Alla ricerca del volto umano...

...nella poesia e nella narrativa tra Dante, Manzoni, Ungaretti, Pirandello e Camus
Autore:
Bortolozzo, Carlo
Fonte:
CulturaCattolica.it
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"Quella circulazion che sì concetta/ pareva in te come lume reflesso,/ da li occhi miei alquanto circunspetta,/ dentro di sé, del suo colore stesso,/ mi parve pinta de la nostra effige: / per che 'l mio viso in lei tutto era messo./ Qual è 'l geometra che tutto s'affige/ per misurar lo cerchio, e non ritrova,/ pensando, quel principio ond'elli indige,/ tal era io a quella vista nova: / veder voleva come si convenne/ l'imago al cerchio e come vi s'indova" (Par. XXXIII, vv. 127-138)
A Dante appare la visione dell'incarnazione del Creatore: all'interno del secondo cerchio, quello della seconda persona della Trinità, il Figlio, Dante vede "la nostra effige": al centro di ogni cosa sta il volto umano, "l'imago", dentro il "cerchio" divino: è l'immagine umana di Cristo. Il poeta si "india", parallelamente all'incarnarsi di Dio. Come ciò possa avvenire è Mistero: inutilmente il poeta si affatica, come il matematico alla quadratura del cerchio; come può, infatti, l'immagine limitata dell'uomo adattarsi alla perfetta circolarità di Dio? In che rapporto sta quel volto d'uomo con il cerchio in cui era contenuto e che lo conteneva?
E' la ragione umana che, per sua natura, tenta di penetrare il Mistero, alla ricerca della sua ultima soddisfazione, come l'"Icaro" di Matisse; ma è solo l'iniziativa di Dio, non lo sforzo umano, a compiere il desiderio dell'uomo: è "l'amor che muove il sole e le altre stelle" ad abbracciare totalmente "il nostro fratello Dante, nell'infinita maestà del suo nulla di uomo" (V. Sermonti).
Il secondo passaggio riguarda Manzoni. I capitoli cruciali, ai fini del nostro discorso, sono il IV e il XXIII e riguardano fra Cristoforo - quando si chiamava ancora Lodovico - e l'Innominato. Il IV capitolo è quello, celebre, del duello che susciterà la conversione del futuro frate: Lodovico uccide, come fuori di sé, il rivale che l'aveva provocato e poi, per un attimo, il suo sguardo cade sul nemico ucciso e finalmente lo "vede": in quell'attimo balena la luce della conversione. Nel suo libro "Totalità e infinito", il filosofo francese Emmanuel Lévinas scrive che "nella rivelazione di un volto si nega l'impersonalità della violenza: il faccia a faccia instaura la conoscenza dell'altro, apre l'etica del colloquio autentico tra uomo e uomo". Così sarà il volto di Lucia a cambiare l'Innominato (cap. XXIII); sarà il volto del cardinale a farlo sciogliere nel pianto dell'abbandono. "Lo sguardo instaura la dimensione di una umanità fraterna: l'accoglimento del volto altrui vince la vergogna della colpa, è già disponibilità al perdono" (Levinas). Per questo gli assassini sono senza volto, come i soldati nel famoso quadro di Goya "Los fusilamientos"; per questo i terroristi delle Br dicevano di sparare a dei simboli, non a degli uomini: se avessero guardato l'uomo avrebbero visto "pinta la loro effige" e sarebbe stato più difficile colpire. Uno sguardo umano fa diventare qualcuno il nemico, come afferma Pavese ne "La casa in collina": "Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche il nemico è qualcuno".
Propongo come terzo passaggio Ungaretti, attraverso un veloce excursus di tre testi e di tre momenti della sua poetica. La prima poesia è "Veglia": il poeta ha trascorso un'intera nottata vicino a un "compagno/ massacrato/ con la bocca/ digrignata". Da questa visione scattano le "lettere piene d'amore" di chi non è mai stato "tanto/ attaccato alla vita". E' il volto deformato dell'uomo a provocare una reazione istintiva, volontaristica, uno slancio vitale da contrapporre alla morte. Ma sarà con "I fiumi", capolavoro e sintesi della prima stagione, che il poeta s'inoltrerà nella domanda. Si riconoscerà dapprima "docile fibra/ dell'universo": con una iniziale coscienza di creaturalità, pervenendo a quel "senso di originale, totale dipendenza che è l'evidenza più grande e suggestiva per l'uomo di tutti i tempi"(Giussani). E' una consapevolezza ancora precaria, di chi non sa dare un volto e un nome a questo "Altro", le cui "occulte mani" che lo "intridono" gli regalano la "rara felicità". E' la presenza di Dio, ma l'assenza del suo volto. Bisognerà aspettare la terza raccolta, "Il dolore", altri lutti e altre speranze, per arrivare alla grande lirica "Mio fiume anche tu", autentico inveramento de "I fiumi". Un'altra guerra e ancora "fantasia ritorta/ e mani spudorate/ Dalle fattezze umane l'uomo lacera/ l'immagine divina". Dirà il poeta nel '53: "come uomo cristiano so che della vita siamo depositari e non arbitri e che nessun uomo ha il diritto di seviziare, di terrorizzare, di uccidere il suo simile." E' in sintonia il grande critico George Steiner: "Siamo gli ospiti, non i creatori della nostra vita" ("Vere presenze"). Dalle intuizioni giovanili Ungaretti giunge al giudizio esplicito: "Cristo, pensoso palpito,/ Astro incarnato nell'umane tenebre,/ Fratello che t'immoli/ Perennemente per riedificare/ Umanamente l'uomo". Dio che si fa uomo permette la divinizzazione dell'uomo, il suo "indiarsi". L'indiarsi dell'uomo fa coppia con l'incarnarsi di Dio. Ungaretti come Dante: la scoperta del volto di Dio è la scoperta del volto dell'uomo.
Come documentazione della deformazione del volto umano scelgo Pirandello, straziato testimone della crisi del Novecento, la coscienza del Decadentismo, come scrisse Salinari. I protagonisti dei suoi romanzi assumono caratteri negativi; sono degli anti-eroi, degli "inetti", secondo la grande lezione di Dostoevskij. Nel volto dei personaggi pirandelliani affiora la sofferenza interiore e la malattia della modernità. E' sufficiente pensare all'occhio strabico di Mattia Pascal, all'alterazione dei suoi connotati dopo il cambio di identità: cerca di rinnovarsi, ma da "brutto" ne esce un "mostro". Il più acuto critico di Pirandello, Giacomo Debenedetti, spiega che la deformazione fisiognomica e somatica della maggior parte dei personaggi pirandelliani "denota qualche cosa che nel loro interno è inesaudito, vorrebbe esprimersi, manifestarsi, e nella sua incapacità di farlo, ne scontorce i tratti". Sostiene il critico che, nello scrittore siciliano come in altri a lui vicini, la faccia espressionistica "è ciò che rimane nel personaggio nell'arte moderna". E' l'espressione di un disagio, come un grido contratto che si stampa sulla faccia dei personaggi, come nel Barocco. E' l'io diviso tra conscio (Io) e inconscio(Es): nel volto stra-volto si documenta l'irrazionale, il profondo, il primitivo che la civiltà moderna tenta di soffocare. Conclude Debenedetti: il brutto esprime lo smarrimento e l'angoscia, il male di vivere dell'uomo contemporaneo. Il punto d'arrivo di questa crisi sarà la scomparsa dell'umano, la sua riduzione ad animale come documenta Kafka ne "La metamorfosi". Parallelamente alla deformazione del personaggio di Pirandello, Pascoli arriverà alla deformazione del linguaggio, come dirà Contini.
Come ultimo passaggio propongo Albert Camus, il grande scrittore francese autore de "La peste". Come la peste abita la città, così il male abita il cuore dell'uomo, anche di quello migliore, come il protagonista de "La Peste" che, pur non credendo in Dio si sforza, in una sorta di ascesi laica, di aiutare il prossimo, di migliorare il mondo, tanto da chiedere come si possa diventare un santo senza credere in Dio. Ma, dice il romanzo, "viene un'ora nella vita in cui neanche questo basta; un'ora in cui ci si stanca dell'ascesi, del lavoro e del coraggio, per domandare il viso di una creatura e il volto meravigliato dell'affetto". Afferma ancora Camus: "Non vi è pace senza speranza". Perché senza speranza non possiamo vivere. Si domanda allora non appena una semplice amicizia, una consuetudine, ma una speranza speciale riflessa in un volto umano, lo stesso che affiora ne "Il primo uomo", il romanzo autobiografico uscito postumo. E' la stessa domanda che emerge in C. Milosz, nel Baricco di "Oceano mare" e di "Novecento" ed ancora in Rimbaud, Betocchi e molti altri. Ma è ancora Camus a dire tutto questo con sorprendente efficacia: "Se questo Dio riesce a commuovere è per il suo volto di uomo"(dai "Taccuini"). Il Mistero, afferma don Luigi Giussani, "si è circoscritto in un volto umano". E ' la scoperta del Tu che può dare significato all'io. "Bisogna incontrare l'amore prima di aver incontrato la morale: Altrimenti, lo strazio."; bisogna cioè "ristabilire la morale attraverso il Tu". E' la Presenza che dà significato a tutte le altre presenze. Questa Presenza non si trova al termine di una nostra affannosa ricerca, ma può essere incontrata solo per grazia e quindi si può solo domandare, implorare. E' un avvenimento tanto imprevisto quanto corrispondente alle nostre esigenze, come l'incontro di Lucia con l'Innominato: "Non è a forza di scrupoli che l'uomo diventerà grande. La grandezza arriverà, a Dio piacendo, come un bel giorno", afferma ancora Camus nei "Taccuini". E' il senso di una bellissima frase di un film di A. Tarkovskj: "Tu lo sai bene: non ti riesce qualcosa, sei stanco, non ce la fai più. E d'un tratto incontri tra la folla lo sguardo di qualcuno - uno sguardo umano - ed è come se ti fossi accostato ad un divino nascosto. E tutto diventa improvvisamente più semplice" (da "Andrej Rublev").
La salvezza è semplice come uno sguardo.