Personalizzazione e metodo di studio - 1
Intervista a Rosario MazzeoR. MAZZEO, L'organizzazione efficace dell'apprendimento, Erickson 2005, Euro 20.00
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Fine quadrimestre, tempo di schede e di voti. S’impone ancora una volta l’annosa questione dei compiti e dello studio a casa e a scuola. Una lunga catena di ricatti, di disagi, di arrabbiature e alla fine di fughe e di abbandoni, imprigiona studenti, insegnanti e genitori. Che fare? Quale il compito della scuola, quale il ruolo della famiglia?
“Prima media. Gli occhioni di Matteo sono sinceri. Sottolineano la sua risposta alla domanda della professoressa: “Cosa ti viene in mente quando senti la parola studio?”; una risposta netta: “Studiare è una cosa annoiante, ma purtroppo è un obbligo e quindi ci vuole volontà”. Prima liceo scientifico. Stessa domanda, risposta timida, ma chiara: “Lo studio è quell’orribile azione che devo compiere tutti i pomeriggi”. Terza istituto tecnico: “ E’ una perdita di tempo”, grida nell’aula magna Michele, ma subito dopo viene corretto da uno degli organizzatori della conferenza, anch’egli studente: “Una perdita di tempo…che fa crescere!”
Serata con i genitori. La domanda è la stessa. Le risposte, dopo un momento di esitazione, vengono a raffica: “Lo studio è conoscenza… cultura… investimento per il futuro… fatica…”. Collegio docenti di una scuola primaria. Le maestre non hanno dubbi: “Lo studio è interesse… ricerca… incontro… ricchezza… curiosità… confronto…”.
“Quando parliamo dello studio – ci dice il prof. Rosario Mazzeo, autore del libro “L’organizzazione efficace dell’apprendimento”, da cui è tratto questo incipit - lo scenario è sempre lo stesso: da una parte, adulti, che quasi sempre inneggiano, spesso platealmente, al dovere, alla bellezza e all’utilità dello studio; dall’altra, giovani, che quasi sempre, pure essi vistosamente, protestano contro lo studio e contro chi l’ha inventato e ancora lo propone.
L’esaltazione degli adulti, in genere, è astratta, ideologica, retorica. La negazione o riduzione dello studio da parte dei giovani, invece, è reale e spesso drammatica. Il risultato è che la maggior parte dei ragazzi o non studia oppure vive lo studio in modo reattivo e meccanico”.
Non c’è via di scampo dunque? Come organizzare una scuola perché lo studio sia proposto, verificato e vissuto con profitto e soddisfazione?
Rispondere alla domanda è uno dei compiti del mio ultimo volume. Sinteticamente qui posso dire che si tratta di un cambiamento di mentalità. Se organizzare vuol dire innanzitutto (far) condividere dei significati, occorre fare chiarezza sulla natura dello studio e quindi sulle caratteristiche e le condizioni dell’apprendimento umano e della conoscenza come fattore di soddisfazione.
Studio deriva da studium, un termine che indica, in primo luogo, cura, ardore; secondariamente: desiderio, voglia, gusto, amore, passione; infine, applicazione assidua, esercizio.
Le parole desiderio, applicazione, esercizio possono aiutarci a “far” identificare e (far) vivere l’essenza dello studio, anche oggi?
Sì, se la proposta di applicazione all’apprendimento che vivono e fanno gli adulti (docenti e genitori) è decisa, affascinante, concreta, verificabile dal singolo studente nella compagnia che per lui conta effettivamente.
Lo studio viene molto spesso, in molte scuole e in molte famiglie, praticato solo come comando, il cui contenuto sembra essere o un trasloco di informazioni dal testo alla testa, o un auto-addestramento di abilità, o un esercizio dall’elevato tasso tecnologico in vista del sapere come possesso materiale di fogli e volumi.
Lei sostiene che lo studio non può essere semplicemente un comando, ma desiderio e tempo. Perché?
Si può dire dello studio quello che Pennac dice della lettura: è allergico agli imperativi esterni alla coscienza dello studente ovvero al suo progetto di vita qui, in questo istante, in quest’ora.
Se chiediamo a un adolescente che cosa sia per lui il desiderio, nella maggior parte dei casi egli ci indicherà un oggetto (il motorino o un capo di abbigliamento o un cellulare capace di particolari prestazioni). Anche il desiderio, che definisce l’essenza dello studio, ha come focus un “oggetto” (conoscenza, abilità, competenza). Se questo oggetto non viene percepito come parte del proprio progetto di vita, non c’ è apprendimento maturo, ovvero significativo, critico, gravido di soddisfazione.
L’esito ha due facce: un sapere da “libro stampato” e da quiz televisivo, oppure un’ignoranza impastellata con un nozionismo alla Pierino. Nel primo caso domina la presunzione del sapere, nel secondo vige l’illusione di compiere il proprio dovere (o perlomeno di “cavarsela”).
Nell’una e nell’altra situazione restano la sconfitta delle istituzioni, il disagio giovanile, il burnout dei docenti, una “scuola di follia”, come sostiene Lodolo D’Oria.
Che fare allora?
Si può e si deve organizzare la scuola (come tempo, spazi, trama di rapporti, lavoro) in funzione del desiderio di verità, di giustizia e di bellezza, concretizzabile in un progetto che abbia le caratteristiche della promessa di un “guadagno” possibile, “alla mia portata”, qui ed ora. L’efficacia di tale organizzazione è proporzionale all’esercizio motivato e motivante della professione docente, della funzione dirigente, del lavoro condiviso e cooperante degli adulti impegnati con e tra i ragazzi.
Infatti solo professionisti responsabili, competenti e capaci di lavorare in équipe possono qualificare la scuola come una comunità che apprende. C’è bisogno di maestri e non di complici di quella che Christopher Lasch definisce “cultura della sopravvivenza”, ovvero della mentalità e della prassi di vita quotidiana caratterizzata da “apatia selettiva, disimpegno emotivo, rinuncia al passato e al futuro, determinazione a vivere alla giornata”
La scuola deve ri-pensare se stessa come trama di rapporti che coltiva la domanda e pratica il dialogo, sintonizzandosi con il bisogno di significato di ogni persona. Deve organizzarsi come luogo in cui prevalgono: la domanda sul comando, la prova a re-inventare sull’abitudine ad accumulare il sapere, il rischio più che le istruzioni per l’uso, la comunicazione vivente sugli scambi linguistici puramente scolastici. Deve essere strumento dell’intelligenza, incontro tra libertà, spazio in cui si non si abbia paura delle domande e sia possibile cercare e verificare risposte, con lealtà, secondo le categorie di apertura e di possibilità che detta l’uso di ragione.
Che cosa rende la scuola un servizio alla ragione di ogni scolaro e studente, un luogo di educazione all’uso delle potenzialità della ragione?
La lotta contro l’oscuramento e la banalizzazione del significato, il rifiuto dell’omologazione culturale, la ri-scoperta della valenza delle discipline, l’impegno per la personalizzazione, la pratica delle buone relazioni tra docente e disciplina, tra docente ed alunno, tra alunno ed alunno, tra famiglia e scuola; la consapevolezza di operatori scolastici, politici e sindacalisti che la scuola non può essere confinata in un’area indistinta tra assistenza e socializzazione giovanile, che ignori la natura e le condizioni dello studio, suo vecchio compito. E’ scuola di qualità quella che non riduce il desiderio di conoscere a “voglia” da condizionare e il tempo-scuola alla somma di frammenti di aula e/o di compiti a casa da assegnare, controllare e valutare. Cosa possibile cominciando a cambiare mentalità, per esempio, proprio nei confronti dello studio e del metodo. Lo studio è esercizio della ragione, ricerca del significato delle cose mediante le materie, desiderio e tempo per conoscere sempre più la realtà. La qual cosa è possibile e verificabile acquisendo una posizione di apertura a 360 gradi.
Può farci qualche esempio dei segni e delle operazioni del cambiamento di mentalità possibile ed urgente?
Tra le operazioni urgenti da compiere in direzione di un cambiamento o ri-forma della scuola in funzione di una esperienza di studio dei ragazzi ne evidenzio qui quattro. La prima: curare la forma (orari, strutture, spazi) e i contenuti dell’offerta formativa in modo da provocare e valorizzare la messa in gioco dell’io dell’alunno con l’intraprendenza solidale e collaborativa dei docenti. La seconda: orientare e motivare alla gestione responsabile del tempo e alla pianificazione personale delle attività di studio. La terza: condividere con le famiglie e con-segnare agli alunni l’ipotesi dello studio come proposta di applicazione libera, ragionevole, sistematica, all’apprendimento significativo, critico ed autonomo. La quarta: svegliare l’uomo studente.
Mi spiego. Lo studente a scuola non sempre c’è. A volte in classe c’è il suo corpo, l’ombra del suo io, ma lui è fuori dall’aula e dalla scuola. Occorre ri-chiamarlo, pro-vocarlo alla presenza e all’azione. Occorre educarlo, cioè farlo venire fuori con tutta la sua soggettività da impegnare (ap-plicare) all’oggetto e al compito di apprendimento.
Al riguardo le risorse della scuola sono diverse. Ricordo, per esempio, la motivazione del docente e la disciplina insegnata. Se l’ora di lezione non diventa tempo in cui il docente si pensa ed agisce da persona nel suo lavoro sulla materia con gli alunni, difficilmente un ragazzo si mette in moto per imparare a conoscere la realtà mediante le discipline insegnate.