Il viaggio come metafora della vita: itinerario del senso religioso 2
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Positivo è infine il movente dell'ultimo viaggio dell'Ulisse dantesco: il desiderio ardente di conoscere, il bisogno profondamente umano di vedere ciò che è oltre. Tale urgenza esplode in tutta la sua forza davanti alle colonne d'Ercole. Egli ha solcato più volte il Mediterraneo, in lungo e in largo; ma ben più affascinante è in lui l'ignoto, ciò che è al di là del limite non valicato e che non può essere posseduto con certezza come il Mare Nostrum. Il buon senso comune si fermerebbe di fronte alle colonne d'Ercole, ma a prezzo di una rinuncia incalcolabile: perché il cuore, la ragione, proiettati per loro stessa natura verso l'infinito, esigono di andare e di affrontare il rischio:
"O frati - dissi - che per cento milia
perigli siete giunti all'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza".
Dante - Inferno XXVI, 112-120
È l'uomo che grandeggia in questi versi, l'uomo che decide di essere se stesso seguendo il richiamo del suo cuore ad andare oltre se stesso, l'invito della realtà ad oltrepassarla.
"E volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo
sempre acquistando dal lato mancino".
Dante - Inferno XXVI, 124-126
Ed eccoli navigare nell'ignoto per cinque mesi circa, finché una montagna d'inusitata altezza confusamente appare all'orizzonte. Ma la gioia per questa visione dura poco: un vento turbinoso sprigionatosi dalla terra sconosciuta investe la nave, la fa girare tre volte su stessa e poi sprofondare negli abissi "com'altrui piacque" (Inf., XXVI, 141). La tragedia è consumata; e il mare si rinchiude sopra quel pugno di coraggiosi e sopra le loro speranze, per sempre.
I mezzi per spingersi nell'immenso oceano del significato della vita non erano adeguati e il naufragio era inevitabile, come Ulisse stesso nella narrazione riconosce, definendo quell'impresa "folle volo". Tale naufragio non va però inteso come un castigo divino, ma come riaffermazione di limiti non violabili a fronte di un eccesso di maganimità. Il folle volo non è un viaggio peccaminoso, ma un viaggio destinato all'insuccesso perché un pagano come Ulisse non ha i mezzi adeguati per affrontarlo. Folle, ma non empio.
Ancora una volta è ribadita da Dante l'impossibilità del pagano, in quanto privo della Grazia e della luce della fede, di raggiungere con le sue sole forze la Verità, Dio stesso, di cui è simbolo la "montagna, bruna per la distanza" (Inf., XXVI, 134).
Resta però la grandezza dell'uomo che decide di vivere secondo il palpito più profondo del suo cuore e gli interrogativi più veri della sua ragione.
Il fascino di Ulisse è quello di un'umanità tutta tesa al destino, di un'umanità che per questo splende in tutta la sua creaturale grandezza. Come dice il Fubini: "Vinto, l'umanità non è umiliata, ma esaltata in lui" (Valeria Capelli).
La montagna che Ulisse e i suoi compagni hanno potuto intravedere in lontananza è quella del Purgatorio, sulla cui sommità è collocato il Paradiso terrestre, quella stessa montagna che a Dante sarà dato, per grazia, di percorrere. Dante, dunque, è destinato a veder compiuto nella sua esperienza il desiderio di Ulisse e il suo viaggio non sarà "folle", timore che egli stesso aveva dichiarato a Virgilio nel canto II dell'Inferno, perché tale esperienza gli sarà donata. Ecco, il punto è proprio questo: il desiderio di Ulisse è giusto ed è connaturato allo stesso essere dell'uomo, ma il tentativo di esaudirlo solo con la propria volontà e scaltrezza è peccato, anzi è il peccato originale, quello che gli antichi chiamavano hybris, indicando con questo termine un tentativo superbo di trascendere i propri limiti: non per nulla gli dei punivano spesso tale tracotanza con l'accecamento della pazzia (Gian Mario Veneziano).
"…come su una zattera, varcare a proprio
rischio il grande mare dell'esistenza,
a meno che uno non abbia la possibilità
di fare la traversata con più sicurezza
e con minor rischio su una barca più solida,
cioè con l'aiuto di una rivelazione divina".
Platone - Fedone, c. XXXV
Platone, in un suo dialogo, Il Fedone, già quattro secoli prima di Cristo ed al di fuori dell'alveo della rivelazione veterotestamentaria, trattando della possibilità dell'uomo di conoscere le verità religiose e morali così affermava: "Avere di queste cose una sicura conoscenza nella vita presente è impossibile o molto difficile". E dal momento che non è buona cosa arrendersi suggeriva una di queste soluzioni: "o apprendere da altri come stanno le cose, o trovarle da sé, oppure se ciò non è possibile, accettare almeno il migliore ed il meno confutabile dei ragionamenti umani e, lasciandoci portare su questo come su d'una zattera, navigare a proprio rischio attraverso la vita". E poi soggiungeva: "A meno che uno non abbia la possibilità di fare la traversata più sicuramente e con minor pericolo su d'una imbarcazione più solida, e cioè con l'aiuto di una rivelazione divina".