Il calendario del 26 Giugno

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Eventi

▪ 1288 – A Pieve al Toppo, presso Civitella in Val di Chiana (AR), i ghibellini aretini sconfiggono i guelfi senesi nella battaglia delle Giostre del Toppo

▪ 1483 – Riccardo III diventa re d'Inghilterra

▪ 1749 – Il Papa Benedetto XIV pubblica la Lettera Enciclica Apostolica constitutio, sulla preparazione all'anno del Giubileo universale

▪ 1754 – Il Papa Benedetto XIV pubblica la Lettera Enciclica Cum religiosi, sull'istruzione dei fedeli nelle cose della fede

▪ 1819 – Viene brevettata la bicicletta

▪ 1826 – La Repubblica di Cospaia viene sottomessa al Regno della Chiesa.

▪ 1831 – Leopoldo I diventa il primo re dei Belgi

▪ 1870 – Viene portata per la prima volte sulle scene l'opera di Richard Wagner La Valchiria

▪ 1924 – Le forze di occupazione statunitensi lasciano la Repubblica Dominicana

▪ 1944 - Tre aerei della Royal Air Force bombardano la Repubblica di San Marino causando 66 morti.

▪ 1945 – Viene firmato lo statuto delle Nazioni Unite

▪ 1948 – Gli alleati occidentali danno il via al Ponte aereo per Berlino dopo che l'Unione Sovietica ha bloccato l'accesso via terra a Berlino Ovest

▪ 1960 – Madagascar ottenne l'indipendenza dalla Francia.

▪ 1963 – John F. Kennedy pronuncia la famosa frase: Ich bin ein Berliner

▪ 1973 – Eamon de Valera rassegna le sue dimissioni dalla carica di Presidente della repubblica d'Irlanda

▪ 1975 – Indira Gandhi stabilisce un governo autoritario in India

▪ 1976 – Apre al pubblico la più alta torre di comunicazione del mondo, la CN Tower.

▪ 1977 – Ultimo concerto di Elvis Presley

▪ 1979 – Muhammad Ali si ritira

▪ 1983 – Italia: si svolgono le elezioni politiche

▪ 1997 – La Corte Suprema degli Stati Uniti sentenzia che il Communications Decency Act viola il Primo emendamento

▪ 2000 – Viene divulgato il testo del terzo segreto di Fatima

▪ 2006 - Si celebra, in Italia, la seconda delle due giornate del referendum costituzionale del 2006

Anniversari

* 363 - Flavio Claudio Giuliano (in latino: Flavius Claudius Iulianus; Costantinopoli, 6 novembre 331 – Maranga (Mesopotamia), 26 giugno 363) è stato un imperatore e scrittore romano, l'ultimo sovrano dichiaratamente pagano, che tentò senza successo di restaurare la religione romana dopo che essa era stata abbandonata a favore del Cristianesimo da suo zio Costantino I e dal figlio Costanzo II.
Cesare in Gallia dal 355, un pronunciamento militare nel 361 e la contemporanea morte del cugino Costanzo II lo resero imperatore fino alla morte, avvenuta nel 363 durante la campagna militare in Persia.
Fu chiamato Giuliano l'Apostata dai cristiani, che lo presentarono come un persecutore, ma in realtà nel suo regno vi fu tolleranza nei confronti di tutte le religioni, comprese le diverse dottrine cristiane. Giuliano scrisse numerose opere di carattere filosofico, religioso, polemico e celebrativo, in molte delle quali criticò il cristianesimo.

▪ 1541 - Francisco Pizarro (Trujillo, circa 1475 – Lima, 26 giugno 1541) è stato un condottiero spagnolo, conquistatore dell'Impero Inca e fondatore della città di Lima, attuale capitale del Perù.

Origini
Era un figlio illegittimo di un distinto colonnello di fanteria, Gonzalo Pizarro Rodríguez de Aguila, detto "el largo" che, al seguito del grande condottiero spagnolo Gonzalo Fernández de Córdoba, si distinse nella campagne militari in Italia e in Navarra. La madre, tale Francisca Gonzales y Mateos, era una donna di umili origini, probabilmente una fantesca della sorella del colonnello, Beatríz Pizarro.
Nacque sicuramente a Trujillo, ma l'anno della sua nascita è incerto e i suoi molti biografi hanno proposto date contrastanti, comunque comprese tra il 1471 e il 1478, anche se la più probabile sembra il 1475.
Malgrado fosse nato al di fuori del matrimonio, Francisco venne riconosciuto dal padre e poté assumerne il nome, ma non per questo venne ammesso nella famiglia dei Pizarro e crebbe con la madre ed i parenti di questa. La sua educazione fu assai limitata e pare che non sapesse leggere e scrivere, anche se era capace di riprodurre la sua firma, come provano alcuni documenti da lui sottoscritti.
Sulla sua fanciullezza sappiamo che essendo la madre una contadina, e poiché non fece formalmente parte della famiglia del padre, fu un contadino anche lui: un pastore di maiali, fuggito nelle Americhe, per timore della punizione conseguente alla perdita di un esemplare.
Sappiamo poco della vita di Francisco Pizarro prima del suo arrivo nelle Indie, avvenuto nel 1502 con la spedizione di Nicolás de Ovando, il nuovo governatore dell'isola di Hispaniola, anche se lo storico cinquecentesco López de Gómara parla di una sua esperienza militare in Italia, al seguito del padre e in compagnia di suo fratello Hernando

Gli anni in America centrale
Le prime notizie degne di nota lo vedono partecipare, nel 1509, alla disgraziata spedizione di Alonso de Ojeda verso Urabá nell'attuale Colombia. Nel 1513 si aggregò a Vasco Núñez de Balboa che, esplorando l'istmo di Panamá giunse fino alle coste del Pacifico. Successivamente, quando Balboa cadde in disgrazia presso le autorità spagnole, fu proprio Pizarro che provvide al suo arresto e, che per ricompensa della sua azione, venne nominato dal governatore Pedro Arias Dávila, sindaco della città di Panamá. Dal 1519 al 1523 si dedicò allo sfruttamento di alcune "encomiendas" che gli apportarono un piccolo capitale, sufficiente a vivere agiatamente, ma non adeguato alle sue ambizioni.

Le spedizioni in America del Sud
Nel 1522 giunse a Panamá la notizia delle immense fortune rinvenute da Hernán Cortés nelle sue spedizioni in Messico. La fortunata avventura stimolò in Pizarro il desiderio di eguagliare il suo valoroso concittadino e le sue mire si indirizzarono verso i territori meridionali, ancora inesplorati e sulla cui ricchezza circolavano svariate leggende.
Erano però necessari degli ingenti capitali e una autorizzazione governativa, ma entrambi vennero trovati grazie ad una associazione con altri interessati. Questi erano un altro avventuriero, Diego de Almagro e l'ecclesiastico Hernando de Luque. Almagro era, come Pizarro, un veterano delle Indie, provato in svariate imprese nel Nicaragua e desideroso di incrementare la sua fortuna. Era piccolo di statura, ma coraggioso quanto pochi e avvezzo alle vicissitudini in terre inesplorate. Era franco, leale e generoso e possedeva innata la capacità di comandare e di farsi apprezzare dalle sue truppe. Luque era solo un prestanome, in quanto il capitale che immise nell'impresa veniva da un alto personaggio, il giudice Gaspar d'Espinosa, che non voleva figurare. Un quarto socio, ancora più occulto di Espinosa, era, infine, il governatore Pedrarias, che pretese un quarto dei possibili proventi per concedere la necessaria autorizzazione.
La spedizione, partita nel 1524, si rivelò un vero disastro. Le coste dell'odierno Ecuador erano allora per un buon tratto selvagge e inabitate, ma gli esploratori non ne erano a conoscenza e procedettero ad una capillare ricognizione tra giungle ostili e palude malsane perdendo numerosi uomini. Quando infine decisero di rientrare a Panamá, con un nulla di fatto, dovettero affrontare l'ostilità del governatore che rinfacciò loro la scomparsa di tanti soldati. Solo la diplomazia di Luque permise di ottenere l'autorizzazione per un ulteriore tentativo, ma Pedrarias pretese di essere sciolto dalla società in cambio di 1.500 pesos d'oro e, con quella limitata somma, perse così ogni diritto sul futuro tesoro del Perù.
La seconda spedizione non ebbe, almeno all'inizio, risultati migliori della precedente e mise a repentaglio la vita di tutti i suoi componenti perennemente in lotta con le insidie della giungla e la minaccia di morire di fame. Almagro, tornato a Panamá per rifornirsi, venne arrestato dal nuovo governatore, Gabriel de los Ríos, che inviò tuttavia un vascello per far rimpatriare i sopravvissuti.
Pizarro però si ostinò nel suo tentativo e con tredici commilitoni rifiutò di reimbarcarsi, dichiarandosi disposto a morire sul posto piuttosto che rientrare umiliato . Le preghiere di Luque e le richieste di Almagro ottennero, infine, dal governatore il permesso di inviare un piccolo vascello, al comando del pilota Ruiz, per raccogliere quegli irriducibili, sotto, però, la condizione perentoria di cessare ogni esplorazione nel lasso di tre mesi.
Quella che doveva essere una spedizione di soccorso si rivelò invece la vera chiave di volta per la scoperta del regno degli Inca. Ruiz infatti incrociò una balsa carica di indigeni e seppe dell'esistenza di una ricca città poche leghe più a Sud. Imbarcato Pizarro, decise di veleggiare in quella direzione e pervenne effettivamente a Tumbez, la porta marittima dell'impero peruviano. Quando tornarono a Panamá, i fortunati esploratori potevano mostrare , a riprova dei loro racconti, alcuni monili d'oro, dei manufatti elaborati e alcuni lama, unitamente a dei giovani indigeni raccolti sul posto.
I loro racconti parlavano di una città in pietra, ricca d'oro e segno evidente di una civiltà progredita, ma la loro fama era ormai rovinata e tutti li presero per pazzi ed invasati e nessuno, tanto meno il governatore, prese in esame l'ipotesi di procedere ad una ulteriore spedizione.
L'ostinazione era però la caratteristica principale di Pizarro e dei suoi soci e, i tre, quantunque rovinati, concepirono l'ardito proposito di chiedere aiuto direttamente alla Corona. Con un ultimo sforzo riuscirono a raggranellare, a prestito, il denaro necessario e Pizarro, a nome di tutti si imbarcò per la Spagna.

La Capitulación con la Corona
Il rozzo soldato trovò a Corte un ambiente favorevole, grazie ai recenti successi di Hernan Cortes e riuscì a convincere i regnanti del possibile successo dell'impresa che era venuto a offrirsi di guidare. Era del resto una consuetudine della politica spagnola quella di incoraggiare ogni sorta di spedizione purché i suoi promotori provvedessero a finanziarla personalmente. La Corona interveniva con una ridotta partecipazione alle spese, per lo più alcuni cavalli e pochi cannoni e si riservava il quinto di ogni futuro provento. Le cariche erano offerte con generosità, cosi come le prebende future perché potevano essere esercitate e riscosse soltanto a successo avvenuto.
Pizarro ottenne così l'autorizzazione ad armare una propria spedizione impegnandosi a reclutare, a sue spese, un esercito di duecentocinquanta uomini. In cambio otteneva la carica di governatore dei futuri territori conquistati, di "alguacil major" e "adelandato" dimenticandosi di patrocinare la posizione di Almagro che veniva nominato soltanto comandante della fortezza di Tumbez.
Gli stipendi relativi erano, ovviamente «todos pajados de la renta de la dicha tierra»
Nelle condizioni si prevedeva che venissero arruolati, in Spagna, almeno centocinquanta uomini e questo non era un problema da poco perché imponeva di convincere un numero importante di futuri soldati a recarsi nel Nuovo Mondo con la sola speranza di un buon esito della spedizione, in quanto, in caso di insuccesso non avrebbero guadagnato alcunché.
Pizarro pensò bene di rientrare nel paese natale per cercare degli adepti, ma trovò solo l'entusiastica accoglienza dei suoi fratelli. Essi erano Hernando, l'unico figlio avuto dal padre, il colonnello Gonzalo con la legittima consorte e altri due, sempre riconosciuti dal prolifico genitore, ma nati da madri diverse. Si trattava di Juan e di Gonzalo, ambedue giovanissimi, coraggiosi, ma sprovveduti e smaniosi di cimentarsi in imprese guerresche. Completava la schiera familiare Martín de Alcantara, un fratello di Francisco per solo parte di madre.
Con i suoi fratelli e poche altre decine di animosi, Pizarro era ben lungi dall'adempiere alle condizioni richieste, ma scaltro e determinato com'era salpò ugualmente dalla Spagna senza sottostare al controllo degli ufficiali governativi.
Giunto nelle Americhe dovette affrontare l'ira di Almagro che si sentiva defraudato dei suoi diritti, ma ancora una volta la diplomazia di Luque doveva aiutarlo a superare ogni divergenza ed infine, nel gennaio del 1531, una audace brigata muoveva alla volta delle terre del Sud. Si componeva di poco meno di duecento uomini e disponeva di sole tre navi, ma era animata da una forte determinazione.
La conquista dell'impero degli Inca era cominciata.

La conquista dell'impero inca - Ingresso degli Spagnoli
L'arrivo a Tumbez fu deludente. La cittadina era stata distrutta e nulla restava della magnificenza che gli Spagnoli avevano ammirato durante la loro precedente visita. Nell'impero era in corso una guerra civile tra i fratelli Atahuallpa campione di Quito e Huascar, signore del Cuzco e Pizarro pensò di approfittarne offrendo i suoi servigi ad uno dei contendenti per inserirsi nella lotta per il potere supremo. Non era facile, però, scegliere il partito giusto perché le notizie erano contrastanti e, nell'attesa di prendere una decisione, gli Spagnoli accolsero benevolmente le ambascerie di entrambi gli avversari.
La guerra civile decise per loro, perché mentre erano ancora sul litorale Atahuallpa ebbe ragione del fratello e fu giocoforza confrontarsi con lui. Il nuovo sovrano teneva la sua Corte a Cajamarca e gli Spagnoli dovettero scalare le Ande per giungere ad incontrarlo. Lungo il cammino, che si svolgeva su ripidi sentieri di montagna ed attraversava gole scoscese, avrebbero potuto essere facilmente sopraffatti, ma evidentemente questa non era l'intenzione dell'Inca, perché furono lasciati proseguire senza difficoltà. Giunsero in vista della città il 15 novembre del 1532 e, dall'alto del colle che la sovrastava, ebbero, per la prima volta, la visione dell'immensità delle forze che si proponevano di affrontare. Atahuallpa li attendeva con un esercito di più di trentamila uomini attendato nella pianura circostante.

L'eccidio di Cajamarca
Pizarro decise di esplorare le intenzioni del sovrano e inviò una ambasceria composta da suo fratello Hernando e da Hernando de Soto. I due distinti cavalieri tornarono impressionati dalla dimostrazione di forza e di disciplina delle armate peruviane, ma portarono anche la notizia del prossimo arrivo di Atahuallpa, previsto per l'indomani, nella città che, nel frattempo, gli spagnoli erano autorizzati ad occupare.
Memori delle esperienze di Cortes, gli avventurieri concepirono un piano audace per impadronirsi della persona dell'Inca, consapevoli che il loro numero esiguo non avrebbe permesso di cimentarsi in una battaglia campale. La notte passò in preparativi e in preghiere e il giorno successivo tutto era pronto per accogliere l'ignaro sovrano.
Sull'incontro ufficiale e risolutivo degli spagnoli con l'Inca esistono molte versioni. Di certo sappiamo che Atahuallpa entrò nella piazza con un seguito ridotto composto da dignitari disarmati. Era tanta la fiducia dell'Inca sulla superiorità delle sue truppe, numericamente soverchianti l'avversario, che non si aspettava di essere attaccato da un drappello di nemici. Il suo esercito stazionava nei pressi e da solo incuteva rispetto e lo garantiva da ogni sorpresa, ma il sovrano non aveva fatto i conti con l'audacia degli Spagnoli.
L'attacco fu preceduto da preliminari. Il domenicano Vicente de Valverde si fece avanti da solo nella piazza, con un interprete indigeno e pretese di illustrare ad Atahuallpa i dettami della fede cristiana. Spiegò pomposamente che il suo signore, il Re di Spagna era il legittimo proprietario di quelle terre, in quanto investito dal sommo Pontefice e chiese che il sovrano del regno degli Inca si riconoscesse suo vassallo. Atahuallpa, tra il sorpreso e l'indignato, chiese da dove venissero queste pretese e il domenicano gli mostrò la Bibbia. L'inca gliela prese di mano e la guardò con attenzione, poi l'accostò all'orecchio e, non sentendo alcun suono (la parola di Dio), stizzito la gettò per terra. Il religioso devotamente la raccolse e cominciò a gridare "È l'Anticristo! È l'Anticristo!" Fonte: John Hemming "La fine degli Incas". Secondo alcuni cronisti presenti all'avvenimento, incitò Pizarro ad attaccare gli infedeli, in nome delle Fede, secondo altri si limitò a riferire i particolari dell'accaduto, comunque, poco dopo il suo rientro gli Spagnoli partirono all'attacco. Di certo, vale la pena di osservare che Pizarro non aveva nessun bisogno di essere stimolato per passare all'azione, dato che dalla sera precedente aveva preparato minuziosamente l'assalto e aveva disposto i suoi uomini al riguardo.
L'azione fu talmente rapida ed inaspettata che gli inca, tra l'altro disarmati, non furono in grado di opporre alcuna resistenza e caddero, schiere su schiere, sotto i colpi micidiali dei "conquistadores". Atahuallpa venne catturato personalmente da Pizarro e trascinato all'interno di una costruzione, mentre la carneficina continuava implacabile senza che l'esercito inca, privo di ordini, accennasse ad intervenire. Quando scese l'imbrunire la tragedia era compiuta e migliaia di corpi giacevano nella piazza e nelle adiacenze a testimoniare la durezza dello scontro.
Nell'analisi del conflitto, nonostante l'enorme differenza numerica, non bisogna dimenticare che gli Inca non conoscevano né il ferro, né altre armi che non fossero frecce o mazze o fionde, evidentemente poco efficaci contro le armature e le spade d'acciaio degli spagnoli, che contavano tra l'altro su alcuni piccoli pezzi di artiglieria, ubicati in modo strategico nella piazza, su un gruppo di archibugieri e soprattutto sugli immancabili cavalli.

Prigionia e morte di Atahualpa
Atahualpa fu per un certo periodo di tempo assai utile alla causa spagnola che era, da Colombo in poi, magari per motivi diversi, sempre la stessa: l'oro.
Nella speranza di salvarsi la vita, avvedutosi della cupidigia degli Spagnoli per l'oro, offrì un favoloso riscatto, in oggetti del prezioso metallo, pari a quanto poteva essere contenuto nella stanza in cui era rinchiuso fino all'altezza di una riga tracciata con il braccio teso. Secondo alcuni la stima dell'ammontare è pari a oltre 40 milioni di euro in oro e argento. Si tratta di una cifra probabilmente assai inferiore alla realtà, pur senza considerare il valore artistico dei pezzi, fusi senza rispetto per l'artigianato e l'arte incaica. Stime più affidabili parlano di un volume di circa 80 metri cubi solo di oro.
Per ottenere questo risultato Atahuallpa fece spogliare i templi del suo regno da ogni oggetto prezioso, ma ciò nonostante i suoi carcerieri, rinnegando la parola data, si rifiutarono di lasciarlo in libertà ed anzi decisero di giustiziarlo. Per la verità Pizarro si oppose, per un certo tempo, a questa drastica decisione, ma infine, esortato da Valverde e dal tesoriere della Corona, Riquelme, acconsentì alla sua esecuzione.
Il 26 luglio 1533 Atahuallpa venne pertanto giustiziato, in lacrime davanti alla moglie ed i due figlioletti,nella piazza principale di Cajamarca con lo strumento della garrota. Avrebbe dovuto, secondo la sentenza di morte, essere bruciato sul rogo, ma le modalità dell'esecuzione vennero mutate in seguito alla sua conversione in extremis e conseguente battesimo. Ovviamente è tutta da considerare la spontaneità del suo passaggio alla Fede cristiana.

Conquista del Cuzco
La conquista proseguì con la presa del Cuzco, la capitale inca strenuamente difesa da Quizquiz, il generale in capo delle armate di Atahuallpa che non poté evitare la perdita della città. In questa fase furono determinanti le defezioni alla causa degli inca di buona parte delle tribù soggette ai signori del Cuzco, che si schierarono con l'invasore. Gli Spagnoli operarono accortamente per alimentare queste rivalità e nominarono dei sovrani fantoccio da dirigere per i loro fini, contando sulla fedeltà del popolo alle istituzioni incaiche. Tupac Huallpa fu il primo di questi collaborazionisti e, alla sua morte venne eletto Manco II un fratello di Atahuallpa già fedele di Huascar, che però si sarebbe rivelato tutt'altro che manovrabile.

Pizarro governatore
Pizarro, nel frattempo, ormai governatore di un vasto impero, ambiva a strutturare i territori amministrati in una forma che desse lustro all'importante carica che occupava. Il Cuzco era stata la capitale degli Inca, un popolo montano i cui interessi erano lontani dal mare. Gli Spagnoli, invece, legati alla madrepatria e alle altre colonie avevano necessità di un accesso all'Oceano che garantisse duraturi rapporti con gli altri compatrioti. Si decise pertanto la fondazione di una nuova capitale sulla costa e Pizarro, in persona, si dedicò alla sua costruzione. La città, fondata il 15 gennaio del 1535 ebbe il nome di Ciudad de los Reyes. Attualmente è nota con quello di Lima ed è rimasta la capitale del Perù. I territori ancora inesplorati vennero successivamente conquistati e Pizarro distribuì generosamente tra i suoi commilitoni cariche ed incombenze creando una rete di fedeli collaboratori che dovevano a lui la ricchezza acquisita.
Peraltro restavano ancora da definire alcune questioni perché il nuovo governatore potesse godersi in tranquillità i clamorosi successi che aveva ottenuti. L'Inca Manco II preparava una rivolta e il suo antico collaboratore, Diego de Almagro, minacciava serie rivendicazioni sui suoi lesi diritti.

Insurrezione degli Inca
Mentre Pizarro era preso dalla costruzione della sua nuova capitale, fu costretto ad accorrere al Cuzco per affrontare dei pericolosi rivolgimenti.
Era accaduto che, alla partenza di Hernando per la Spagna, i restanti fratelli, Juan e Gonzalo, avevano di loro iniziativa, contestato il diritto di Almagro a governare la città. Il possesso del Cuzco, con la carica di "adelantado" era una delle clausole che Luque aveva inserito negli accordi che avevano risolto la vertenza tra i due capitani.
Pizarro si rese conto di non poter rinnegare gli impegni presi e propose un disegno alternativo. Correvano voci di un regno altrettanto ricco di quello degli Inca nel Sud del regno degli Inca, detto Cile. Fu convenuto che Almagro avrebbe tentato la conquista del paese e se le voci si fossero rivelate esatte sarebbe rimasto nel nuovo territorio. In caso contrario sarebbe tornato in Perù e avrebbe preso possesso del Cuzco.
Risolto positivamente il pericoloso conflitto, Pizarro tornò finalmente a Lima per riprendere lo sviluppo di quella città che era diventata, per lui, una specie di creatura, ma i suoi idilliaci disegni dovevano essere presto interrotti.
Manco, che era rimasto al Cuzco, divenne oggetto di meschine sopraffazioni da parte dei fratelli del governatore. Dovette subire una serie di odiose angherie che compromisero la sua immagine di fronte ai suoi sudditi, giungendo i suoi tormentatori a insidiare perfino la sua sposa. Quando Hernando Pizarro tornò dalla Spagna, da cavaliere distinto ed avveduto qual era, fece immediatamente cessare le iniziative dei due giovani e incoscienti fratelli, ma la misura era ormai colma per l'Inca che covava solo propositi di vendetta.
La rivolta scoppiò improvvisa e sconvolse tutto il Perù. I primi a subire l'odio degli indigeni furono i coloni spagnoli isolati che vennero trucidati a decine, ma ben presto una moltitudine in armi si presentò di fronte al Cuzco e a Lima. Le due città restarono isolate e dovettero fronteggiare un assedio lungo e prolungato. Pizarro da Lima temeva per i suoi fratelli, che tutti davano per morti e si privò di quante truppe poteva per cercare di aiutarli.
Gli Inca, però, avevano appreso le tattiche di combattimento degli europei e le colonne di soccorso furono tutte distrutte. Centinaia di Spagnoli perirono nel fondo di oscure gole schiacciati da massi fatti rotolare dall'alto, senza poter sfruttare la terribile arma dei cavalli che fino ad allora aveva fatto la differenza.
Ciò nonostante gli Inca non riuscirono ad avere ragione dei due nuclei spagnoli stretti in assedio al Cuzco e a Lima. La difesa offerta dalle mura fu determinante, permettendo a pochi di opporsi a molti e, in più, il travolgente impeto della cavalleria giocò sempre una parte determinante, nelle numerose sortite che caratterizzarono il conflitto.
Un altro fattore decisivo fu l'intervento delle etnie ostili agli Inca a fianco degli Spagnoli. Gli antichi rancori non permisero a molte tribù di avvedersi che gli europei non erano i loro liberatori, ma solo una sorta di padrone più rigido e spietato dei signori del Cuzco. Gli Inca dovettero pertanto affrontare anche numerosi congeneri e la lotta che avrebbe dovuto scatenarsi per la liberazione del Perù fu, in effetti, solo uno scontro tra gli Inca da una parte e gli spagnoli e tutti gli altri indigeni dall'altra.
La stagione delle semine obbligò infine gli indigeni a levare l'assedio per evitare una futura stagione di fame e Manco dovette ritirarsi sulle montagne inseguito, dagli Spagnoli vittoriosi.

Morte di Almagro
Quasi alla fine del conflitto, un altro fattore era entrato in gioco: Almagro era tornato dal Cile stanco e disilluso per non aver trovato altro che contrade deserte e pochi indigeni ostili. Tornato in Perù aveva appreso che Hernando Pizarro, di ritorno dalla Spagna, aveva recato le nuove disposizioni reali che gli conferivano il dominio delle terre che si trovavano oltre duecentosettanta miglia dal villaggio di Zamuquella, che era posto a un grado e venti primi dall'equatore. Non era chiaro se la distanza andava calcolata per linea d'aria o seguendo la costa e da questo particolare sarebbe dipeso il possesso del Cuzco. Almagro concorse a mettere in fuga l'esercito inca e poi si diresse decisamente alla città che riteneva sua di diritto. I Pizarro cercarono di impedirgli l'accesso, ma Almagro non si diede per inteso e entrò nel Cuzco catturando i suoi nemici.
Fu questo un brutto momento per Francisco Pizarro che da Lima, appena liberata, apprese che tutti i suoi familiari erano ostaggi del suo antico compagno d'armi diventato un nemico giurato.
Era necessario trattare, tanto più che Almagro aveva sconfitto un esercito di fedeli ai Pizarro che erano giunti al Cuzco in cerca degli indigeni e avevano finito per scontrarsi con i "Cileni", come ormai venivano chiamati i reduci dalla spedizione del Sud.
Un compromesso venne presto trovato. Almagro avrebbe rilasciato Hernando Pizarro, dietro giuramento di questi di tornare in Spagna, mentre il possesso del Cuzco sarebbe rimasto provvisoriamente ai "cileni" in attesa che la Corte spagnola chiarisse meglio la portata delle sue disposizioni.
Tutto sembrava risolto, ma la sete di vendetta di Hernando doveva ancora una volta scompigliare le cose. Trovato un sacerdote compiacente, che lo liberò dal giuramento, il fratello del governatore arruolò un esercito per procedere contro Almagro.
Francisco Pizarro, dal canto suo, preferì trincerarsi in Lima e non occuparsi personalmente dell'impresa che vedeva foriera di pericolose conseguenze giudiziarie. Ufficialmente non avrebbe avuto alcuna responsabilità negli avvenimenti futuri, anche se furono in molti a credere, anche all'epoca, che fosse perfettamente al corrente dei fatti.
Il fato di Almagro si compì il 26 aprile del 1538 nella pianura di Las Salinas, nelle adiacenze del Cuzco. I suoi eserciti vennero sconfitti e lui stesso, fatto prigioniero, venne, poco dopo, fatto giustiziare dal cinico Hernando, immemore del trattamento che gli era stato riservato quando le parti erano invertite.
Questa ignominia sarebbe costata oltre venti anni di prigione al suo autore, ma il governatore Francisco restò immune da ogni accusa anche se l'opinione pubblica lo ritenne il vero responsabile.

Morte di Pizarro
Con Manco esiliato sulle montagne e Almagro morto e sepolto, Pizarro, che nel frattempo era stato nominato "Marchese della conquista", avrebbe potuto dedicarsi alla organizzazione dei territori sotto la sua giurisdizione, ma prima voleva renderli sicuri dalle violenze degli indigeni ribelli che compivano ancora cruente incursioni. Dapprima tentò di accordarsi con l'Inca fuggitivo, ma ogni speranza di pacificazione venne frustrata dalla reciproca sfiducia ed allora mise in atto una feroce politica di repressione.
La prima vittima fu Cura Ocllo, la sposa stessa di Manco che torturata di fronte a tutta la truppa venne infine uccisa a colpi di freccia. Dopo toccò a sedici capi indigeni, catturati precedentemente, ad essere indiscriminatamente bruciati vivi, come monito per i loro compatrioti. Questa azione avrebbe marchiato per sempre l'operato di Pizarro e sarebbe stata disapprovata anche dai cronisti spagnoli dell'epoca che stigmatizzarono la sua manifestazione di gratuita ferocia.
L'avversario non parve però intimidito e il governatore pensò bene di costruire una serie di capisaldi fortificati che ne contenessero le sortite. Sorsero così alcune delle future città del Perù come, ad esempio, Arequipa che, in origine, erano solo dei presidi militari.
Pizarro, a questo punto, lasciò ai suoi collaboratori il proseguimento delle campagne e si ritirò nella nuova capitale di Lima per esercitarvi le prerogative di governatore. In questa città confluirono anche i superstiti delle schiere di Almagro e, ben presto, si creò una situazione di attrito e di conflittualità latente.
I "Cileni" ufficialmente non erano perseguiti, ma nei loro confronti vennero esercitate delle misure repressive che li portarono all'esasperazione. Furono progressivamente privati di tutte le fonti di entrate e finirono ridotti sulla soglia di povertà. Fieri ed orgogliosi rifiutarono comunque di piegarsi e preferirono vivere nell'indigenza piuttosto che accettare l'elemosina di quello che ritenevano il carnefice del loro capo.
Non restarono però inoperosi e inoltrarono richieste di intervento alla Corte spagnola che non restò insensibile alle loro richieste di giustizia. La Corona, allarmata da tutte quelle denunce, decise di chiarire la situazione ed inviò un suo incaricato, Cristóbal Vaca de Castro per ripristinare i diritti di questi suoi sudditi.
L'annuncio dell'arrivo di un emissario del potere regale suscitò un comprensibile entusiasmo tra le file dei reietti, ma la loro soddisfazione fu di breve durata perché giunse la notizia che l'incaricato governativo era scomparso in mare. Effettivamente Vaca de Castro era incorso in un naufragio, ma non era affatto perito ed anzi stava marciando, faticosamente, alla volta di Lima.
Tra le file dei Cileni esasperati corse invece la voce che fosse stato fatto uccidere da Pizarro e che la stessa sorte stava per toccare a tutti i suoi oppositori. I Cileni avevano venduto ogni loro bene, ma avevano conservato le spade ed ora, convinti che fosse giunta la loro ultima ora, decisero di attaccare per primi.
Il 26 luglio del 1541, in quindici o sedici si diressero verso la casa del Marchese e irruppero senza difficoltà all'interno. Pizarro che non si aspettava quell'attacco riuscì a guadagnare le sue stanze con l'intenzione di vestire la corazza e resistere in attesa di aiuto. Lo accompagnavano il fratellastro Martín de Alcantara e due paggi a cui si accodò il capitano Francisco de Chavez che rimase a guardia dell'entrata. Costui era famoso come massacratore di indios, ma di fronte al pericolo dimostrò una natura meschina e cercò solo di calmare i Cileni senza neanche provare a difendere la soglia. Mal gliene incolse perché fu immediatamente abbattuto con una stoccata e gli assalitori irruppero nella stanza. Pizarro, Alcantara e i due paggi fecero fronte come meglio poterono, ma furono trafitti dalle lame dei nemici.
Il Marchese non morì sul colpo, ma ebbe appena il tempo di fare un segno di croce sul pavimento e di invocare il nome di Gesù prima di spirare.
I Cileni si resero solo allora conto della portata della loro azione. Non era più possibile ormai tornare indietro e decisero di giocare la carta dell'insurrezione. La notizia della morte di Pizarro corse rapidamente per tutta la città seminando sgomento tra i suoi seguaci e grida di giubilo tra gli altri fedeli di Almagro.
Un maturo capitano, Juan de Rada si mise a capo dei rivoltosi, ma da veterano accorto e sagace comprese che era necessario un capo carismatico in cui si riconoscessero tutti gli insorti. Il potere fu offerto al figlio di Almagro, Diego di nome come il padre. Era un giovane di poco più di venti anni, ma il suo nome garantiva per lui e, tra acclamazioni generali, venne nominato governatore dalle tremebonde autorità regie.
Una nuova guerra civile stava per insanguinare il Perù.

Discendenza
Pizarro venne calato in una fossa frettolosamente scavata, ma il suo corpo, si trova, attualmente a Lima, nella cattedrale, sotto l'altar maggiore.
Francisco Pizarro non prese mai moglie, ma ebbe alcuni figli che legittimò ufficialmente, pur avendoli avuti da due concubine indigene, principesse entrambe di nobile stirpe.
Da Iñes Huayllas Yupanqui ebbe due figli. Un maschio, Gonzalo che visse dal 1535 al 1546 e una figlia, Francisca, nata nel 1534 che sarebbe andata sposa a suo fratello Hernando quando questi era ancora prigioniero in Spagna e che avrebbe perpetuato, in qualche modo, la dinastia fino al 1756.
Dalla principessa Añas Yupanqui, nota come Angelina ebbe due figli. Uno Francisco, nato nel 1539, morì nel 1557 e l'altro Juan di cui non si conosce la data di nascita che morì nel 1543.

Il Perù dopo la sua morte
Dopo l'uccisione di Pizarro, Cristóbal Vaca de Castro ebbe ragione della ribellione del figlio di Almagro e ripristinò la legalità. Il fratello di Francisco Pizarro, Gonzalo, insorse però, a sua volta e resse il potere arbitrariamente fino al 1548, anno in cui venne sconfitto e giustiziato.
Manco venne ucciso, a tradimento, nel 1544, ma la ribellione inca, installata nel regno di Vilcabamba, continuò, con i suoi figli fino al 1571, quando l'ultimo signore del Tahuantinsuyo, Túpac Amaru, venne giustiziato dal viceré Francisco de Toledo.

Note
1. Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, 2006

Bibliografia
Biografie
▪ M. Ballesteros Gaiarine Francisco Pizarro, Madrid 1940
▪ Louis Baudin La vie de François Pizarro, Paris 1930
▪ Pizarro y Orellana Varones illustres del Nuevo Mundo, Madrid 1639
▪ M.J. Quintana Vidas de españoles celebres in Bibl. Aut. Esp. Tomo XIX, Madrid 1946

Sulla Conquista
▪ Ruiz de Arce (Juan) Advertencia... a los sucesores (1543) In COLL. AUSTRAL Madrid 1964
▪ Estete (Miguel de)
▪ Relación del viaje... desde el pueblo de Caxmalca a Pachacamac. (1533) In Ramusio EINAUDI, Torino 1988
▪ Noticia del Peru (1540) In COL. LIBR. DOC. HIST. PERU (2° serie tomo 8°, Lima 1920)
▪ Jerez (Francisco de) Verdadera relación de la conquista del Peru (1534) In Ramusio EINAUDI, Torino 1988
▪ Mena (Cristobal de) Conquista y población del Peru (1534) In Ramusio EINAUDI, Torino 1988
▪ Pizarro (Hernando) Carta de Hernando Pizarro (1533) In COLL. AUSTRAL Madrid 1964
▪ Pizarro (Pedro) Relación del descubrimiento y conquista de los Reynos del peru. (1571) In BIBL. AUT. ESP. (tomo CLVIII, Madrid 1968)
▪ Sancho de la Hoz (Pedro) Relatione di quel che nel conquisto & pacificatione di queste provincie & successo ... & la prigione del cacique Atabalipa. (1534) In Ramusio EINAUDI, Torino 1988
▪ Titu Cusi Yupanqui Relación de la conquista del Peru y echos del Inca Manco II (1570) In ATLAS, Madrid 1988
▪ Trujillo (Diego de) Relación del descubrimiento del Reino del Peru (1571) in COLL. AUSTRAL Madrid 1964
▪ Anonimo Relación del sitio del Cuzco y principio de las guerras civiles del Perù hasta la muerte de Diego de Almagro (1535-1539) in COL de LIBROS RAROS Y CURIOSOS (tomo XIII, Madrid 1879)- in COL.LIBR.DOC.HIST.PERU' (serie 2a, vol. X, Lima 1934). l'opera è attribuita, da alcuni, a Diego de SiIva y Guzman.

Opere generali
▪ Gómara (Francisco López de) Historia general de las Indias (1552) in Bibl. Aut. Esp. Tomo LXII, Madrid 1946
▪ Herrera y Tordesillas (Antonio de) Historia general de los hechos de los Castellanos en las islas y tierra firme del mar Oceano (1601-1615) in Colección clasicos Tavera (serie 1, Vol. 1-2) Edizione su CD
▪ Oviedo y Valdés (Gonzalo Fernández de) Historia general y natural de las Indias in Bibl Aut. Esp. Tomi CXVII; CXVIII; CXIX; CXX; CXXI, Madrid 1992
▪ Zárate (Agustín de) Historia del descubrimiento y conquista del Perù... (1555) in Bibl. Aut. Esp. Tomo XXVI, Madrid 1947

▪ Per un'altra ricostruzione clicca qui

▪ 1659 - Don García Sarmiento de Sotomayor, secondo conte di Salvatierra e marchese di Sobroso (Spagna, circa 1595 – Lima, 26 giugno 1659), fu viceré della Nuova Spagna (dal 23 novembre 1642 al 13 maggio 1648) e viceré del Perù (dal 1648 al 1655).

▪ 1810 - I fratelli Joseph Michel Montgolfier (Annonay, 26 agosto 1740 – Balaruc-les-Bains, 26 giugno 1810) e Jacques Étienne Montgolfier (Annonay, 6 gennaio 1745 – Serrières, 2 agosto 1799) sono stati gli inventori della mongolfiera, il pallone aerostatico che funziona con aria calda.
La loro invenzione fu il primo aeromobile a portare un essere umano in cielo. In seguito al successo dei loro esperimenti, furono nominati membri straordinari dell'Accademia delle scienze di Parigi ed il padre Pierre ricevette, come riconoscimento, il titolo nobiliare ereditario de Montgolfier dal re Luigi XVI nel 1783

I primi anni
I due fratelli nascono in una famiglia di ricchi fabbricanti di carta ad Annonay, un paese a sud di Lione (Francia). La mentalità di Joseph era tipica dell'inventore: geniale e sognatore, ma poco pratico negli affari e nelle faccende personali. Intelligente e creativo per natura, si ribellava all'istruzione rigida e formale -- per due volte fuggì dalla scuola. Ciononostante, la sua spontanea curiosità gli permise da autodidatta di raggiungere un'eccellente formazione nelle allora emergenti scienze fisiche. Tornato infine in famiglia rimase comunque solo marginalmente coinvolto nelle attività industriali della cartiera.
Etienne (con questo nome Jacques-Etienne fu sempre più comunemente noto) aveva un carattere più regolare ed orientato agli affari di Joseph. Mandato inizialmente a Parigi perché si dedicasse agli studi di architettura, fu richiamato ad Annonay per prendere in mano gli affari di famiglia dopo l'improvvisa morte di Raymond nel 1772. Nei successivi 10 anni Etienne si dedicò ad introdurre delle innovazioni tecnologiche nell'industria familiare (la produzione della carta era un'attività ad alto contenuto tecnico nel XVII secolo), riuscendo a portare le più recenti novità nelle proprie fabbriche. Il suo operato gli meritò il riconoscimento da parte del governo francese, a cui seguì un finanziamento perché la fabbrica Montgolfier potesse essere presa a modello per le altre fabbriche di carta della nazione.

I primi esperimenti
Dei due fratelli fu Joseph per primo a considerare la possibilità di costruire una macchina volante. Si ipotizza che un giorno osservando i panni posti ad asciugare sopra un fuoco notò che alcune parti ripetutamente si sollevavano verso l'alto.
Joseph iniziò a svolgere degli esperimenti specifici nel novembre del 1782, quando viveva ad Avignone. Come egli stesso riportò pochi anni più tardi, stava una sera davanti a un fuoco mentre rifletteva su una questione militare di attualità -- un attacco alla fortezza di Gibilterra, che si era dimostrata imprendibile sia da terra che da mare. Joseph iniziò a pensare alla possibilità di un attacco dall'alto, con truppe sollevate in aria dalla stessa forza che innalzava le scintille del falò. Egli ipotizzava che all'interno del fumo vi fosse una qualche sostanza, un gas speciale (il "gas di Montgolfier"), dotato di una speciale proprietà che egli definì "lievità".
Sulla base di questi ragionamenti, Joseph costruì un contenitore a forma di scatola (delle dimensioni di 1 x 1 x 1,3 metri) usando un sottile foglio di legno per i lati e un rivestimento superiore in tessuto leggero di taffettà. Sotto il contenitore accese un falò di carta. L'oggetto si sollevò rapidamente dal suo supporto fino a urtare il soffitto.
Joseph convinse poi il fratello a costruire un primo aerostato ad aria calda scrivendogli le seguenti poche, profetiche parole: "Presto, procurati una buona dose di taffettà e di corde, e ti mostrerò uno dei più sbalorditivi fenomeni al mondo!". Da quel momento in poi i due fratelli lavorarono assieme al progetto.
I due fratelli costruirono un nuovo apparecchio, in scala, tre volte più grande (27 volte in volume). Nel suo primo volo, il 14 dicembre del 1782, la spinta di sollevamento fu così forte che essi ne persero il controllo. L'aerostato volò per circa 2.000 metri. Dopo l'atterraggio, l'oggetto venne distrutto da quella che Etienne definì l' "indiscrezione" dei passanti.

Dimostrazioni pubbliche
Stanti questi successi, i fratelli Montgolfier decisero di svolgere una dimostrazione pubblica del funzionamento dell'aerostato ad aria calda, e stabilire così la paternità dell'invenzione. Realizzarono quindi un apparecchio a forma di pallone sferico , realizzato con tela di sacco e tre strati interni di carta sottile. L'involucro sviluppava un volume interno di quasi 790 m3 d'aria e pesava 225kg. Era composto da quattro parti (la cupola e tre segmenti laterali) tenute assieme da 1.800 bottoni. Una "rete da pesca" in cordame applicata all'esterno fungeva da rinforzo della struttura.
Il 4 giugno del 1783 (alcune fonti erroneamente indicano la data del 5 giugno) l'aerostato fu fatto volare nella prima dimostrazione pubblica ad Annonay, di fronte a un gruppo di notabili degli "etats particulars". Il volo coprì circa 2km, durò 10 minuti e raggiunse l'altitudine stimata di 1.600-2.000 metri.
La notizia del successo raggiunse rapidamente Parigi. Etienne si recò nella capitale per tenere ulteriori dimostrazioni e per assicurare ai due fratelli la paternità dell'invenzione del volo. Etienne, avendo studiato a Parigi, aveva più familiarità con le abitudini e i costumi della città. Joseph, considerati i suoi modi originali e la sua timidezza, rimase presso la famiglia.
Vi era qualche preoccupazione sui possibili effetti di un volo in alta quota su degli esseri viventi. Esistono dei riferimenti a un bando emanato dal Re, Luigi XVI, che proibiva qualsiasi volo da parte di persone finché gli eventuali effetti sugli animali non fossero stati valutati (anche se non vi è evidenza diretta di un tale editto). È più probabile che fossero gli stessi inventori, prudentemente, a decidere di sperimentare il volo inizialmente solo su degli animali.
Il 19 settembre del 1783 l' "Aerostate Révellion" (come lo chiamò Etienne) fu fatto volare con a bordo i primi aeronauti viventi: una pecora, un'oca ed un gallo, collocati in un cesto appeso alle corde del pallone. Questa dimostrazione ebbe luogo di fronte a un'immensa folla raccolta nel palazzo reale di Versailles, presenti il Re Luigi XVI e la Regina Maria Antonietta. Il volo durò circa 8 minuti, coprì circa 3 km e raggiunse un'altezza di circa 500 metri; sarebbe potuto durare di più, ma l'aerostato era instabile, e perciò subito dopo il decollo si inclinò vistosamente su un lato, lasciando fuoriuscire dall'imboccatura una notevole quantità dell'aria calda contenuta all'interno. Gli animali, comunque, completarono il volo senza conseguenze.
Fra i primi a sopraggiungere sul punto di atterraggio vi fu Pilâtre de Rozier, che si era già candidato ad essere fra i primi aeronauti quando si fosse tentato il volo con uomini a bordo. (Pierre Montgolfier, padre degli inventori, aveva acconsentito che i figli lavorassero alla realizzazione degli aerostati invece di dedicarsi all'amministrazione delle cartiere di famiglia, a condizione che nessuno dei due tentasse di volare di persona).

Il volo con equipaggio umano
A seguito del successo dell'esperimento di Versailles, e sempre in collaborazione con Réveillon, Etienne iniziò la costruzione di un aerostato da 1.700 m3, che potesse consentire il volo con un equipaggio. Il 21 novembre del 1783 Pilâtre de Rozier e il marchese d'Arlandes realizzarono il primo volo libero umano, coprendo in 25 minuti una distanza di circa 9km a una quota variabile intorno ai 100mt di altezza, sui tetti di Parigi. La trasvolata fece notevole scalpore. Numerose iscrizioni celebrarono lo storico evento. Si produssero sedie con lo schienale a forma di aerostato, e orologi da tasca in smalto e bronzo con il quadrante iscritto in un pallone. I francesi meno benestanti potevano acquistare stoviglie decorate con immagini del volo. Solo uno dei fratelli Montgolfier (probabilmente Etienne) ebbe modo di volare su un aerostato, e solo una volta.

Gli anni seguenti
Nel 1766 lo scienziato inglese Henry Cavendish aveva scoperto l'idrogeno, aggiungendo acido solforico a ferro, latta o trucioli di zinco. Lo sviluppo dell'aerostato a gas d'idrogeno, principalmente ad opera del Charles, procedette in parallelo agli esperimenti dei Montgolfier con l'aria calda. La crescita di entrambi le tecnologie veniva stimolata dalla consapevolezza della competizione fra le due soluzioni.
Alla fine, la tecnologia basata sull'idrogeno finì per prevalere, per diversi motivi fra cui la decisione del governo di puntare sull'uso del gas. Per i successivi 180 anni i palloni a idrogeno rimasero la soluzione dominante, e furono impiegati in tutte le più importanti imprese compresa la trasvolata della Manica effettuata il 7 gennaio 1785 da Jean-Pierre Blanchard e John Jeffries.
I palloni basati sul riscaldamento dell'aria interna al posto del riempimento con gas leggeri sarebbero tornati in auge solo negli anni sessanta, quando Ed Yost risolse i problemi di sicurezza della classica Mongolfiera utilizzando il nylon come tessuto per l'involucro e il gas propano come combustibile per il bruciatore.

▪ 1856 - Johann Kaspar Schmidt, più noto con lo pseudonimo di Max Stirner (Bayreuth, 25 ottobre 1806 – Berlino, 26 giugno 1856), è stato un filosofo tedesco, sostenitore radicale di posizioni antistataliste che danno importanza all'ateismo, all'egoismo ed a un primordiale concetto anarchico. Il nom de plume deriva da un soprannome che gli era stato dato dai compagni di scuola a motivo della sua alta fronte (Stirn).
Viene considerato come uno degli antesignani di ideologie quali nichilismo, esistenzialismo e soprattutto anarco-individualismo, mentre in senso stretto il suo anarchismo, inteso come ideologia a sbocco movimentista, non è mai esistito, in quanto le sue idee furono strettamente individualiste, non definendosi inoltre da sè medesimo mai anarchico. Egli nega esplicitamente di sostenere una posizione filosofica assoluta, aggiungendo che dovendosi assegnare a un qualche -ismo sceglie che sia l'egoismo. Stirner chiaramente aderisce sia all'egoismo psicologico sia all'egoismo etico, le antitesi di tutte le ideologie più tradizionali e di tutti gli atteggiamenti sociali come lui li concepiva.
L'opera principale di Stirner è Der Einzige und sein Eigentum, L'ego e la sua proprietà (o L'Unico e la sua proprietà), pubblicata per la prima volta a Lipsia nel 1844 e comparsa in numerose successive edizioni e traduzioni.
Stirner proclama che le religioni e le ideologie si fondano primariamente sopra delle superstizioni e di conseguenza denuncia come superstizioni il nazionalismo, lo statalismo, il liberalismo, il socialismo, il comunismo e l'umanesimo.
La filosofia di Stirner ha suscitato accesi dibattiti che hanno coinvolto personaggi come Karl Marx, Søren Kierkegaard, Benjamin Tucker, Carl Schmitt, Benito Mussolini, Dora Marsden, Robert Anton Wilson e i situazionisti. Friedrich Nietzsche invece non riconobbe esplicitamente i suoi debiti nei confronti di Stirner, e anzi confidò ad alcuni suoi allievi il timore di essere accusato di plagio nei confronti di Stirner. Negò di aver mai letto il suo libro, cosa che invece risultò alcuni anni dopo la sua morte.
Stirner rimane ancor oggi al centro di un dibattito diffuso e animato: un'ampia letteratura secondaria compare in tedesco, italiano, francese e spagnolo, mentre in inglese vi sono solo interventi che sottolineano le interpretazioni anarchica ed esistenzialista del suo pensiero.
Le informazioni sulla vita di Stirner sono poche e frammentarie, tanto che di lui manca qualsiasi ritratto, se si esclude una sua caricatura disegnata da Friedrich Engels.
La maggior parte delle informazioni si conoscono grazie a John Henry Mackay, che pubblicò nel 1898 la prima biografia del filosofo.

Giovinezza e studi
Johann Kaspar Schmidt, in arte Max Stirner, nacque il 25 ottobre 1806 a Bayreuth, in una famiglia piccolo-borghese, da Albert Christian Heinrich Schmidt, intagliatore di flauti, e Sophia Eleonora Reinlein, una luterana. L'anno dopo la sua nascita il padre morì di tubercolosi, a soli 37 anni, e la moglie si risposò con un farmacista, Heinrich Ballerstedt. Successivamente, la famiglia si trasferì a Kulm, in Prussia.
Nel 1819, a tredici anni, il giovane Schmidt ritornò alla sua città natale per studiare al prestigioso Gymnasium, vivendo con una zia. Dal 1826 frequentò l'Università di Berlino studiando filologia, teologia e filosofia: suoi maestri erano Friedrich Schleiermacher, Philipp Konrad Marheineke e il celeberrimo Hegel, per lui larga fonte di ispirazione. Continuò i suoi studi in due diverse università, quella di Erlangen e quella di Königsberg; ritornato a Berlino, vi concluse i suoi studi nel 1834. Nell'aprile dell'anno successivo, Stirner sostenne gli esami orali di filosofia, materia che intendeva insegnare. Nel 1837 sposò la figlia della sua padrona di casa, Agnes Klara Butz, che morì di parto solo un anno dopo, dando alla luce un figlio di cui non si sa nulla.
Sia il suo patrigno che sua madre, nel frattempo, erano morti, rispettivamente nel 1835 e 1839, quest'ultima in un manicomio di Berlino.

I Liberi: la sinistra hegeliana
Nel 1839 ottenne la cattedra di insegnante di letteratura alla Lehr- und Erziehungs Anstalt di M.me Gropius, una scuola per ragazze dell'alta borghesia, situata al numero 4 del Kollnischer Fischmarkt. Nello stesso anno, frequentava un gruppo di giovani Hegeliani chiamati Die Freien ("i liberi"), tra cui figurano tanti nomi che avrebbero poi composto parte della filosofia tedesca del XIX secolo: Bruno Bauer, Arnold Ruge, Ludwig Feuerbach, Friedrich Engels e Karl Marx. I "freien" erano soliti riunirsi da Hippel's, una birreria sulla Friedrichstraße. All'interno del gruppo strinse amicizia con Marx ed Engels, ma soprattutto con Bruno Bauer.
In questo gruppo conobbe anche Marie Dähnhardt, donna di buona famiglia che poi nel 1843 divenne la sua seconda moglie. Marie aveva un ruolo molto attivo nel gruppo, e si distingueva per le sue convinte teorie anarchiche. Ernst Dronke, nella sua opera Berlin, in cui descrive il clima berlinese della metà degli anni quaranta del XIX secolo, rievoca la scandalosa scena del matrimonio, con gli amici che, incuranti, giocano a carte, gli sposi che si sono dimenticati gli anelli e Bruno Bauer che per rimediare ne toglie due di ottone dal suo borsellino.
La formazione e la piena compiutezza del suo pensiero avvennero dopo il 1842, quando pubblicò due articoli sul Rheinische Zeitung, testata giornalistica fondata da Karl Marx nello stesso anno: Das unwahre Prinzip unserer Erziehung (Il falso principio della nostra educazione) e Kunst und Religion (Arte e religione).

L'Unico
La stesura della sua opera maggiore, "L'unico e la sua proprietà", iniziò già nel 1839, per poi completarsi attraverso le esperienze compiute nel gruppo dei Liberi, ma soprattutto tramite il confronto col pensiero dei suoi compagni, che Stirner non esitò a rinnegare e spesso scimmiottare nella sua opera, partendo da Marx e dal concetto stesso di comunismo. Ma, del resto, Marx ed Engels, nel postumo "L'ideologia tedesca", impiegarono lo stesso numero di pagine de L'Unico, circa trecento, per confutare l'opera di Stirner usando un tono sarcastico e beffardo.
Dopo l'Unico, e le due repliche pubbliche ai suoi critici, l'attività pubblica di Stirner si ridusse ad alcune traduzioni in tedesco di J.B. Say e Adam Smith; nel 1848 scrisse alcune cronache politiche per il Journal des osterreichischen Lloyds, senza firmarsi. Scrisse anche una "Storia della reazione" sui movimenti reazionari del dopo 1848 in Germania.
Nel 1846 divorziò dalla sua seconda moglie. Stirner morì il 26 giugno 1856 in circostanze misteriose, anche se la tesi più accreditata è l'infezione, da parte di un insetto, di un carbonchio che gli era apparso sul collo. Pochi amici presenziarono al funerale, tra i giovani hegeliani solo Bruno Bauer.

Pensiero politico
Se Feuerbach prima di lui aveva criticato Hegel e la religione poiché sottraevano all'uomo il suo primato di essere sensibile e sociale, Stirner va oltre. A suo avviso Feuerbach cerca ancora l'essenza dell'uomo così come Hegel, infatti ha innalzato al posto del divino l'uomo come essere supremo. Ma l'io non è l'uomo. Si deve superare l'uomo, l'io è un unico. Un unico irripetibile e irriducibile, che non si deve lasciare sottomettere o strumentalizzare da scopi o fini che non siano i propri ed a causa dei quali non sarebbe più padrone di se stesso. Stirner pone l'individuo al centro del mondo di ognuno.
La libertà, per essere veramente tale, non può derivare da una concessione altrui, ma essere il frutto di una propria conquista: “si può perdere la libertà, ma la libertà spetta solo a noi”, è una scelta revocabile che si presenta all'individuo in ogni momento della sua vita. L'individuo deve avere la proprietà della libertà, non basta dirsi liberi, io devo poter fare o non fare ciò che desidero; a Stirner non interessa realizzare l'ideale della libertà, quello a cui punta è di avere la libertà, l'uomo diventa libero se riesce a sottoporre la libertà al proprio volere (non basta l'ideale). Un individuo è effettivamente libero solo se spetta a lui decidere se e quando limitare la propria libertà per fini a lui propri. Ad esempio, il fatto stesso di avere interazioni con altri individui rende impraticabile la libertà assoluta perché la libertà di un individuo non può coincidere con quella di un altro. L'importante per Stirner è che l'interazione e il conseguente sacrificio in termini di libertà costituisca una libera scelta da parte dell'individuo, finalizzata ad una maggiore utilità per sè medesimo non altrimenti realizzabile. L'egoismo di Stirner non coincide infatti né con il solipsismo, né con l'apologia di un'utopica libertà assoluta.
Il rifiuto di Stato, Chiesa, religioni, istituzioni o società non è dovuto al fatto che tali entità limitano la mia libertà, quanto al fatto che la limitano per fini che non mi appartengono.
Di fronte al singolo tutto ciò che è in suo potere si connota come proprietà di esso: è una proprietà estendibile tanto quant'è il potere in possesso dell'unico. Tutto ciò che sta intorno all'unico, quindi anche gli altri unici, non sono che potenziali mezzi per l'esercizio del suo potere per il soddisfacimento della sua volontà.
Per sfruttare il proprio potere l'unico può utilizzare ogni mezzo desideri, non esclusi l'ipocrisia e l'inganno, salvo che altri unici non riescano ad impedirglielo. Dal punto di vista delle istituzioni politiche non vi può essere alcun rapporto tra istituzioni e libertà dell'individuo. Il Diritto, non essendo frutto della mia volontà, si pone al di fuori della mia individualità (in quanto è stato elaborato con strumenti che esulano, appunto, dalla mia individualità).
I diritti mi sono stati concessi e non sono atto della mia libertà: basta ciò per considerarli un qualcosa che la imbriglia: non sono io che mi approprio dei diritti, questi sono qualcosa che gli altri mi concedono, importa poco se questa concessione avvenga ad opera di pochi, uno o molti. Si tagliano, così, i ponti anche con una concezione politica ultrademocratica: la società democratica pretende anch'essa di annettere automaticamente tutti gli individui a prescindere dalla loro volontà. L'unica forma di collettività accettabile per Stirner è un'associazione di egoisti nella quale ciascun io entra solo per il proprio tornaconto. Un'associazione di tale tipo sarà basata sulla convergenza revocabile di più egoismi per scopi ben precisi. Stirner teorizza una sorta di libera cooperazione e libera competizione tra egoismi, senza teorizzare, come vorrebbero alcune riletture di estrema destra, il conseguente ineluttabile innalzamento di un io più forte che estende il proprio dominio su tutti gli altri.
Una parte importante de "L'Unico e la sua proprietà" dimostra come non esiste una vera e assoluta "libera concorrenza" in presenza di uno Stato. La libera concorrenza significa "egalité" (dal francese, uguaglianza) davanti allo Stato. L'uguaglianza di fronte al "fantasma" di uno Stato dissolve quella che è la concezione stirneriana dell'Unico come differenza assoluta, e non differenza "da". Si concorre sempre e solo con la grazia dello Stato. Lo Stato, in altre parole, concede diritti (tra i quali quello di potere essere in concorrenza) solo per formarsi dei "servi". L'unica forma possibile per la liberazione dell'io dalle autorità e dalle istituzioni che cercano di renderlo schiavo e di limitarlo è la rivolta individuale, non una rivoluzione.
Tramite la filosofia di Stirner è possibile giungere a un ripudiamento teorico del medesimo agire prodotto dall'Individuo stesso: la nostra azione dovrebbe tendere al posizionamento del punto in tutti gli (infiniti) spazi che compongono il segmento, dal momento che ogni posizionamento ha una sua logica, ogni posizionamento potrebbe garantirci un livello di gratificazione superiore al massimo livello raggiunto in precedenza.
Stirner cerca di differenziare più volte la rivoluzione con la rivolta; la rivoluzione è del popolo, mentre la rivolta è del singolo. Questo svalutazione del concetto di rivoluzione è in qualche modo pensata anche da Pierre Klossowski, filosofo francese.
L'Unico di Stirner non è l'ennesimo fantasma della metafisica occidentale: non c'è un'essenza umana, un modello a cui l'Unico si deve adeguare o con il quale deve fare i conti. L'unico si autofonda.
Non si deve lottare, secondo Stirner, per il "diritto" alla libertà (di stampa, di parola ecc...). Su questo punto concorda anche Jean Baudrillard in "Lo scambio simbolico e la morte": Baudrillard accenna al carattere mistificatorio di chi si batte per il diritto alla sicurezza. Della sicurezza in sè per sè a nessuno importa. E questo perché la sicurezza è il prolungamento industriale della morte.

▪ 1988 - Hans Urs von Balthasar (Lucerna, 12 agosto 1905 – Basilea, 26 giugno 1988) è stato un teologo, presbitero, gesuita e cardinale svizzero.
Nacque in una famiglia profondamente cattolica, e fece i suoi primi studi presso i benedettini e i gesuiti.
Dal 1923 Hans Urs von Balthasar studiò germanistica e filosofia a Zurigo, Berlino e Vienna, laureandosi nel 1928 a Zurigo con la tesi storia del problema escatologico nella letteratura tedesca moderna.
Dopo che ancora nel corso degli studi, nel 1927, si era ritirato per un periodo di ricerca spirituale a Basilea, il 31 ottobre 1929 entra quale novizio nella compagnia di Gesù a Feldkirch. Dopo il noviziato è trasferito a Pullach. Dal 1932 al 1936 studiò teologia a Lione-Fourvière. Ordinato presbitero a Monaco di Baviera nel 1936, dal 1937 al 1939 è redattore della rivista dell'ordine Stimmen der Zeit. Dopo avere rifiutato un posto all'Università Gregoriana di Roma, dal 1940 si occupa della pastorale giovanile e accademica a Basilea. Qui si dedica all'attività di conferenziere. A questo periodo risale l'amicizia con il teologo protestante Karl Barth, con il quale condivide la passione per Mozart.
L'8 dicembre 1944 fonda con Adrienne von Speyr, della quale è confessore e direttore spirituale, l'Istituto secolare della Comunità di Giovanni. In seguito opererà a Zurigo e Basilea quale scrittore ed editore della casa editrice Johannesverlags Einsiedeln. Ma a partire da questo momento le difficoltà si acuiscono: muore il padre, la madre è gravemente ammalata come il suo mentore Erich Przywara. Inoltre, Adrienne von Speyr persegue una visione teologica che la Chiesa della fine degli anni quaranta rifiuta di riconoscere. Nel 1950 von Balthasar deve addirittura lasciare l'ordine dei gesuiti proprio perché non gli si permette di seguire l'attività dell'Istituto da lui fondato.
Egli si ritrova senza lavoro e senza mezzi. La Congregazione per l'Educazione Cattolica gli vieta l'insegnamento negli Istituti e Università cattoliche. Egli riesce a vivere tenendo conferenze, infatti la sua teologia trova viepiù adepti.
Con il tempo anche la Chiesa ufficiale lo riabilita e, sebbene non invitato al Concilio Vaticano II , riceve il premio Paolo VI per la teologia.
Per i suoi meriti Papa Giovanni Paolo II lo creò cardinale, ma egli morì il 26 giugno 1988 due giorni prima della cerimonia di consegna della berretta cardinalizia. Von Balthasar è sepolto nella Hofkirche di Lucerna.

Profilo
Von Balthasar è considerato uno dei precursori del Concilio Vaticano II, al quale non fu tuttavia invitato, unico fra i grandi teologi mitteleuropei. Egli ha prodotto una vasta opera teologica, la quale può essere considerata tra le più influenti del XX secolo e ha poi trovato molti interpreti nella ricerca teologica contemporanea.
La sua teologia fu influenzata dai contatti con i gesuiti, filosofi e teologi, come Erich Przywara, Jean Daniélou e Henri de Lubac. Con la sua attività di conferenziere e le sue numerose pubblicazioni ha riscoperto la patristica, mettendola nuovamente a disposizione della teologia e della fede cristiana. Von Balthasar è considerato tra i maggiori teologi cattolici del Novecento, assieme a Karl Rahner, Henri de Lubac, Romano Guardini, Hans Kung e Joseph Ratzinger.

Opere principali
Von Balthasar ha prodotto un'opera teologica vasta ed importante, originale ed innovativa, pur saldamente ancorata alla Tradizione, anche più dell'altro corifeo della teologia cattolica novecentesca, Karl Rahner. I suoi libri sono stati tradotti varie volte in italiano e sono tuttora disponibili presso le librerie religiose.
▪ "Apocalisse del pensiero tedesco" (1939).
▪ "Liturgia cosmica. Massimo il Confessore" (1941).
▪ "Le centurie gnostiche di Massimo il Confessore" (1941).
▪ "Presenza e pensiero. Gregorio di Nissa" (1942).
▪ "Il cuore del mondo" (1945).
▪ "Verità" (1947).
▪ "Teologia della storia" (1950).
▪ "Teresa di Lisieux" (1950).
▪ "Il cristiano e l'angoscia" (1951).
▪ "Abbattere i bastioni" (1952).
▪ "Suor Elisabetta della Trinità" (1952).
▪ "Georges Bernanos" (1953).
▪ "La preghiera contemplativa" (1955).
▪ "Il problema di Dio nell'uomo moderno" (1956).
▪ "Parola e mistero in Origene" (1957).
▪ "Escatologia" (1957).
▪ "Verbum caro. Saggi teologici I" (1960).
▪ "Sponsa Verbi. Saggi teologici II" (1960).
▪ "Gloria. Un'estetica teologica", 7 voll. (1961-69). È l'opera più importante del Balthasar, prima parte della sua monumentale trilogia teologica.
▪ "Solo l'amore è credibile" (1963).
▪ "Il tutto nel frammento" (1963).
▪ "Chi è il cristiano?" (1965).
▪ "Cordula ovverosia il caso serio" (1966).
▪ "Spiritus creator. Saggi teologici III" (1967).
▪ "Primo sguardo su Adrienne von Speyr" (1968).
▪ "Teologia dei tre giorni" (1971).
▪ "La verità è sinfonica" (1972).
▪ "Teo-drammatica", 5 voll. (1973-1983). È la seconda parte della trilogia teologica del Balthasar.
▪ "Il complesso anti-romano" (1974).
▪ "Cattolico" (1975).
▪ "Il padre Henri De Lubac" (1976).
▪ "Il Rosario" (1977).
▪ "Teo-logica", 3 voll. (1983-85). È la terza parte della trilogia teologica del Balthasar.
▪ "Epilogo" (1987).
▪ "Breve discorso sull'Inferno" (1987).
▪ "Sperare per tutti" (1987).

Bibliografia
▪ Hans Urs von Balthasar, Bibliografia 1925-2005, rielaborata e completata da Cornelia Capol und Claudia Müller, Einsiedeln – Freiburg 2005 in tedesco
▪ Elio Guerriero: Hans Urs von Balthasar..
▪ Numero speciale della rivista "Communio" su Hans Urs von Balthasar, n° 2/2005 in tedesco
▪ Werke und Sekundärliteratur im Johannesverlag in tedesco
▪ raccolta di Sekundärliteratur su Hans Urs von Balthasar in tedesco

▪ 1999 - Jiri Pelikan (Olomouc, 7 febbraio 1923 – Roma, 26 giugno 1999) è stato un attivista cecoslovacco, promotore della "Primavera di Praga" del 1968, condannato all'esilio in Italia, da dove si batté per il ripristino delle libertà democratiche nella Cecoslovacchia governata dal regime comunista.
Giornalista, entra nella gioventù comunista nel 1939 e partecipa alla Seconda Guerra Mondiale, durante la quale viene incarcerato dai nazisti. Dal 1955 al 1963 è presidente dell'Unione Studenti, successivamente è direttore della televisione cecoslovacca; dal 1964 al 1969 è deputato al Parlamento.
Nel 1968, allontanato dall'incarico di direttore tv, diventa consigliere d'ambiasciata a Roma, dove chiede e ottiene l'asilo politico.
In Italia è stato europarlamentare del Partito Socialista Italiano, eletto alle elezioni europee del 1979, poi riconfermato nel 1984, per le liste del PSI. È stato membro della Commissione giuridica, della Commissione per le relazioni economiche esterne, della Delegazione per le relazioni con i paesi del Magreb, della Commissione per la gioventù, la cultura, l'educazione, l'informazione e lo sport, della Commissione per il regolamento e le petizioni, della Delegazione per le relazioni con i paesi membri dell'ASEAN e dell'Organizzazione interparlamentare dell'ASEAN (AIPO).
Ha aderito al gruppo parlamentare "Gruppo Socialista".