Sette domande (e relative risposte) sul matrimonio
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Parlare di amore, di quell’amore “per tutta la vita” è sempre più difficile, anche le coppie in procinto di andare all’altare spesso si lasciano andare ad esternazioni del tipo: “speriamo che duri”.
Basterebbe riflettere su questa affermazione per far scendere tutti dall’altare, che senso ha sposare qualcuno in nome di una flebile “speranza che duri” che non accada quello che sta accadendo a tutti?
Forse più che una speranza scaramantica, c’è bisogno di ricominciare ad “educarsi al per sempre”.
Riflettere su cosa tenga insieme per tutta la vita, due persone che nel corso del tempo, cambiano, sbagliano, si ritrovano.
Per questo voglio proporvi l’intervista di Rossella Simone al direttore di Tempi.
(Tempi n. 40 29.9.05).
Quando qualcuno ci consegna un pezzo della sua vita, sotto forma di testimonianza, vale sempre la pena di ascoltare e di rifletterci.
Perché è un gesto di “amicizia”, l’amicizia che “dice facendo”.
Diminuiscono i matrimoni e crescono convivenze e divorzi. Come mai?
E’ semplice, mancano le ragioni per un impegno totale con l’altro. Manca l’esperienza dell’amicizia e anche quando si prende la decisione di vivere insieme, si investe tutto sui sentimenti. I sentimenti però, lo sappiamo per esperienza, non possono sfuggire alla volubilità. Dunque l’avventura sentimentale è quel che è, una volubilità che, a meno di casi eccezionali, prima o poi si risolve in un disimpegno. Una mattina mi alzo e posso finalmente dire, con cuore più o meno sanguinante, che tra noi due c’è un terzo o una terza. Il polo sentimentale si sposta e ricomincia l’avventura. Poi ti volti indietro e cosa rimane di tutto ciò? I matrimoni diminuiscono perché grande è la confusione sotto il cielo, grande cioè è la pressione sociale, mediatica, emozionale che invita a considerare l’unione uomo-donna come la pura e semplice registrazione di un fatto sentimentale. Finito il sentimento, finisce tutto. Anzi, comincia il risentimento, la rivendicazione e tutte quelle meschinità che, spesso, accompagnano la “fine di un amore” e le trattative per gli “alimenti”. Non voglio con questo sminuire il dato sentimentale, il cosiddetto “innamoramento”. Voglio semplicemente dire che l’innamoramento, l’attrazione sessuale, il visino bello, e tutte quelle cose che ci piacciono di un uomo o di una donna, sono per così dire l’evento imprevedibile e grazioso con cui la natura ci avvicina a una persona piuttosto che a un’altra. Sono scintilla che accendono il fuoco di un rapporto a due. Ma come il fuoco ha bisogno di essere alimentato per continuare ad ardere, così l’unione tra un uomo e una donna ha bisogno di un “carburante” inesauribile, di un “tu” o dell’amicizia, che non mi fa ritirare dal rapporto con te quand’anche tu diventassi storpia, vecchia e con il viso butterato, eventualità, si capisce, che non sollecitano sentimenti a buon mercato, ma provocano a guardare alla radice dell’essere-insieme e a dire “tu”, a dire “ti voglio bene”, con una profondità che non ha paragoni con l’emotività dei vent’anni. Perciò non c’è paragone tra l’idea di amore in voga e che si crede moderna ed è invece solo bestiale - letteralmente bestiale perché inerente esclusivamente agli istinti e ai sentimenti - e l’oggettività e totalità umana del grande “tu” del matrimonio cristiano, che ci fa promettere di “rispettarti ed amarti nella buona e cattiva sorte, fin che morte non ci separi”.
Cosa è necessario, con particolare riguardo ai codici emotivi, perché un matrimonio sia per sempre?
E’ necessaria l’oggettività, cioè l’orientamento delle emozioni al giudizio di valore. è come per un figlio. Nasce, lo ami, ti strugge di emozioni, sei felice. Poi arrivi a casa e quello piange tutte le notti e tutte le notti sei costretta ad alzarti, a dargli da mangiare, a cullarlo. Uno stress insomma, una fatica. Perché dopo una settimana non lo butti dalla finestra quel figlio che rompe così tanto con i suoi mal di pancia? Perché ti costringi a un giudizio di valore? (altrimenti lo butti, il figlio, e non è forse questa la radice di tante tragedie? La disgrazia di certe mamme che non reggono, al di là di alcuni casi psichiatrici, è proprio questa: nessuno le ha educate all’oggettività, al giudizio, cose che implicano il sacrificio e la fatica rispetto al sentimento istintivo, e così piombano facilmente nella disperazione.
Ma tranne i casi clinici, non è uno stato di malattia, ma è indice di una fragilità, solitudine, assenza di compagnia al livello dei bisogni essenziali della propria umanità, una sorta di Chernobyl della coscienza di sé e della realtà tanto tipica e diffusa oggi, e diffusa perché non c’è più educazione alla realtà, all’oggettività, non c’è compagnia a un giudizio che non si fermi al livello emozionale, questa è la tragedia di oggi, la tragedia di una mentalità dominante in cui tutto è contro un’educazione del popolo che non sia puramente sentimentale).
Nella parola matrimonio è implicito il senso del materno, del procreare dunque. Le donne giovani in Italia hanno ripreso a fare figli ma continuano a divorziare o a convivere. Come lo spiega? Colpa delle donne, degli uomini.
Non ci sono colpe, c’è, come ti dicevo, semplicemente, e drammaticamente, una debolezza a livello della persona. La persona non è più educata a tenere i sentimenti al posto giusto. I sentimenti invadono tutto e la ragione, ogni ragione, viene mortificata da una sorta di dittatura delle emozioni, dalla dittatura del “sé”, dell’epressione del “sé”, da una sorta di “io” autocentrato e onnivoro che divora tutto in funzione della propria soddisfazione emozionale. Come si fa a stare insieme oltre un certo tempo, sempre più breve, se la ragione dello stare insieme è il “piacere” che io ho di stare con te e il “piacere” che tu hai di stare con me? Una volta lo chiamavano semplicemente “egoismo” e “egotismo”. Adesso è il meccanismo propulsore di ogni talk-show e gherminella con cui si attirano i giovani, facendo leva appunto su questa esaltazione del “sé”. Siamo tutti artisti, no? Dunque siamo tutti destinati alla solitudine e al ripiegamento sul ricordo malinconico del “sé”. C’è l’apice dell’educazione sentimentale di Rousseau in tutto questo. E infatti Rousseau, l’ex seminarista Rousseau, questa incarnazione del sentimentalismo moderno, era uno che si troverebbe benissimo a vivere nei nostri giorni. Ha avuto quattro figli da donne diverse e ha messo tutti e quattro i figli in orfanotrofio. Naturalmente non aveva tempo né di amare, né di educare, perché doveva scrivere trattati d’amore e di pedagogia. Da giovanissimo ventenne ho incontrato Don Giussani ed è stato per me come rinascere dall’educazione rousseauiana in cui tutti noi siamo stati e rimaniamo immersi, perché questa è la radice di quello che chiamiamo “modernità” (e invece è il vero oscurantismo), e frequentarlo ha voluto dire sentirsi provocati continuamente a un’apertura mentale, di conoscenza e di giudizio sulla vita davvero eccezionali. Una volta alcuni comuni amici discussero con lui di un film che era sembrato loro grande e affascinante, pur nel suo risvolto tragico, proprio sul piano dell’affettività. Il film era “L’attimo fuggente”, e forse molti lo ricorderanno, è la storia della poetica e struggente relazione tra un professore e i suoi allievi. Loro erano entusiasti di quel film e invece lui lo detestava. E sai perché? Perché, diceva Giussani, l’insegnante in quel film comunicava sì emozioni forti, ma non c’era niente che comunicasse dentro quelle emozioni, tanto è vero che non proponeva un’esperienza e non offriva delle ragioni. è la ragione, infatti, che fonda la dignità dell’esperienza, e ne dà l’ossatura. Il cuore dell’esperienza è affettivo, ma la struttura dell’esperienza è data dalla ragione. Questo è il problema del matrimonio: in realtà non se ne fa esperienza, non si struttura la relazione uomo-donna, perché ci si mette insieme, ultimamente, senza una ragione che non sia riconducibile al mero dato emotivo.
Il matrimonio è un sacramento, quindi sacro. Cosa è accaduto al senso del sacro nell’era, come dice il nuovo Papa, del relativismo?
Cos’è il “sacro”? Noi quando sentiamo questa parola ci viene il latte alle ginocchia perché ci evoca qualcosa di bigotto, moralistico, polveroso (e di questo decadimento del sentire dobbiamo ringraziare i clericali-clericali e i laici-clericali, direbbe Peguy). La parola latina sacramentum significa “mistero”. «Chi dice “mistero” dice “sconosciuto”, parzialmente invisibile, che supera l’esperienza sensibile immediata» osservava Karol Wojtyla, il futuro Giovanni Paolo II, in un suo bel saggio dal titolo Amore e responsabilità (che consiglio di leggere, l’unico libro che don Giussani mi fece leggere in vista del matrimonio, sono sposato con la stessa donna dal luglio 1983). Guardiamo lealmente in faccia questa parola, “mistero”. Possiamo sul serio dire che è una stupidaggine da bambini o da antichi filosofi greco-romani superati dal diluvio di rivelazioni del pensiero scientifico e tecnico moderno? Direi proprio di no. L’uomo può andare su Marte o al centro della terra, spostare il punto di Archimede che solleva il mondo fino alle stelle, ma non può sfuggire a se stesso. Non siamo forse noi stessi mistero a noi stessi? O siamo forse noi che ci diamo la vita, noi che in questo momento decidiamo di far scorrere il sangue nelle vene, noi che davanti allo tsunami diciamo, “fermati, per le potenze della nostra tecnica e del nostro pensiero, fermati natura imperiosa?”, noi che volevamo fare il bene di una persona e chissà perché ci è venuto tutto male, “però lo giuro, non hai capito, io non volevo ottenere questo risultato, volevo un’altra cosa!”. Sì, c’è del mistero nella vita umana e noi non siamo i padroni della realtà; in realtà, come diceva Lutero, noi siamo solo mendicanti. Comunque sia, l’abolizione stupida, pregiudiziale, ideologica, insomma la menzogna che è questa roba di cui ci vantiamo e che chiamiamo relativismo, produce anche un’altra cosa sgradevole, oltre alla noia e alla Babele che mi pare sia uno dei dati interessanti di questa Europa dove il relativismo è fede degli intellettuali e politica zapateriana. Produce, il relativismo, l’inaridimento della libertà fino alla sua disintegrazione. Certo, se non c’è più mistero non c’è più niente da cercare. Capisci anche tu che nel regno del relativo, cioè del molteplice che a priori stabilisce una sorta di uguaglianza tra tutte le convinzioni, le morali, le fedi e, infine, fra tutte le donne e tutti gli uomini, non c’è più niente da cercare di vero, di certo, di reale. La libertà è ridotta al livello della libertà del consumatore e dell’avventore in un bar. Stasera scelgo un Aperol e mi accompagno a quella là. Domani un Martini, e mi faccio quello lì. Insomma da cercare c’è solo la soddisfazione, è il gusto che decide, o una certa attrattiva (questo è, nell’esperienza pratica di tutti i giorni, il relativismo; questo è ciò che si insegna ai giovani e questo è il frutto della menzogna che nega l’esistenza di una realtà oggettiva fuori di sé, e torniamo all’esaltazione autocentrata dell’io accennato sopra). Insomma, non c’è più verità possibile su di me, su di te, sul mondo. Allora a cosa si riduce la libertà se non a mera opzione rispetto a oggetti interscambiabili? Se ti chiami Paola o Francesco in fondo è indifferente, i nomi non dicono più di persone uniche, oggettive, irriducibili. Dicono di una funzione espressiva, soddisfacente o meno il mio “io”, ma non più una natura unica e originale fuori di me. Non c’è più niente da cercare e in cui versarsi l’uno nell’altro, perché questa è l’amicizia, la scoperta del mistero - io non posseggo totalmente te, tu non possiedi totalmente me - di un destino comune verso cui si va, insieme, guardandoci come si guarda una cosa che ti dice, come in una certa poesia di Montale, “più in là”. Sotto questo profilo, diceva Pavese, “il sesso è un incidente”, come una tapparella che improvvisamente si chiude e pretende esaurire tutto lì. Poi invece si capisce, staremmo freschi se lo scopo dell’avventura tra un uomo e una donna fosse il sesso. Non ci sarebbe più avventura, ci sarebbe quello che oggi viene amplificato dai media come ideale. L’ideale di un’industria di uomini e donne che fanno sesso come i polli in batteria fanno le uova.
Lei ha sei figli. Cosa ha cementato la sua unione?
Sono costretto a dire Gesù Cristo, mi dispiace, ma è così. La mia unione è stata cementata dall’amicizia di Cristo che ha raggiunto me e mia moglie Annalena attraverso una catena di incontri, di amici, una tradizione che non è rimasta tradizione, parole, dogmi, preghiere, devozioni, ma una vita, una vita fatta di tutto quello che è fatta la vita, dal mangiare all’andare a letto, che si è resa esperienza umana dentro un popolo, il popolo di Cl uscito dalla vita dell’uomo don Giussani.
Fusione, complicità, abitudine, dipendenza, responsabilità, gioco, mistero. Cosa di queste e altre cose ci vogliono in una coppia che duri nel tempo?
Ci vogliono tutte queste cose insieme. Ma innanzitutto ci vuole una radice unitaria, un ideale comune che ti mette insieme, al quale sempre ritornare e dal quale sempre ripartire qualunque sia l’incoerenza o la fatica che si è costretti ad attraversare. Perché la vita non sono rose e fiori, la vita è guerra. Guerra alla menzogna che c’è in me e che c’è in te, come tentazione e come pretesa di asservire l’altro ai propri comodi. Guerra perché nella vita si affermi la verità della vita, tua e mia. Guerra perché ci si perdoni sempre, e perciò perché sempre si ricominci, insieme, qualunque sia l’offesa ricevuta o fatta. Diceva Ursula Hirschmann, non so se a Barbara Spinelli o a un’altra delle sue otto figlie che le rinfacciava il fatto di non aver chiuso definitivamente la porta in faccia a persone che le avevano fatto del male: “Ma noi possiamo soltanto amare”. Non per bontà, non per senso religioso, ma perché è l’unico nostro modo di restare nella realtà.
Galimberti scrive: «L’amore-passione che alimenta sia la visione romantica dell’amore, sia la visione mistica, è una sorta di evasione dal mondo per toccare in sogno la felicità assoluta. attraverso la fedeltà, che di per sé non è un valore, prende avvio quell’azione d’amore che di continuo crea l’altro come si crea un’opera». Cosa risponde?
Se Galimberti intende che non è la passione, sia essa mistica o romantica, che fanno l’amore tra uomo e donna, sono d’accordo. E sono anche d’accordo sul fatto che la fedeltà non è un valore in sé - d’altronde non esistono valori in sé, san Francesco non amava la natura in sé, non era un ecologista, li amava nell’amore al Mistero che fa tutte le cose - ma una grazia a cui ci si dispone se si ama, cioè se si guarda l’altro come un dono ricevuto da Dio e da offrire a Dio, che è precisamente il sacramento cristiano del matrimonio, cioè il luogo dove dire “io” con verità.
E’ in questo senso che i cattolici intendono il matrimonio e la famiglia come “cellula fondamentale della società”?
è in questo senso, a me sembra, molto ragionevole e molto laico. Perché il rapporto uomo-donna inteso come l’ho descritto fin qui è la cellula generatrice di popolo. E infatti la crisi delle società, specie europee, si vede qui. Non c’è più popolo perché c’è crisi tra uomo e donna, il luogo cioè dove per natura è iscritta anche la facoltà del generare e del generare non qualsiasi (un domani il potere potrebbe addirittura abolire la generazione naturale dei figli, e sarebbe l’apice della schiavitù), ma del generare di corpi e anime che consegnano ai nuovi venuti non soltanto la pura vita biologica (tecnicamente possibile anche a prescindere ormai da un uomo e una donna), ma il mistero dell’amore tra un uomo e una donna. Le leggi zapateriane sulle unioni gay d’altronde riflettono questo dramma. Accendono le luci della ribalta del relativismo, registrano il successo di un pensiero e di un modo di vivere che esalta l’espressione del sé a scapito dei dati di realtà, che oggi hanno successo in tutta la produzione dell’industria degli uomini e delle donne di massa. Sono leggi infelici all’epoca dell’infelicità. Ma credo che giunti all’apice della decadenza qualcosa succederà, qui e altrove in Europa. Speriamo bene. Hannah Arendt ci avvertiva: «nella società contemporanea le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una carriera, ma non a soddisfare il bisogno elementare di vivere una esistenza umana. Solo nell’ambito di un popolo l’individuo può vivere come un uomo tra gli uomini senza rischiare di morire per mancanza di forze».