Il sublime 2 - Sublime “dolce” e sublime “eroico”

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Il sublime, è chiaro, ha una valenza estetica, perché riguarda l’arte, ma anche “etica”, perché è connesso con il senso di stupore, sproporzione, religiosità, in una parola, mistero, di cui l’uomo fa esperienza. È quindi una percezione della sacralità della realtà. Il cuore della questione, allora, viene traslato: ciò che è problematico non è una definizione di sublime, ma il dove lo posso trovare, come mi si pone innanzi, in una parola la forma che questo sublime assume. La questione è “Dove l’uomo trova tale percezione?” Egli la può trovare tanto nella perfezione, nella lucentezza, nella dolcezza (poetica neoclassica) quanto nella lotta, nella maestosità, nell’incommensurabilità (poetica romantica).
Mi spiego meglio:

Amor ed io sì pien di meraviglia
come chi cosa mai incredibil vide
vediamo lei, quand’ella parla o ride
che solo a sé e null’altra simiglia

Questo è Petrarca.

La mia bambina con la palla in mano
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell’estiva vesticciola: “Babbo
- mi disse - voglio uscire oggi con te”.
E io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma [....]
e ad altre cose leggere e vaganti.

Questo è Umberto Saba, invece:

Waterloo, Waterloo, Waterloo, tetro pianoro!
Come onda al colmo di un’urna troppo piena,
Nella tua bolgia di boschi, di poggi e avvallamenti,
La pallida morte mescolava gli oscuri battaglioni [...]
Poiché questi ultimi soldati, dell’ultima guerra
Furono grandi; essi avevano vinto tutta la terra [...]
E la loro anima cantava nelle bronzee trombe.

L’Expiation di Victor Hugo.

Vi potete immaginare qualche cosa di più distante tra questi tre testi? Il primo è il ritratto di un amore, uno stupore filtrato, stilizzato, levigato, eppure, proprio per questo, di una luminosità straordinaria. Il secondo è una delicata pittura famigliare, dolce, attenta ai particolari più minuti (la vesticciola, gli occhi, che sono semplicemente “grandi”, la palla, che è nella mano perché la bambina, per parlare con il padre, ha fermato il proprio gioco). Il terzo è una tremenda immagine di lotta, in cui arrivano a cozzare violentemente il Destino degli individui, dei popoli, della Storia, l’oscurità della morte, la grandiosità del valore e dell’onore. Un romantico avrebbe certo definito sublime solo Hugo. Un neoclassico Messer Petracco, per via della bellezza e compostezza della forma, della sublimazione delle passioni in una contemplazione cosciente e razionale (per quanto si parli di meraviglia), e forse, ma certamente con molte riserve (per via della mancanza di preziosità), avrebbe potuto ritenere in parte sublime la seconda. Eppure è proprio il sublime a essere comune a questi testi!
Sublime, dicevo prima, è ciò che fa intuire la sacralità della realtà. Ecco che tale sacralità emerge nel ricordare il volto perfetto e i gesti semplici di una splendida donna amata. Emerge negli occhi pieni di stupore di un padre che contempla la propria figlioletta. Emerge nello scatenarsi degli eventi storici. In tutti questi casi si ha per un istante la coscienza che la realtà ha in sé un “quid” di straordinario, dalle sue pieghe più minute alle sue manifestazioni più tremende, di inafferrabile, qualcosa di “bello” in una maniera del tutto impensabile e incredibilmente nobile, dinnanzi al quale non si può che fremere di meraviglia. Allora la disputa classici - romantici si risolve in maniera naturale: il sublime si declina in due aspetti, il “sublime dolce” e il “sublime eroico”. Il primo è solare, dolce, rassicurante, il secondo grandioso, vibrante, passionale, cioè, il primo è neoclassico, il secondo romantico. Sinteticamente, per quanto in maniera un po’ approssimativa, si potrebbe parlare di “doppio sublime”. Naturalmente, per non essere tacciato di hegelismo, queste due categorie sono assolutamente elastiche. Appressandosi al “sublime dolce” si prende coscienza di una luminosità e dolcezza tali per cui ci si arriva a sentire travolti da una grandezza soverchiante (Dante parla di “soverchio di dolcezza”):

Tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì che il suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’Amore
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.

Ecco, l’immagine di somma dolcezza e luminosità suprema della Madonna, sottolineata da parole limpidissime (“nobilitare, raccendere, Amore, pace, germinare, fiore”), che nella comprensione di Dante si sovrappongono alla coscienza della grandiosità del Disegno Divino (in parole come “umana natura, etterna”).
Più sommessamente la nostra amica Saffo:

Gli astri intorno alla luna bella
ne celano il chiaro viso
quando, colma, più risplende
sulla terra tutta.

In pochi versi tutta la dolcezza rassicurante della luce della luna, e nel contempo lo stupore per questa grandiosità che invade la terra. D’altra parte è necessario che il sublime eroico sia innervato da nitore e, in qualche modo, ordine, che chi lo voglia afferrare, e comunicare, colga anche la luminosità che quel “quid” lascia intravedere.

...Oh questo sentimento
che m’invade terribile, geloso, violento,
è certo amor: ne ha tutto, tutto il triste furore:
è amor, ma l’egoismo non ha, no, dell’amore.
Per vederti felice vorrei dare in vòto
la mia felicità, foss’anche il dono ignoto!

Questo è Rostand. La passione più convulsa e disperata viene illuminata dall’immagine, tenera, per quanto drammatica, dell’amata resa felice grazie al sacrificio.
Naturalmente, in tutte le espressioni dell’ingegno umano, la situazione è molto più sfumata di come ho delineato ora, tuttavia ritengo siano questi gli aspetti fondamentali. Allora, secondo questo discorso, il sublime diviene la principale categoria artistica: il fine dell’arte, della grande arte, ritengo sia proprio il sublime, come intuizione e comunicazione della percezione di cui dicevo prima, sublime che non può essere in alcun modo distinto dalla forma che assume, perché il esso stesso si materializza in precise forme di bellezza. La validità di questa interpretazione è rintracciabile soppesando i giudizi delle varie epoche su una grande opera.
Un esempio a tutti noto: la Divina Commedia. Applicando i criteri sopra detti, essa è uno dei più perfetti esempi di compenetrazione dei due sublimi, con prevalenza (almeno apparentemente) del sublime eroico nell’Inferno e del sublime dolce nel Paradiso. Proprio per tale mescolanza era stata tenuta in scarsa considerazione dai “classicisti”, dal XV al XVIII secolo. In epoca romantica si iniziò ad apprezzarla nuovamente... ma attenzione: quasi esclusivamente la Prima Cantica (quella in cui prevale il sublime eroico).
Individuando tale doppia natura, meglio, doppia forma del sublime viene anche superato un problema comune principalmente alle espressioni artistiche “moderne” (intendo ancora arte in senso ampio, letteratura, pittura, musica, ecc.): viene detto che oggi non ha più senso dire che l’arte ricerchi “il bello”. Valutandola con questa chiave di lettura, l’arte tenta di cogliere e trasmettere un aspetto di questo sublime, e qui è la sua grandezza. La malattia di moltissima arte moderna sta proprio nell’aver rinunziato del tutto al “sublime dolce” (e quindi nel partire subito monca) e di rinunziare spessissimo all’individuazione di una “percezione sacrale” (il sublime) universale. Molta arte moderna, insomma, giunge a tradire la propria ragion d’essere, e per questo la grande arte muore.
Vi ho annoiato abbastanza. Ce ne sarebbe da dire, ma ho già preso troppo tempo, ho voluto solo fornire qualche piccolo spunto di riflessione. Vi lascio ricordando che, come ho accennato, il concetto di sublime non appartiene solo all’arte, ma riguarda ogni più minuta piega della realtà. Suggerimenti per aiutarmi a proseguire nelle mie riflessioni sono ben accetti.