Suggerimenti di lettura: quale modello per una famiglia cristiana?

Spesso psicologi e studiosi provano a spiegarci come devono comportarsi i genitori fra di loro e con i figli perché in famiglia si sviluppi un clima di allegria e di accoglienza reciproca, attraverso il quale ciascuno dei membri possa sviluppare al meglio le proprie potenzialità...
Autore:
Mereghetti, Claudio
Fonte:
CulturaCattolica.it
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... Non so voi, ma a me è spesso capitato che seguire questi preziosi consigli si è rivelato se non fallimentare, almeno complicato e poco produttivo. Certamente sarà dipeso dalla scarsa capacità del sottoscritto di attenersi alle linee guida e ai protocolli di quei … lavori.
Riassumendo in breve: non sappiamo ascoltare i figli, specialmente gli adolescenti; non sappiamo dire no, soprattutto non riusciamo mai a identificare i no giusti da dire; non sappiamo offrire esempi da seguire, anzi siamo spesso cattivi esempi; non esercitiamo in modo corretto la nostra autorità, finendo col cercare di essere amici dei figli o eccessivamente autoritari; non rispettiamo la libertà dei nostri figli, non insegniamo loro l’uso del denaro, non li abituiamo al sacrificio…
Gli studiosi ci hanno detto che la cosa più importante è non sentirsi in colpa, perché nessuno sceglie consapevolmente di non ascoltare i figli, o di essere un cattivo esempio, ma è la natura della famiglia che è cambiata, è la società moderna che ha reso ai genitori molto più difficile il compito di educare i figli. Non solo, è anche il concetto stesso di famiglia che sta venendo meno e dunque occorre sviluppare in modo nuovo le relazioni famigliari. Da ultimo: l’adolescenza è una novità storica, una invenzione della modernità, meglio un lusso della società contemporanea, e dunque occorre sviluppare flessibilità, adattarsi ai cambiamenti, provare a rinascere anche come genitori.
Salvo poi spiegarci che, in fondo, la famiglia – tradizionalmente intesa – può essere sostituita anche da altre forme di convivenza con uguali risultati per quel che riguarda l’educazione dei figli.
Ora, per fare un po’ di chiarezza in questa confusione “scientifica”, vorrei suggerire di rileggere una delle più belle pagine della letteratura italiana, certo una delle più belle di Manzoni, forse quella che rappresenta l’eredità più feconda dei Promessi Sposi: l’ultima.
In quella pagina – che contiene, come scrive Manzoni, il “sugo” di tutta la storia, cioè la parte più buona, quella che dà sapore al resto – don Lisander descrive la famiglia di Renzo e Lucia quando ormai le loro peripezie si sono concluse, gli affari vanno “d’incanto” e sono già nati, dopo la primogenita Maria, non si sa quanti altri tra maschi e femmine.
Questa pagina contiene un vero e proprio “programma” per ogni famiglia cristiana: tradizionale, fondata su un vincolo d’amore, aperta alla vita. Non ci troveremo forse tutte le risposte che cerchiamo ai nostri dubbi di educatori, ma certamente potremo riconoscervi ciò che rende il matrimonio cristiano così straordinariamente originale, il suo stile insomma.
C’è veramente tutto: l’accoglienza di nuove vite, la presenza e il ruolo dei nonni, i litigi tra fratelli, le preoccupazioni per l’istruzione, e anche le discussioni tra papà e mamma. Se poi si andassero a rileggere i paragrafi che precedono quelli qui sotto trascritti, potremmo anche aggiungere le reazioni alle scelte dei politici, le preoccupazioni per l’andamento dell’economia, i guai con la giustizia… e perfino le maldicenze dei paesani.
Quello dei Promessi Sposi infatti non è un lieto fine nel senso pieno del termine: il male è sempre presente e l’uomo potrebbe sempre scegliere di affidarsi ad esso. Manzoni costringe il lettore a domandarsi quale sia il senso del dolore nel “guazzabuglio” del mondo e della storia. Non si accontenta di aver condotto Renzo e Lucia al matrimonio, e anzi ad essi, alla loro famiglia, affida il compito di fornire al lettore proprio quella risposta. Gente semplice e umile, ma capace di vera e profonda saggezza. Perché? Perché la famiglia di Renzo e Lucia la sera, a cena, discorre. Parla di quel che è loro successo: Renzo racconta tutto fiero “le sue avventure”.
Con lo stile che appunto caratterizza una famiglia cristiana: ci si ascolta. E se non si è d’accordo con l’altro ci si impegna a trovare una soluzione da condividere “dopo lungo dibattere e cercare insieme”. Non un compromesso, ma la risposta condivisa a una comune ricerca, il cui fondamento è l’amore, unico vero vincolo su cui la famiglia cristiana si regge. Anche Renzo e Lucia partono da posizioni lontane: Renzo, l’uomo dell’esperienza, impulsivo e loquace come sempre, vede gli eventi di cui è stato protagonista in una prospettiva negativa, vi legge quel che non bisogna fare, approdando e comunicando ai propri figli conclusioni umane, condivisibili certo, ma egoistiche, volte alla difesa dei propri interessi; a Lucia questo non basta, non le pare che così si possa spiegare la presenza del dolore nel mondo.
Tale distanza è superata “dopo un lungo dibattere e cercare insieme”: non già da un compromesso, ma da una reale condivisione delle proprie più profonde convinzioni, insomma dall’amore. Quasi ad anticipare la Familiaris consortio, Manzoni enumera i compiti della famiglia cristiana: la formazione di una autentica comunità di persone che si amano; il servizio alla vita, che comporta l’impegno a trasmettere l’immagine del divino di generazione in generazione, e l’educazione della persona; la partecipazione allo sviluppo della società con i relativi diritti e doveri; la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa, in quanto Chiesa domestica.



Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d’adempire quella sua magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo.. E furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro.
Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure; e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. “Ho imparato” diceva “a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardar con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tener in mano il martello delle porte…”. E cent’altre cose.
Lucia, però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non s’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, “e io” disse un giorno al suo moralista “cosa volete che ci abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire” aggiunse, soavemente sorridendo “che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi”.
Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì speso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.


Come già aveva fatto al momento di abbandonare la propria casa, e quella “straniera… sogguardata… passando, non senza rossore”, Lucia coglie il senso più profondo della nostra vicenda umana: Dio “non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”.
Dio insomma ci prepara a compiti sempre più grandi, e ci chiama ad essi solo quando sa che siamo in grado di affrontarli. Una convinzione che lenisce e dà un senso anche al dolore più grande. Quella stessa certezza che fa scrivere a C.S. Lewis dopo la morte della moglie:


“Era troppo perfetto per durare”: questo sono tentato di dire del nostro matrimonio. Ma lo si può intendere in due modi. Può essere un’espressione di cupo pessimismo: come se Dio, accortosi che due delle sue creature erano felici, le avesse subito interrotte (“Basta! Finitela!”). Dio come la padrona di casa che durante un cocktail separa due ospiti che hanno dato segno di aver cominciato una conversazione troppo seria. Ma potrebbe anche voler dire: “Aveva raggiunto ciò che era implicito in esso, e quindi non c’era bisogno di prolungarlo”. Come se Dio avesse detto: “Bravi, questo esercizio l’avete imparato bene, Sono molto contento. Ora siete pronti per affrontare il prossimo”. Una volta che sappiamo risolvere le equazioni di secondo grado e ci proviamo gusto, l’insegnante non insiste e passa ad altro.
Perché noi abbiamo raggiunto qualcosa. Nascosta o esibita, c’è una spada che separa i sessi, finché un matrimonio totale non li riconcilia. E’ nostra arroganza definire “maschili” la schiettezza, la lealtà, e la cavalleria quando le vediamo in una donna; è loro arroganza descrivere come “femminili” la sensibilità, il tatto o la dolcezza di un uomo. Ma del resto che poveri frammenti deformi di umanità devono essere gli uomini solo uomini e le donne solo donne, per rendere plausibili i sottintesi di tale arroganza. Il matrimonio sana questa frattura. Uniti, i due diventano pienamente umani. “A immagine di Dio Egli li creò”. In questo modo, con un paradosso, questo carnevale di sessualità ci porta al di là del nostro sesso.

E quando descrive, al termine di Diario di un dolore, il momento stesso della morte di sua moglie, Lewis la ricorda così.



Quando la fine fu vicina, le dissi: “Se puoi… se è permesso… vieni da me quando sarò anch’io sul letto di morte”. “Se è permesso!” rispose. “Il Cielo avrebbe un bel daffare a trattenermi. Quanto all’Inferno, lo ridurrei in briciole”. Sapeva di usare una sorta di linguaggio mitologico, con una nota di arguzia, perfino. Negli occhi, insieme alle lacrime, le brillava una risata. Ma non c’erano miti o scherzi nel lampo della volontà, più profonda di qualsiasi sentimento…


Questa è l’essenza dell’amore coniugale, questa l’originalità della famiglia cristiana, che su quell’amore si fonda, foedus eterno, che solo trova in Dio il proprio compimento, di cui durante il tempo terreno è immagine e figura:


Che malvagità sarebbe, se ne avessimo il potere, richiamare in vita i morti. Non a me, ma al cappellano disse: “Sono in pace con Dio”. E sorrise, ma non a me. Poi si tornò all’etterna fontana.