L’unità autentica è un Corpo concreto (Cap. 6)
In questo sesto capitolo Florenskij, seguendo un percorso coerente e integro, parte dal nuovo soggetto generato dalla fede (v.cap v) per affrontare il grande tema dell’unità a livello ecclesiale; e ci sorprende per l’estrema liberta con cui “ammette” le diversità come “strumento” dell’unità e non come contrapposizione, come “condizioni imprescindibili” per una vera comunione.- Curatore:
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L’unità autentica è un Corpo concreto
Ciò non significa che le forme concrete della vita ecclesiale, le formule, il rito, i canoni, la struttura ecclesiastica siano qualcosa di non importante e che dovrebbe essere messo da parte in nome della riunificazione. Innanzitutto chi non rispetta le forme concrete che caratterizzano la vita religiosa della propria confessione non saprà rispettare neppure le forme delle altre confessioni, e allora la riunificazione si rivelerà falsa e pregiudizievole proprio per quella vita religiosa per la cui pienezza gli uomini si erano tanto affannati nella ricerca dell’unità. E se si proseguirà per la stessa strada, non sarà difficile riunificare anche tutta l’umanità in una certa qual vacuità umanistica. L’umanità però non ha bisogno di un’unità a sé stante, raggiunta a ogni costo, ma piuttosto di una vita nella verità e nell’amore.
Il conseguimento della verità religiosa, inoltre, non si dà in maniera astratta, ma si realizza in un ambiente concreto e traboccante di vita. In quanto appartengo a una ben determinata confessione è naturale per me ritenere che gli ordinamenti della mia Chiesa siano in grado di organizzare la vita autentica; ed è ovvio che ingannerei la mia Chiesa o i credenti delle altre confessioni se, a un certo punto, in nome dell’unità, per leggerezza o per motivi tattici, cominciassi a contestare proprio i suoi ordinamenti. Ma è ugualmente chiaro d’altro canto che, riconoscendo la loro importanza, finirei per violare il comandamento cristiano dell’amore se, come condizione assoluta dell’unità, cominciassi a porre l’esigenza che tutte le altre confessioni assumano come proprie le forme concrete di vita religiosa che caratterizzano la mia Chiesa. Se sono fermamente convinto che una determinata coscienza è sinceramente orientata verso il Cristo, ciò renderà possibile e anzi necessario il riconoscimento reciproco e l’unità, perché tutta la vita concreta fiorisce dai germogli, di lì e soltanto di lì, mentre tutto il resto dipende dal clima e dal terreno sul quale è cresciuto il seme della fede.
Ma le discordanze e le differenze saranno comunque inevitabili. In primo luogo, a causa del diverso livello di maturazione spirituale: alcune confessioni possono non essere ancora arrivate a certe forme di vita religiosa e nutrirsi «di latte e non di cibo solido» (Eb 5, 12). Non è proprio il caso qui di ingannare se stessi e di cercare di sviare l’attenzione da queste differenze di maturità spirituale e culturale, che esistono tra l’altro anche all’interno della stessa confessione, e persino in una stessa famiglia e fra le persone intellettualmente più vicine. Ma queste differenze non dicono ancora nulla contro la possibilità di un riconoscimento reciproco, perché un bambino o un ragazzo, che capiscono poco di quello che è chiaro invece a un anziano, non sono meno necessari sulla terra e graditi a Dio di quanto lo sia quest’ultimo. Quando poi si tratta di incomprensioni è chiaro che bisogna lasciare tempo al tempo. In secondo luogo, sia nel cristianesimo preso nel suo complesso sia nelle singole confessioni, vi sono delle differenze che dipendono dalla razza, dalla nazione, dal temperamento, dalle diverse esperienze storiche ecc. In questo caso a una confessione che vive secondo certe forme se ne contrappone un’altra che ha forme diverse. Si hanno allora delle forme confessionali inconsuete, che possono anche apparire organicamente estranee e incomprensibili le une alle altre; è ovvio che in questo caso sarebbe ipocrita e ingiusto far proprie queste forme estranee. Ma anche in questo caso non v’è motivo per concludere alla necessità di un reciproco misconoscimento.
La vita sobornica della Chiesa universale non è la somma delle vite dei singoli uomini e neppure di quelle delle singole Chiese: l’intero è maggiore della somma delle parti. Come l’organismo di un singolo uomo, grazie ai due diversi occhi, ciascuno dei quali è fornito di un proprio punto di vista, vede qualcosa di qualitativamente diverso da quello che potrebbe vedere se guardasse prima con un occhio e poi con un altro, così le differenze di struttura e di funzionamento dei diversi organi del Corpo di Cristo gli danno la possibilità di manifestazioni vitali che sarebbero invece inaccessibili nel caso di un’assoluta uniformità: «È necessario infatti che avvengano divisioni» (I Cor II, 19). L’occhio non assomiglia affatto alla mano, e la sua struttura gli è del tutto estranea. Ma non per questo può dire alla mano: «Non mi servi»; così come d’altro canto neppure la mano può dire all’occhio, la cui struttura le è altrettanto incomprensibile, «Non mi servi». Il fatto è che in un organismo sano tutti gli organi, ciascuno con la propria funzione differente dalle funzioni degli altri, vivono in pieno accordo tra di loro, avendo bisogno di uni negli altri e tutti concorrendo a servire un unico organismo. L’identica vita che li pervade li induce ad aver fiducia gli uni degli altri, anche quando non capiscono le funzioni e la struttura altrui, e dà loro la certezza di essere guidati e vivificati da un’unica anima, grazie alla quale appunto tutti sussistono. A chi non capisce la vita dell’intero organismo può sembrare che, dal punto di vista di un certo organo, ve ne siano degli altri che funzionano in maniera chiaramente sbagliata. Non è forse da questo restringimento della coscienza che è nata l’idea di un’inimicizia fra le nostre due gambe, che quando camminiamo fanno l’una il contrario di quello che fa l’altra? E invece è proprio questo loro antagonismo a costituire la condizione necessaria perché l’intero organismo possa camminare, mentre è evidente che se le gambe agissero sempre e contemporaneamente nello stesso modo non si potrebbe avere altro che una perenne fissità o una goffa serie di salti.
Le differenze confessionali non devono certo essere smussate in nome dell’unità; anzi è estremamente importante che queste differenze vengano chiaramente individuate. Ma ciò nonostante, se saremo veramente animati da una fiducia e da un amore sinceri -non innanzitutto gli uni verso gli altri, perché tutti noi possiamo sempre ingannarci, ma nei confronti di Colui che vive nella Chiesa universale e ne è la guida- è evidente che queste differenze non saranno per noi motivo di ostilità ma ci suggeriranno piuttosto l’idea della solidarietà del mondo cristiano e ci ispireranno un senso di devozione per i piani della Provvidenza. Noi sappiamo che lo Spirito è Uno e i doni molti. Ma questo sapere ci resta come estrinseco e noi continuiamo a considerare come autentico dono dello Spirito solo ciò che ci è consueto, mentre tutto il resto lo sottovalutiamo quando poi non arriviamo addirittura a escludere che sia un frutto dello Spirito. V’è nel nostro tempo un peccato comune a tutte le confessioni, che consiste appunto nella dimenticanza del termine «cattolico», cui nel migliore dei casi viene attribuito un significato estensivo e quantitativo mentre l’espressione katholikos indica innanzitutto qualcosa di intensivo e di qualitativo. Il cristianesimo è «cattolico» perché «tutto è stato fatto» (Gv 1, 3) per mezzo del Verbo eterno di Dio e quindi l’orientamento della coscienza al Cristo implica la pienezza e l’infinità delle manifestazioni. «Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto» (Gc 1,17). La resistenza a riconoscere nella Chiesa la Pienezza stessa è un’eresia e una forma di settarismo, quale che sia la confessione in cui simili resistenze prendono voce. Ogni singolo credente, come ogni singola parrocchia, diocesi, Chiesa e confessione, presa nella sua singolarità, ha i caratteri della limitatezza e quando si afferma in questa sua limitatezza assume inevitabilmente le forme di una setta; al contrario, la coscienza della propria limitatezza e la conseguente aspirazione a completare il proprio dono con i doni altrui, presenti al di fuori di un dato gruppo, dà un carattere di «cattolicità» alle diverse confessioni.
(6. Continua)