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Obliterazione della memoria - 2: Reazioni in Polonia ed Ungheria

Autore:
Mattioli, Vitaliano
Fonte:
CulturaCattolica.it
Lenin fu il primo ad istituire i campi di concentramento. Il 5 settembre 1918 fu promulgato il Decreto del Soviet dei Commissari del popolo sul Terrore Rosso. Nel testo di legge: "Salvaguardare la Repubblica Sovietica dai nemici di classe isolando questi in campi di concentramento".
Solzenicyn scriveva che 'questi' campi iniziarono nell’agosto-settembre 1918 ed aggiunge: "Sulla 'Gazzetta Rossa' di Petrograd in data 6 settembre 1918 leggiamo che il primo campo di concentramento sarà costruito a Niznij Novgorod, in un convento vuoto... In un primo tempo si prevede l'invio a N. Novgorod di cinquemila persone".

Come accennato, le 'aperture' del Rapporto risvegliarono il desiderio di autonomia e la speranza di riconquistarla.
A cominciare fu la Polonia, dove la stretta staliniana si era aggravata tra gli anni 1949 – 1953. Subito dopo la 'svolta'del Rapporto fu la prima ad evidenziare sintomi di insofferenza. Il 28 giugno 1956, partendo sempre da cause immediate di ordine economico, fu proclamato uno sciopero ed iniziarono le sommosse a Poznan. La popolazione seguì in maniera compatta gli operai. La sommossa degenerò in una vera rivolta contro la dominazione sovietica.
Come risposta fu messo in azione l'esercito, che fu occupato fino alla tarda sera del 29 giugno. "Le cifre ufficiali diedero 53 morti e 300 feriti. La tesi sostenuta dal governo e dai sovietici era che si trattava di sommosse scatenate dagli agenti imperialisti e dalla rete clandestina reazionaria" (6). Però, se la sommossa politica fu stroncata, non furono soppiantate le legittime aspirazioni autonomiste del popolo.
Nell'ottobre dello stesso 1956, si aprì l'VIII Plenum del CC del Partito Comunista Polacco. Una grande sfiducia nell'Occidente ed un sano realismo motivato anche della venuta da Mosca di una delegazione capeggiata dallo stesso Kruscev, spinsero i Polacchi a ridimensionare i loro progetti ed a tentare di salvare il salvabile.
L'ottobre polacco si chiuse così con promesse di fedeltà da una parte e con qualche possibilità di apertura dall'altra (7).
Ma ormai Kruscev andava rendendosi conto che le sue dichiarazioni nel Rapporto erano state prese troppo sul serio e che il monolite messo in piedi da Stalin rischiava di frantumarsi con conseguenze imprevedibili.
Mentre stava pensando a questo, gli scoppiò la rivoluzione in Ungheria.
Nei decenni precedenti si è molto parlato di questa rivolta. Adesso sembra caduta nell'oblio. Ma non è giusto dimenticare la memoria di popoli eroici.
Il 22 ottobre 1956 a Budapest arrivarono le notizie dei recenti avvenimenti polacchi. Fu come il segnale. Il giorno seguente gli studenti per primi accolsero l'input a dar vita ad un movimento, al quale si unirono anche parecchi docenti. Si chiese l'indizione di nuove elezioni (questa volta libere), una nuova politica economica, la revisione dei processi politici e la libertà di stampa. A queste prime richieste, se ne aggiunsero altre più audaci: evacuazione delle truppe sovietiche, elezioni a scrutinio segreto per i quadri del Partito, elezioni politiche segrete a suffragio universale con la partecipazione di altri partiti. Malgrado gli inviti alla calma del governo Nagy, l'insurrezione si sviluppò durante tutta la giornata del 24. Avvennero scontri tra gli insorti, compresi molti militari ed elementi dell'armata rossa. Imre Nagy, che agli inizi si era dimostrato contrario alla insurrezione, modificò nettamente il suo pensiero: s'impegnò ad avviare trattative con l'Unione Sovietica in vista di nuovi rapporti. Clausola primaria: ritiro delle truppe sovietiche. Il 27 ottobre fu formato un nuovo governo. Il giorno seguente, domenica 28, fu dato l'ordine di cessare il fuoco.
Circa la presenza delle truppe sovietiche fu presentata anche una protesta all'ONU.
Di fatto le truppe sovietiche cominciarono ad evacuare tra il 29 ed il 31. L'Ungheria cominciava a sentirsi libera.
Il 31 ottobre Nagy tenne un discorso: "La lotta rivoluzionaria, di cui siete stati eroi, è vinta. Queste giornate eroiche hanno dato vita al nostro governo nazionale che vuol battersi per la libertà e l'indipendenza del nostro popolo. Non tollereremo alcuna ingerenza nelle nostre questioni interne; noi ci atteniamo al principio dell'uguaglianza, della sovranità nazionale e della parità tra le nazioni" (8).
Ormai la linea era quella di una totale autonomia da Mosca. Fu proprio questo che Kruscev concepì non accettabile.
Riunì immediatamente il Politburo. Mosca si preoccupò di formare subito un nuovo governo con a capo Kadar, con il quale poter motivare il suo intervento già attuato. Infatti Kadar chiese subito l'appoggio dell'Armata Rossa per schiacciare quella che ormai veniva definita la 'controrivoluzione'.
Dopo il primo sconcerto, fu presa la drastica soluzione. "Il 3 novembre alle ore 22,00 i sovietici davano inizio ad un nuovo intervento. Il 4 novembre, alle tre del mattino, i carri armati sovietici penetrarono nei sobborghi di Budapest e alle 4, 25 aprirono il fuoco contro una caserma. Si valutò che "le forze impiegate dai sovietici variassero da 75.000 a 200.000 uomini appoggiati da 2.500 tra carri armati e autoblindate" (9).
Alle 16.00 la radio, conquistata dai comunisti, trasmette un drammatico ultimatum: se i patrioti non s'arrendono Budapest sarà distrutta dall'aviazione sovietica. Quella notte tra il 4 e 5 novembre Budapest era illuminata dai fuochi dei carri armati. L'eroica resistenza della città durò per quattro giorni. La capitale si arrese soltanto alla fine, quando le munizioni erano finite, i patrioti allo stremo delle forze catturati od uccisi.

In pochi giorni la rivolta fu domata; ma il metodo fu estremamente brutale. Io stesso ricordo le cronache del tempo: carri armati che passano sui corpi dei dimostranti che si erano stesi per terra, in segno di protesta, pur di ottenere la libertà, stritolandoli. Tutto questo per far godere a questi cittadini la libertà e la pace 'sovietica'.
"Dopo i moti berlinesi del 1953, per la seconda volta le armi sovietiche avevano tirato sui lavoratori, le forze armate della 'patria del socialismo', avevano sparato sulla classe operaia" (10).
Imre Nagy fu subito catturato e, dopo un processo, ucciso il 15 giugno 1958.
Nel mondo l'eco fu fortissima, ma non suscitò grandi reazioni da parte della diplomazia internazionale. A costei, più che occuparsi degli uomini massacrati per ottenere la libertà sembrò stare maggiormente a cuore la crisi del Canale di Suez scoppiata in seguito alla decisione di Nasser di nazionalizzare il Canale, decisa 26 luglio alla quale seguì una intensa azione diplomatica conclusasi proprio il 6 novembre per l'intervento dell'ONU.

Kruscev dedica diverse pagine delle sue memorie alla situazione ungherese. Ne parla in modo patetico, sentimentale. Sua tesi è che la controrivoluzione ungherese non era necessaria perché la situazione in Ungheria era ottimale e la popolazione non aveva motivo di lamentarsi. Per questo l'ha considerata un tentativo dell'imperialismo occidentale contro i grandi traguardi della rivoluzione e della pace sovietica. Per tali motivi si trattava solo di nemici del popolo e della classe operaia che andavano eliminati (11).
In seguito a questa forzata 'normalizzazione' altre 'velleità' furono abbandonate. Ma non per questo diminuì il malcontento e l'esasperazione. Specialmente a Berlino le fughe dalla Zona EST alla Zona OVEST divennero per il regime troppo frequenti e preoccupanti. Per questo, sempre durante il 'principato' di Kruscev, fu decisa l'erezione di quel famigerato 'muro' di Berlino, nella notte tra il 13/14 agosto 1961, che rimase in piedi fino alla famosa 'caduta', l'abbattimento il 9 novembre 1989, che ha costituito l'inizio del crollo dell'URSS.

La parola non mantenuta

Abbiamo visto che nel febbraio Kruscev denunciava i crimini di Stalin come frutto non del sistema, ma conseguenza di una mente malata, appunto quella di Stalin. In tal modo è riuscito a salvare l'ideologia marxista ritenendo quei crimini non una sua conseguenza e contemporaneamente ha voluto separare l'operato del Dittatore dall'apparato del Partito liberandolo dalla responsabilità dei crimini, attribuiti solo a Stalin divenuto così il capro espiatorio della situazione.
A questo punto sorge una domanda: Kruscev era sincero, oppure si trattò di un freddo calcolo politico per salvare… la propria pelle? Inoltre: il periodo staliniano è da considerarsi una parentesi nera oppure è la conseguenza necessaria della ideologia?
Se fossero vere le prime ipotesi, a distanza di soli pochi mesi, Kruscev avrebbe dovuto prendere le distanze dai metodi staliniani e capire che l'anelito di un popolo alla sua libertà ed autonomia è di ordine naturale e da rispettarsi. Invece ha schiacciato queste esigenze con sistemi ancora più brutali di quelli usati dallo stesso Stalin.
Il che significa che l'era staliniana non è una deviazione dal sistema ma la conseguenza logica dello stesso. Tanto è vero che questo atteggiamento lo si riscontra già in Lenin e continua anche nei successori di Kruscev.
Lenin infatti fu il primo ad istituire i campi di concentramento. Il 5 settembre 1918 fu promulgato il Decreto del Soviet dei Commissari del popolo sul Terrore Rosso. Nel testo di legge: "Salvaguardare la Repubblica Sovietica dai nemici di classe isolando questi in campi di concentramento". Solzenicyn scriveva che 'questi' campi iniziarono nell'agosto – settembre 1918 ed aggiunge: "Sulla 'Gazzetta Rossa' di Petrograd in data 6 settembre 1918 leggiamo che il primo campo di concentramento sarà costruito a Niznij Novgorod, in un convento vuoto… In un primo tempo si prevede l'invio a N. Novgorod di cinquemila persone" (12).
Lenin non progettò soltanto i campi concentramento ma proclamò anche il terrore come sistema politico e di governo. Il 17 maggio 1922 inviò una lettera al Commissario per la Giustizia: "Compagno Kurskij, ad integrazione del nostro colloquio vi invio l'abbozzo di un paragrafo supplementare (il 58 riveduto, n.d.A.) per il Codice Penale… L'idea fondamentale è chiara: porre una tesi di principio sul piano politico, motivante l'essenza e la giustificazione del terrore, la sua necessità, i suoi limiti. Il Tribunale non deve eliminare il terrore; bisogna giustificarlo e legittimarlo sul piano dei principi, chiaramente, senza falsità e senza abbellimenti" (13).
Il riferimento alle origini culturali mette in chiaro il fenomeno. Lo stalinismo non è nato con Stalin; non è morto con lui. Era sorto prima; sopravvisse anche dopo.
Si può concludere che lo stalinismo non è una 'escrescenza' del sistema, ma è intrinseco al medesimo.
Le riflessioni del Revel sono quanto mai vere: "L'illusione dei liberali di sinistra filocomunisti consiste nell'idea che esista un comunismo diverso dallo stalinismo. Lo stalinismo, al contrario, è l'essenza del comunismo. Ciò che cambia non è il sistema stalinista, ma la sua applicazione più o meno rigorosa… Kruscev e Breznev non sono stati meno stalinisti di Stalin, nel senso che hanno conservato il suo ordine… Non poteva essere diversamente. A Mosca, come a Pechino o ad Hanoi, un comunismo non stalinista si distruggerebbe da solo… Un'esperienza storica, ormai abbastanza vasta permette di concludere, non in teoria ma attraverso la constatazione dei fatti, che non è mai esistito e non esiste un regime comunista non stalinista" (14).
Infatti la repressione è continuata anche dopo Kruscev. Un esempio per tutti: l'invasione della Cecoslovacchia nel 1969.
Adesso l'Impero Sovietico nell'URSS è tramontato. Ma il sistema politico continua a dominare in varie parti del mondo. Tuttavia, anche dove il comunismo non esiste più come sistema politico, la sua ideologia continua a sopravvivere nella mente dei comunisti (od ex, come desiderano farsi chiamare). E' da questi che ci si deve ancora guardare, tenendo conto dell'antico proverbio: "Il lupo perde il pelo ma non il vizio".

Note

7) F. Gaeta, o.c., p. 591 s.
8) Testo cit. in J. Duroselle, o.c., p. 248.
9) Ibidem, p. 249.
10) F. Gaeta, o.c., p. 596.
11) Kruscev Ricorda, o.c., p. 454 s.
12) A. Solzenicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano 1975, vol. II, p. 21.
13) V. Lenin, Opere Complete, Editori Riuniti, Roma 1969, vol. XXXIII, p. 325.
14) J. F. Revel, La tentazione totalitaria, Rizzoli, Milano 1976, p. 22.

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