«Chi sei tu, unico Dio fra gli dèi?» - L'altare "a un dio ignoto" e un Inno del Rgveda indiano
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
Nel discorso ai pagani di Atene, che rappresenta la sua prima uscita pubblica di fronte a un uditorio di gentili, Paolo afferma di avere visto, fra i monumenti sacri della città, un altare dedicato a un dio ignoto: “Ateniesi, vedo che in tutto siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un dio ignoto”. Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio.” (Atti 17, 22-23). Che significato può avere la fabbricazione di un altare a una divinità che non si conosce? Potremmo dare una risposta limitativa, ricordando che l’espressione “molto religiosi” con cui Paolo definisce gli Ateniesi si presta a una duplice interpretazione: la parola del testo greco potrebbe indicare infatti un timore di Dio che sconfina con la superstizione. In questo senso l’altare al Dio ignoto potrebbe essere indice di un atteggiamento formalista e nascondere in sé il timore di avere mancato di rispetto a una divinità per errore, e quindi di essersela inimicata. Proprio per evitare l’ostilità di una qualunque divinità, i pagani tendevano a porre sotto la protezione di un dio ogni oggetto, ogni pratica, ogni momento della vita. S. Agostino ci fa sapere che lo scrupolo religioso aveva finito per moltiplicare il numero delle divinità: a Roma esistevano trentamila dèi, ognuno col suo culto, le sue prerogative, la propria sfera d’azione. Nel mondo antico vige un grande formalismo: i culti e le cerimonie devono essere eseguiti in modo impeccabile pronunziando le formule di preghiera a voce alta e in maniera esatta in modo che le divinità possano sentirle: ogni errore può essere fonte di inconvenienti.
Tuttavia è possibile dare anche un’interpretazione positiva di questa frase, ed è quella che più probabilmente corrisponde al pensiero di Paolo: l’apostolo, pur irritato dal grande dispiegamento di altari e di templi dedicati agli dèi pagani (“fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli” At. 17, 16), preferisce valorizzare l’atteggiamento di fondo che sta alla base di questo altare, e in particolare il desiderio religioso che contraddistingue le migliori esperienze della cultura pagana, nella sua ansiosa ricerca del divino e del senso della vita. “Perché di lui (cioè di Zeus) anche noi siamo stirpe”, afferma un poeta pagano, Arato di Soli, e su questa frase Paolo attira l’attenzione dei suoi interlocutori ateniesi. Ma questa percezione di una misteriosa comunità di stirpe fra l’uomo e il divino, più che risolvere il problema, lo apre e lo ingigantisce, perché questa divinità appare pur sempre lontana e inconoscibile: gli dèi del mito ne possono essere un’eco pallida, in qualche caso addirittura fuorviante, con le loro azioni tutt’altro che irreprensibili, con le loro pretese di egemonia sugli altri dèi, col loro agire spesso dettato da ostilità e antipatia agli esseri umani.
In questi termini l’altare al dio ignoto appare come il risultato di una sostanziale dichiarazione di sconfitta. Il desiderio dell’uomo pagano rimane inappagato e destinato al fallimento, perché la sua è una ricerca a senso unico, operata con le sole forze della ragione e del desiderio, ma priva di soluzione, perché sembra che il dio non voglia corrispondere al desiderio dell’uomo, e rimane confinato in un’alterità inaccessibile, lasciando appena trapelare qualche brandello di sé, come una scintilla in mezzo a tenebre diffuse.
L’esistenza di un altare a un dio ignoto può sembrare persino grottesca, in un contesto culturale che già pullula di dèi e di culti. Ma vorrei, uscendo dall’ambito greco-romano, richiamare un parallelo che si trova in un altro contesto culturale che pure pullula di dèi e di culti, quello dell’India antica. Nel Rgveda, la grande e antichissima raccolta di inni dedicati alle varie divinità del ricco ed esuberante pantheon indiano, troviamo un inno che si intitola “Chi?” e che rappresenta un po’ il contraltare indiano del dio ignoto dei Greci. La data di composizione dell’inno è incerta: come per molti altri monumenti letterari dell’India antica, può esserci anche un’oscillazione di diversi secoli: possiamo indicare il 600 a.C., come termine prima del quale l’inno è stato composto. L’uomo indiano, come l’uomo ateniese, percepisce l’esistenza di una divinità maestosa che è signore e ordinatrice del creato, ne riconosce la potenza sconfinata e l’eternità, ma non trova nessuno tra gli dèi del suo pantheon che corrisponda pienamente a questa immagine. E allora non resta che rivolgersi a questo “unico Dio fra gli dèi” con questa domanda: “Chi sei tu?”, continuamente ribadita nei ritornelli di questo testo poetico, che qui riportiamo quasi integralmente (RV X 121).
«Quale germe d’oro sorse nel principio; appena nato fu l’unico signore di ciò che esiste. Egli sostenne la terra e il cielo: a quale dio dobbiamo fare omaggio con l’offerta?
Colui che dà il respiro, che dà il vigore, e al cui comando tutti gli dèi obbediscono; la cui ombra è immortalità e morte: a quale dio dobbiamo fare omaggio con l’offerta?
Colui che per la sua grandezza è divenuto unico re di ciò che respira e chiude gli occhi, del mondo; che è padrone del bipede e del quadrupede: a quale dio dobbiamo fare omaggio con l’offerta?
(...)
Colui che ha fissato il cielo possente e la terra, che ha stabilito la luce e la volta celeste; colui che nello spazio mediano fu il misuratore dell’atmosfera: a quale dio dobbiamo fare omaggio con l’offerta?
(...)
Colui che per la sua grandezza abbracciò con lo sguardo le acque, recanti in sé la capacità creativa, generanti il sacrificio; colui che fu unico dio tra gli dèi: a quale dio dobbiamo fare omaggio con l’offerta?
Non ci faccia male colui che ha generato la terra, colui che ha generato il cielo, stabilendo le vere leggi; colui che ha generato le acque scintillanti, grandi: a quale dio dobbiamo fare omaggio con l’offerta?»