generalmente ripetuto – dico che la cosa migliore per un mortale è non essere nato». Delle tre condizioni possibili di vita (la ricchezza, l’avere una bella stirpe, la povertà), la migliore è l’ultima, perché chi nasce povero e tale resta per tutta la vita non sa che cosa ha perso e che cosa significhi essere felice «come ero anch’io fra gli uomini quando la sorte mi arrideva» (fr. 285). La riflessione lo porta a concludere che gli dèi non esistono. «Qualcuno dice che vi sono degli dèi nel cielo. No, non ci sono, non ci sono. Salvo che uno non voglia, sciocco, fidarsi di un vecchio racconto di uomini. Guardate voi stessi, se non volete dare retta alle mie parole. Io dico che i tiranni uccidono moltissimi uomini e li espropriano dei beni e distruggono città trasgredendo i giuramenti. E pur facendo questo sono ogni giorno più felici delle persone pie». (fr. 286).
Queste frasi, collocate all’inizio della tragedia, dovevano essere parte di un dialogo con un altro personaggio (probabilmente il Coro), che tentava di replicare, debolmente e con argomenti poco efficaci, alla veemenza polemica dell’eroe. «Non bisogna inorgoglirsi delle proprie azioni: a loro non interessa nulla … Inganni e stratagemmi tenebrosi sono stati inventati come rimedi disumani per la necessità», afferma il suo interlocutore: è meglio rassegnarsi di fronte all’operato incomprensibile, ma comunque incontrastabile degli dèi e del destino: «Di fronte al destino tutto il resto è privo di forza».
Ma Bellerofonte non accetta una tesi così riduttiva e ha buon gioco a replicare che solo la forza e l’inganno sono alla base dei successi umani: «Le liti e le uccisioni e le battaglie bisogna operarle con l’inganno: la strada della verità è debole: la guerra si compiace degli inganni». E dunque: «Questo io voglio dirti: se gli dèi fanno qualcosa di turpe, non sono dèi». Il suo interlocutore cerca di attribuire all’incapacità di capire o all’arditezza o al senso d’onore di Bellerofonte l’amarezza di queste affermazioni, ma dal dialogo nasce alla fine in Bellerofonte un proposito estremamente audace: Bellerofonte prenderà Pegaso e in groppa al cavallo alato andrà sull’Olimpo per vedere di persona come stanno le cose e per rimproverare agli dèi il loro comportamento ingiusto e illogico. Alcuni frammenti ci permettono di assistere all’inizio del folle volo, con l’eroe che si libra al di sopra del mondo terreno: «Su, o cara veloce ala di Pegaso … Va', solleva le ali col tuo morso dorato … Affrettati, anima mia: fammi passare, fogliame ombroso: sto superando valli ricche di fonti: mi accingo a vedere il cielo sopra la mia testa, e quale sia mai la fine di questo bel viaggio» (fr. 306-308).
Come procedessero esattamente le cose non lo sappiamo, e i frammenti rimasti non ci aiutano: sembra che l’eroe sia colpito dal fulmine di Zeus, come pare evincersi da un verso superstite. L’unica cosa certa è l’esito infausto del tentativo. Bellerofonte viene riportato sulla scena ferito e dolorante, forse morente. Forse il Coro, forse un altro personaggio esprime la sua umana compassione per lui: «Portate fuori quest’uomo sfortunato … Sei stato pio verso gli dèi, finché eri in vita, sei sempre stato d’aiuto agli stranieri e non ti sei mai stancato di aiutare gli amici» (fr. 310-311). Con amarezza viene confermato che per Euripide pietà e onestà non sono doti da cui discenda simpatia e aiuto da parte degli dèi. Il finale doveva essere malinconico: un contemporaneo di Euripide, il poeta comico Aristofane, che spesso rimprovera ad Euripide l’eccesso di patetico proposto nei suoi drammi, rievoca in alcuni passaggi, con intenti di parodia, la vicenda di Bellerofonte che torna in scena zoppo e lacero (p.es. Acarnesi, vv. 418 e s..), e in una commedia, la Pace, rifà il verso alla tragedia euripidea, introducendo un protagonista di bassa condizione sociale, Trigeo, che in groppa a uno scarabeo stercorario sale in cielo per riprendere Eirene, la dea della pace che da troppo tempo ha abbandonato la città.
Pur con tutti i limiti derivanti dal carattere lacunoso del dramma, il Bellerofonte ci sembra un paradigma della ricerca greca: la tragedia porta in scena il disagio e le domande dell’uomo che s’interroga e desidera capire quale sia il senso della vita, ma la sua possibilità di capire è condizionata in limiti ristretti. Bellerofonte rappresenta l’uomo greco che vorrebbe arrivare a toccare con mano il divino, e magari gridare e protestare perché non ne capisce il modo d'agire. Ma questa possibilità è inesorabilmente preclusa: l’unico mezzo per conoscere il divino può venire dalla libera iniziativa del dio (anzi, di Dio) che si rende presente e si fa conoscere all’uomo: l’uomo da solo non può arrivare a conoscere Dio: può compiere una prima, piccola parte del cammino, senza speranza di arrivare alla meta. E per i Greci dell’epoca di Euripide l’idea che Dio potesse decidere di discendere e farsi presente tra gli uomini non sarebbe stata nemmeno pensabile.