Il calendario del 23 Maggio
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Eventi
▪ 1099 - Viene fondato il Duomo di Modena.
▪ 1297 - Con la bolla pontificia "Lapis abscissus" vengono confermate le precedenti scomuniche dei cardinali Giacomo e Pietro Colonna ora estesa anche a Jacopone da Todi, ai cinque nipoti del card. Giacomo Colonna ed ai loro eredi dichiarati scismatici
▪ 1430 - Giovanna d'Arco viene catturata dai Borgognoni a Compiègne e viene in seguito venduta agli inglesi
▪ 1498 - morte di Savonarola al rogo
▪ 1520 - rivolta dei Maya contro i conquistadores
▪ 1533 - Il matrimonio di re Enrico VIII d'Inghilterra con Caterina d'Aragona viene dichiarato nullo
▪ 1541 - Jacques Cartier lascia Saint-Malo (Francia) per il suo terzo viaggio
▪ 1555 - Paolo IV diventa Papa
▪ 1592 - Giordano Bruno è arrestato a Venezia
▪ 1609 - Ratifica ufficiale del secondo statuto della Virginia
▪ 1618 - La seconda defenestrazione di Praga fa precipitare la Guerra dei Trent'Anni
▪ 1701 - Dopo essere stato dichiarato colpevole dell'uccisione di William Moore e di pirateria, il Capitano William Kidd viene impiccato a Londra
▪ 1788 - Il Sud Carolina diventa l'ottavo stato a ratificare la Costituzione degli Stati Uniti
▪ 1815 - Guerra austro-napoletana: le truppe austriache entrano a Napoli, rimettendo sul trono Ferdinando IV di Napoli e Sicilia.
▪ 1831 - Viene giustiziato a Modena il patriota italiano Ciro Menotti
▪ 1865 - Parata lungo Pennsylvania Avenue a Washington per celebrare la fine della guerra di secessione americana
▪ 1873 - Il parlamento canadese stabilisce la costituzione della Polizia a Cavallo del Nord Ovest (che verrà ribattezzata Reale Polizia a Cavallo Canadese nel 1920), si tratta delle famose Giubbe Rosse
▪ 1886 - Italia: si svolgono le Elezioni politiche generali per la 16° legislatura
▪ 1900 - Il sergente William Harvey Carney diventa il primo afroamericano a ricevere una Medaglia d'onore del congresso (assegnata per eroismo durante la Battaglia di Fort Wagner durante la guerra di secessione americana)
▪ 1915 - prima guerra mondiale: L'Italia si unisce agli Alleati dopo aver dichiarato guerra all'Austria-Ungheria
▪ 1934 - Vicino al loro rifugio di Black Lake (Louisiana), i rapinatori di banche Bonnie Parker e Clyde Barrow vengono uccisi in un'imboscata tesagli dai Texas Rangers
▪ 1945 - seconda guerra mondiale: Heinrich Himmler, il capo della Gestapo, si suicida mentre è sotto custodia degli Alleati
▪ 1949 - Viene istituita la Repubblica Federale Tedesca
▪ 1958 - L'Explorer I cessa le trasmissioni
▪ 1960 - Il Primo Ministro di Israele David Ben-Gurion annuncia la cattura del criminale di guerra nazista Adolf Eichmann
▪ 1985 - Thomas Patrick Cavanagh viene condannato all'ergastolo per aver tentato di vendere i segreti del bombardiere stealth all'Unione Sovietica
▪ 1992 - Strage di Capaci: una bomba fa saltare l'autostrada mentre transitavano le auto del giudice Giovanni Falcone e della scorta
▪ 1995
- - Sun Microsystems annuncia la nascita del linguaggio di programmazione Java.
- - Attentato di Oklahoma City: Ad Oklahoma City i resti dell'Alfred P. Murrah Federal Building vengono fatti implodere
▪ 2003 - alpinismo: il venticinquenne Sherpa nepalese, Pemba Dorjie Sherpa, compie la più rapida ascensione di sempre dell'Everest, in 12 ore e 45 minuti
▪ 2004
- - 38aGiornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali
- - Israele si ritira da Rafah, terminando l'Operazione arcobaleno
- - Roma: La Sinagoga festeggia un secolo di vita.
▪ 2008: viene firmato, a Brasilia, il trattato costitutivo dell'Unione delle Nazioni Sudamericane, Unasud, comunità política ed economica integrata per i dodici Stati indipendenti del Sud America.
Anniversari
▪ 1498 - Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola (Ferrara, 21 settembre 1452 – Firenze, 23 maggio 1498) è stato un religioso e politico italiano.
Appartenente all'ordine dei frati domenicani, nel 1497 fu scomunicato da papa Alessandro VI, l'anno dopo fu bruciato sul rogo e le sue opere furono inserite nel 1559 nell'Indice dei libri proibiti. Ora è servo di Dio. Attualmente la causa della sua beatificazione è stata introdotta il 30 maggio 1997 dall’arcidiocesi di Firenze.
Origini
Nacque a Ferrara alle 23,30 del 21 settembre 1452, terzogenito del mercante Niccolò di Michele dalla Savonarola e di Elena Bonacossi, discendente della nobile famiglia dei Bonacolsi, già signori di Mantova; dei fratelli maggiori, Ognibene e Bartolomeo, non si hanno notizie, mentre degli altri fratelli, Maurelio, Alberto, Beatrice e Chiara, si sa solo che Alberto fu medico e Maurelio fu frate domenicano come Girolamo.
I Savonarola, originari di Padova, si erano trasferiti nel 1440 a Ferrara dove il nonno Michele (1385-1468), noto medico e autore di testi di medicina, fu archiatra del marchese Niccolò III d'Este e della corte ferrarese. Michele Savonarola fu uomo profondamente religioso, cultore della Bibbia, di costumi semplici e severi e, pur cortigiano, o piuttosto proprio per questo, sprezzatore della vita di corte; in vecchiaia scrisse anche opuscoli come le De laudibus Iohanni Baptistae che, unitamente ai suoi insegnamenti ed al suo stile di vita, dovettero avere notevole influsso sulla formazione di Girolamo: fu, del resto, proprio il nonno a prendersi cura della sua prima educazione insegnandogli la grammatica e la musica, oltre ad apprendere da sé il disegno.
La formazione (1468 - 1482)
Dopo la morte del nonno, il padre Niccolò, desiderando avviarlo alla professione medica, gli fece studiare le arti liberali; dapprima appassionato ai Dialoghi di Platone, tanto da scrivervi un commento, poi da lui stesso distrutto, passò presto all'aristotelismo e al tomismo.
Dopo aver conseguito il titolo di maestro in arti liberali, iniziò gli studi di medicina che tuttavia abbandonò già a diciotto anni per dedicarsi allo studio della teologia; scrisse componimenti poetici: risale al 1472 la sua canzone De ruina mundi nella quale ricorrono già temi delle sue future predicazioni: ...La terra è sì oppressa da ogne vizio, / Che mai da sé non levarà la soma: / A terra se ne va il suo capo, Roma, / Per mai più non tornar al grande offizio... e ancora nel 1475, nell'altra sua canzone, De ruina Ecclesiae, assimila la Roma papale all'antica, corrotta Babilonia.
Con questo spirito sentì nella chiesa di Sant'Agostino a Faenza le parole di un predicatore che, commentando il passo della Genesi Pàrtiti dalla tua terra e dalla tua famiglia e dalla casa del padre tuo, secondo quanto egli stesso scrive, lo spinsero il 24 aprile 1475 a lasciare la famiglia per entrare nel convento bolognese di San Domenico.
Sulla sua vocazione probabilmente influì la percezione di una forte decadenza dei costumi. Infatti in una sua lettera alla famiglia scrisse: «Scelgo la religione perché ho visto l'infinita miseria degli uomini, gli stupri, gli adulteri, le ruberie, la superbia, l'idolatria, il turpiloquio, tutta la violenza di una società che ha perduto ogni capacità di bene... Per poter vivere libero, ho rinunciato ad avere una donna e, per poter vivere in pace, mi sono rifugiato in questo porto della religione».
Il 26 aprile 1475 ricevette l'abito di novizio dal priore fra Giorgio da Vercelli, l'anno dopo ricevette i voti, il 21 settembre 1476 fu promosso suddiacono e l'1 maggio 1477 divenne diacono. I suoi superiori lo volevano predicatore e in quel convento Studium generale approfondì lo studio della teologia avendo fra i suoi maestri Pietro da Bergamo, famoso teologo autore della Tabula aurea, Domenico da Perpignano e Niccolò da Pisa.
Nel 1479 venne inviato dal convento a Ferrara e tre anni dopo a Reggio dove, in occasione del capitolo della Congregazione domenicana lombarda del 28 aprile 1482, venne nominato lettore nel convento fiorentino di San Marco.
Nel convento di San Marco (1482 - 1487)
Giunto nella Firenze di Lorenzo de' Medici - allora la capitale culturale della penisola o, come si esprimerà lo stesso Girolamo, il cuore d'Italia - nel maggio del 1482, ebbe il compito nel convento di San Marco di esporre le Scritture e di predicare dai pulpiti delle chiese fiorentine: e le sue lezioni conventuali erano esse stesse delle predicazioni.
Nella quaresima del 1484 gli venne assegnato il pulpito di San Lorenzo, la parrocchia dei Medici; non ebbe successo, come testimoniano le cronache del tempo, per la sua pronuncia emiliana che doveva suonare barbara alle orecchie fiorentine e per il modo della sua esposizione: il Savonarola stesso scrisse poi che "io non aveva né voce, né petto, né modo di predicare, anzi era in fastidio a ogni uomo il mio predicare" e ad ascoltare venivano solo "certi uomini semplici e qualche donnicciola".
Intanto il 29 agosto Giovanni Battista Cybo venne eletto papa col nome di Innocenzo VIII dopo la morte di papa Sisto IV, il 12 agosto 1484. Forse fu in questo periodo che il Savonarola ebbe, meditando in solitudine nella chiesa di San Giorgio, quella illuminazione, di cui parlò al termine della vita, durante il processo, apparendogli "molte ragioni per le quali si mostrava che alla Chiesa era propinquo qualche flagello".
Venne mandato a San Gimignano per le prediche quaresimali e subito, nel marzo del 1485 predicò nella Collegiata che la Chiesa "aveva a esser flagellata, rinnovata e presto": è la prima volta che vengono attestate le sue predicazioni "profetiche"; il 9 marzo e poi il 23 ottobre di quell'anno ricevette per lettera dalla madre a Ferrara le notizie della morte del padre e dello zio Borso.
Ancora dal pulpito della Collegiata, l'anno successivo affermò che "aspettiamo presto un flagello, o Anticristo o peste o fame. Se tu mi domandi, con Amos, se io sono profeta, con lui ti rispondo Non sum propheta" ed elencò le ragioni del prossimo flagello: le efferatezze degli uomini - omicidi, lussuria, sodomia, idolatria, credenze astrologiche, simonia - i cattivi pastori della Chiesa, la presenza di profezie - segno di prossime sventure - il disprezzo per i santi, la poca fede. Non vi sono notizie, tuttavia, che tali prediche abbiano suscitato scalpore e scandalo, come non ne suscitarono le prediche quaresimali tenute dal Savonarola nel 1487 nella chiesa fiorentina di Santa Verdiana.
Avendo terminato il suo ufficio di lettore a Firenze, quello stesso anno ottenne la prestigiosa nomina di maestro nello Studium generale di San Domenico a Bologna da dove, dopo aver insegnato per un anno, tornò a Ferrara nel 1488.
In Lombardia (1488 - 1490)
A Ferrara stette due anni nel convento di Santa Maria degli Angeli, senza per questo rinunciare a frequenti spostamenti per predicare, prevedendo i prossimi castighi divini, in diverse città, come testimoniò nel processo: "predicai a Brescia ed in molti altri luoghi di Lombardia qualche volta di queste cose", a Modena, a Piacenza, a Mantova; a Brescia, il 30 novembre 1489, previde che "e' padri vedrebbono ammazzare è loro figlioli e con molte ignominie straziare per le vie" e in effetti la città fu saccheggiata dai Francesi nel 1512.
Il convento ferrarese lo mandò a Genova a predicare per la quaresima; avviatosi, come sempre a piedi, a Pavia scrisse il 25 gennaio 1490 alla madre, che si lamentava del suo girovagare continuo, che "se io stesse a Ferrara continuamente, crediate che non faria tanto frutto quanto faccio di fuori, sì perché gniuno religioso, o pochissimi, fanno mai frutto di santa vita nella patria propria e però la santa Scrittura sempre grida che si vada fori de la patria, si etiam perché non è data tanta fede a uno della patria, quanto a uno forestiero, ne le predicazioni e consigli; e però dice el nostro Salvatore che non è profeta accetto ne la patria sua [...]".
Già il 29 aprile 1489 Lorenzo de' Medici, quasi certamente per suggerimento di Giovanni Pico della Mirandola, scrisse "al Generale dei Frati Predicatori, che mandi qui frate Hieronymo da Ferrara": e così, nuovamente in cammino, verso il giugno 1490 entrava a Firenze per la Porta di San Gallo, salutato da uno sconosciuto che lo aveva accompagnato fin quasi da Bologna, con le parole: "Fa' che tu facci quello per che tu sei mandato da Dio in Firenze".
Il ritorno a Firenze (1490 - 1498)
Dall'1 agosto 1490 riprese in San Marco le lezioni - ma tutti gli ascoltatori le interpretarono come vere e proprie predicazioni - sul tema dell'Apocalisse e poi anche sulla Prima lettera di Giovanni: formulò la necessità immediata del rinnovamento e della flagellazione della Chiesa e non temette di accusare governanti e prelati - "niente di buono è nella Chiesa... dalla pianta del piede fino alla sommità non è sanità in quella" - ma anche filosofi e letterati, viventi ed antichi: ebbe subito il favore dei semplici, dei poveri, degli scontenti e degli oppositori de' Medici, tanto da essere chiamato dai suoi contraddittori il predicatore dei disperati; il 16 febbraio 1491 predicò per la prima volta sul pulpito del Duomo di Santa Maria del Fiore. Il 6 aprile, mercoledì di Pasqua, secondo tradizione, predicò a Palazzo Vecchio davanti alla Signoria, affermando che il bene e il male d'una città provengono dai suoi capi, ma essi sono superbi e corrotti, sfruttano i poveri, impongono tasse onerose, falsificano la moneta.
Lorenzo il Magnifico lo fece ammonire più volte a non tenere simili prediche, tanto che egli stesso si trovò ad essere intimamente combattuto sulla necessità di continuare in quel tenore ma, come scrisse, la mattina del 27 aprile 1491, dopo aver sentito una voce dirgli Stolto, non vedi che la volontà di Dio è che tu predichi in questo modo?, salì sul pulpito e fece una terrifica praedicatio. Alle minacce di confino, come fu usato dallo stesso Lorenzo nei confronti di Bernardino da Feltre, rispose di non curarsene, predicendo la prossima morte del Magnifico: "io sono forestiero e lui cittadino e il primo della città; io ho a stare e lui se n'ha a andare: io a stare e non lui".
Anziché bandirlo, Lorenzo pensò di utilizzare contro il Savonarola l'eloquenza di un famoso agostiniano, fra Mariano della Barba da Genazzano, vecchio predicatore, colto ed elegante, che, infatti il 12 maggio predicò di fronte a un grande concorso di pubblico, fra cui spiccavano Lorenzo, Pico e il Poliziano, sul tema, tratto dagli Atti degli Apostoli, Non est vestrum nosse tempora vel momenta, evidentemente polemico nei confronti delle profezie del Savonarola. Ma non ebbe successo, secondo il racconto dei cronisti, ed il Savonarola, predicando tre giorni dopo sul medesimo tema, lo rimprovererà mansuetamente di esserglisi rivoltato contro.
In luglio, Girolamo venne eletto priore del convento di San Marco. Naturalmente, contrariamente alla consuetudine dei precedenti priori, non rese omaggio a Lorenzo e non si fece ammansire dai suoi doni e dalle cospicue elemosine; in quell'anno pubblicò il suo primo libro a stampa, il Trattato della vita viduale.
La notte del 5 aprile 1492 un fulmine danneggiò la lanterna del Duomo e molti fiorentini interpretano l'accaduto come un cattivo augurio; tre giorni dopo Lorenzo de' Medici morì nella sua villa di Careggi, confortato dalla richiesta benedizione del Savonarola, come attestò il Poliziano.
A maggio Girolamo si recò a Venezia per partecipare al Capitolo generale della Congregazione lombarda, della quale il convento di San Marco faceva parte dal 1456, da quando la peste del 1448 aveva decimato il numero dei frati sì da rendere necessaria la sua unione con la Congregazione lombarda, fiorente di conventi e di frati. Ritornò a Firenze il 22 maggio e in quell'anno uscirono quattro suoi scritti, il Trattato dell'amore di Gesù, il 17 maggio, il Trattato dell'Umiltà, il 30 giugno, il Trattato dell'Orazione il 20 ottobre e il Trattato in defensione dell'Orazione mentale, in una data imprecisabile.
Il 25 luglio di quel 1492 morì il papa Innocenzo VIII e l'11 agosto fu elevato al pontificato, col nome di Alessandro VI, uno dei più chiacchierati papi della storia, il cardinale Rodrigo Borgia. Il Savonarola commentò poi quest'elezione, sostenendo che essa sarebbe tornata a vantaggio della Chiesa, rendendo possibile la sua riforma: "Questa è dessa, questa è la via... questo è il seme da fare questa generazione. Tu non cognosci le vie delle cose di Dio; io ti dico che se 'l venisse Santo Piero adesso in terra e volesse riformare la Chiesa, el non potria, anzi saria morto".
La riforma del convento di San Marco
L'appoggio di Oliviero Carafa, il cardinale protettore dell'Ordine domenicano, fu decisivo per ottenere, il 22 maggio 1493, l'autorizzazione papale all'indipendenza del convento di San Marco. Sfilato semplicemente al dito del Borgia l'anello piscatorio, senza che questi facesse alcuna opposizione, il cardinale napoletano suggellò il Breve da lui stesso già preparato.
Il Savonarola aveva il progetto di rendere indipendenti quanti più conventi possibili in modo da poterli controllare e dar maggior forza alla riforma che aveva in mente. Il 13 agosto 1494 ottenne il distacco dalla Congregazione lombarda anche dei conventi domenicani di Fiesole, di San Gimignano, di Pisa e di Prato, creando così una Congregazione toscana, della quale lo stesso Girolamo divenne Vicario generale.
Volle che i suoi frati fossero un effettivo ordine mendicante, privo di ogni bene privato e cominciò con il vendere i possedimenti dei conventi e gli oggetti personali dei frati, distribuendo il ricavato ai poveri, e fece economie nelle vesti e nel cibo; in questo modo, del resto, aumentavano le elemosine ai conventi. Anche per l'accresciuto numero di conversi, pensò all'edificazione di un nuovo convento, più rustico e austero, che sorgesse fuori Firenze, ma mancò il tempo di realizzare il progetto. Nuove e drammatiche vicende si preparavano nei destini del frate e dell'intera penisola.
La discesa in Italia di Carlo VIII
È noto come Ludovico il Moro sollecitasse Carlo VIII di Francia a venire con un esercito in Italia a rivendicare i diritti degli Angioini sul Regno di Napoli. Il 9 settembre 1494 il re francese s'incontrò ad Asti con lo Sforza e sembra che il 21 settembre fosse a Genova. Firenze, che la politica incerta di Piero de' Medici aveva schierato in difesa degli Aragonesi di Napoli, era tradizionalmente filofrancese e il pericolo cui si vedeva soggetta accentuò il rancore, nella maggior parte dei cittadini, contro il Medici.
Quello stesso giorno Savonarola salì sul pulpito di un Duomo affollato e qui pronunciò una delle sue più violente prediche - sul tema del Diluvio - con un grido che, come scrisse, fece rizzare i capelli a Pico della Mirandola: Ecco, io rovescerò le acque del diluvio sopra la terra! In pratica la venuta di re Carlo era letta come l'avverarsi delle profezie apocalittiche.
Carlo VIII in realtà era ancora ad Asti ma si mosse con l'esercito per Milano e, per la via di Pavia, di Piacenza e di Pontremoli, entrava il 29 ottobre a Fivizzano, saccheggiandola e ponendo l'assedio alla rocca di Sarzanello, richiedendo che gli fosse lasciato il passo per Firenze. Piero, mutato consiglio e all'insaputa della città, gli concesse più di quanto chiedesse: le fortezze di Sarzanello, di Sarzana e di Pietrasanta, le città di Pisa e di Livorno e via libera per Firenze. Ebbe appena il tempo di tornare a Firenze l'8 novembre per esservi immediatamente cacciato: la città proclamava la Repubblica.
La Repubblica era governata da un Gonfaloniere di giustizia e otto Priori, che costituiscono la nuova Signoria, mentre il Consiglio Maggiore, risultato dell'unificazione dei preesistenti Consigli del Comune, del Popolo e dei Settanta, a cui potevano partecipare tutti i fiorentini che avessero compiuto 29 anni e che pagassero le imposte, eleggeva anche un Consiglio di ottanta membri, almeno quarantenni, che aveva il compito di approvare preliminarmente le decisioni del governo prima della definitiva decisione del Consiglio Maggiore.
Si costituirono le fazioni dei Bianchi, repubblicani e dei Bigi, favorevoli ai Medici, a imitazione delle antiche fazioni rivali dei guelfi Bianchi e Neri; trasversalmente a questi, si formò anche una divisione della cittadinanza in simpatizzanti del frate, perciò chiamati Frateschi e poi Piagnoni, e nei suoi nemici dichiarati, gli Arrabbiati o Palleschi (devoti cioè alle "palle" dello stemma mediceo).
Il 16 novembre 1494 Savonarola era al capezzale dell'amico Giovanni Pico della Mirandola, che ricevette da lui l'abito domenicano e morì il giorno dopo. Nella predica del 23 novembre Savonarola ne fece l'elogio funebre aggiungendo di aver avuto la rivelazione che la sua anima era in Purgatorio.
Direttamente dal papa gli venne intanto ordinato con un Breve di predicare la prossima quaresima del 1495 a Lucca; non è chiaro se la richiesta fosse sollecitata al Borgia dagli Arrabbiati o dalle autorità lucchesi; tuttavia, a seguito delle proteste del governo fiorentino, Lucca rinunciò alla richiesta. Si diffusero voci, prive di fondamento, che accusavano il Savonarola di nascondere molti beni nel convento e di arricchirsi con i tesori dei Medici e dei loro seguaci; gli Arrabbiati cercarono anche di rivolgergli contro fra Domenico da Ponzo, un ex-savonaroliano che, giunto da Milano, venne invitato dallo stesso gonfaloniere di giustizia Filippo Corbizzi a disputare l'8 gennaio 1495 davanti alla Signoria con Girolamo, Tommaso da Rieti, priore domenicano di Santa Maria Novella e avversario del Savonarola, e altri ecclesiastici.
Fra Tommaso lo accusò di occuparsi delle cose dello Stato, contro il nemo militans Deo implicat se negotis saecolaribus di san Paolo; ma lui non raccolse la provocazione e gli rispose solo due giorni dopo dal pulpito: "Tu dell'Ordine di Santo Domenico, che di' che non ci dobbiamo impacciare dello Stato, tu non hai bene letto; va', leggi le croniche dell'Ordine di San Domenico, quello che lui fece nella Lombardia ne' casi di Stati. E così di san Pietro martire, quello che fece qui in Firenze, che s'intromise per componere e quietare questo Stato [...] Santa Caterina fece fare la pace in questo Stato al tempo di Gregorio papa. Lo arcivescovo Antonino quante volte andava su in Palagio per ovviare alle leggi inique, che non si facessino!".
Il 31 marzo 1495 l'impero, la Spagna, il papa, Venezia e Ludovico il Moro concordarono un'alleanza contro Carlo VIII; fu necessario che vi partecipasse anche Firenze, per impedire al re francese ogni via di fuga in Francia; ma Firenze e il Savonarola erano filofrancesi: occorse screditarlo e abbatterne una volta per tutte l'influenza che esercitava nella città. Carlo VIII, che aveva conquistato senza combattere tutto il Regno di Napoli, vi lasciò a presidio metà delle sue forze armate e col resto delle truppe si affrettò a ritornare in Francia: il primo giugno entrò in Roma da dove Alessandro VI era fuggito a Orvieto e poi a Perugia e il re proseguì la risalita a nord, con grande delusione di Girolamo, che sperava in un rivolgimento nella città del Papato, e gran paura dei fiorentini, che avevano notizie di un accordo tra Piero de' Medici e il re per iprendere Firenze.
Savonarola incontrò il 17 giugno Carlo VIII a Poggibonsi, per avere assicurazioni che Firenze non subisse danni e che i Medici non venissero restaurati; il re, che pensava solo a ritornare in Francia, non ebbe difficoltà a tranquillizzarlo e fra Girolamo potè tornare a Firenze trionfante.
Il 7 luglio Carlo VIII forzò a Fornovo il blocco dell'esercito della Lega ed ebbe via libera per la Francia ma la sua spedizione fu in definitiva un fallimento: con la sua assenza, il Regno di Napoli tornò facilmente in possesso di Ferdinando II d'Aragona e Savonarola e la sua Repubblica sembravano ora molto indeboliti.
Alessandro VI
Il 21 luglio 1495 il papa inviò al Savonarola un Breve, nel quale, dopo aver espresso apprezzamento per l'opera sua nella vigna del Signore, lo invitava a Roma ut quod placitum est Deo melius per te cognoscentes peragamus, affinché egli, il papa, possa far meglio le cose, conosciute direttamente dal frate, che siano gradite a Dio. Naturalmente Savonarola rifiutò, con una lettera di risposta del 31 luglio, di recarsi a Roma, adducendo motivi di salute e promettendo un futuro incontro e per intanto l'invio di un libretto ove il papa avrebbe desunto i suoi proponimenti: è il Compendio di rivelazioni, pubblicato a Firenze il 18 agosto.
Il papa rispose l'8 settembre con un altro Breve nel quale fra Girolamo, accusato di eresia e di false profezie, venne sospeso da ogni incarico e il giudizio a suo carico veniva demandato al vicario generale della Congregazione lombarda, fra Sebastiano Maggi. Savonarola rispose il 30 settembre respingendo tutte le accuse e rifiutando di sottomettersi al vicario della Congregazione, che considerava suo avversario e aspettandosi che fosse il Papa stesso ad assolverlo da ogni accusa; l'11 ottobre accusò dal pulpito gli Arrabbiati di aver brigato col papa per distruggerlo. Alessandro VI, con un Breve del 16 ottobre, sospese i precedenti ordini e gli intimò soltanto di astenersi dalle predicazioni, in attesa di future decisioni.
Savonarola obbedì ma non restò inoperoso: il 24 ottobre pubblicò l'Operetta sopra i Dieci Comandamenti e attese alla stesura del De simplicitate christianae vitae. In dicembre apparve la sua Epistola a un amico nella quale respinse le accuse di eresia e difese la riforma politica introdotta a Firenze. La Signoria, intanto, premeva sul papa perché costui accordasse nuovamente il permesso di predicare a fra Girolamo: il suo ascendente sulla popolazione era indispensabile per ribattere gli attacchi che gli Arrabiati portavano al governo e allo stesso frate, accusati di essere responsabili della perdita di Pisa.
Sembra che il permesso fosse giunto da Alessandro VI oralmente vivae vocis oraculo al cardinale Carafa e al delegato fiorentino Ricciardo Becchi; in ogni caso, il 16 febbraio 1496, dopo essere stato accompagnato al Duomo da una folla in corteo di 15.000 persone, Girolamo risalì sul pulpito di Santa Maria del Fiore, per la prima predica del quaresimale di quell'anno.
Esordì fingendo un dialogo con un interlocutore, che gli rimproverava di predicare malgrado fosse scomunicato: «La hai tu letta questa escommunica? Chi l'ha mandata? Ma poniamo che per caso che così fussi, non ti ricordi tu che io ti dissi che ancora che la venisse, non varrebbe nulla? [...] non vi maravigliate delle persecuzioni nostre, non vi smarrite voi buoni, ché questo è il fine dei profeti: questo è il fine e il guadagno nostro in questo mondo».
Il 24 febbraio si scagliò contro la Curia romana: «Noi non diciamo se non cose vere, ma sono li vostri peccati che profetano contra di voi [...] noi conduciamo li uomini alla simplicità e le donne ad onesto vivere, voi li conducete a lussuria e a pompa e a superbia, ché avete guasto il mondo e avete corrotto li uomini nella libidine, le donne alla disonestà, li fanciulli avete condotto alle soddomie e alle spurcizie e fattoli diventare come meretrici». Tali prediche furono raccolte in volume e pubblicate con il titolo Prediche sopra Amos.
Fra i nemici esterni di Firenze e del Savonarola segnatamente non era del resto solo il papa, ma tutti gli aderenti alla Lega antifrancese, come Ludovico il Moro al quale il frate scrisse l'11 aprile 1496 invitandolo «a fare penitentia de li soi peccati, perché il flagello si appropinqua [...] di questo mio dire non ho aspettato né aspetto altro che infamia et opprobrii e persecuzioni e finalmente la morte [...]»; e lo Sforza rispose scusandosi, chissà quanto sinceramente, «se pur vi avemo offeso e fatto cosa molesta [...[ e in far penitenzia e meritare con Dio non se retireremo».
In aprile predicò a Prato, nella chiesa di San Domenico, ascoltato dal consueto grande concorso di folla, tra la quale sono i maggiori filosofi fiorentini del tempo, il platonico Marsilio Ficino e l'aristotelico Oliviero Arduini; alla fine di quel mese si stampò a Firenze l'ultima operetta di Girolamo, la Expositio psalmi Qui regis Israel - postume, nel 1499, appariranno le Prediche sopra Ruth e Michea, composte entro il novembre 1496 - mentre la sua proposta di proibire per legge vesti scollate ed elaborate acconciature delle donne venne respinta dalla Repubblica.
In agosto Alessandro VI gli offrì, tramite il domenicano Lodovico da Valenza - altri intendono che il messo fosse il figlio stesso del papa, Cesare Borgia, cardinale di Valenza - la nomina a cardinale a condizione che ritratti le passate critiche alla Chiesa e se ne astenga nel futuro; fra Girolamo promise di rispondere il giorno dopo, alla predica, che tenne nella Sala del Consiglio, alla presenza della Signoria. Dopo aver ripercorso le vicende degli anni passati, via via accalorandosi, se ne uscì con un grido: «Non voglio cappelli, non voglio mitrie grandi o piccole, voglio quello che hai dato ai tuoi santi: la morte. Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!».
Il 23 agosto 1496 Ludovico il Moro denunciò di aver intercettato due lettere del Savonarola dirette in Francia; una, indirizzata a Carlo VIII, lo sollecitava a venire in Italia mentre l'altra, diretta a un tale Niccolò, lo metteva in guardia contro l'arcivescovo di Aix, ambasciatore francese a Firenze, sostenendo la sua infedeltà al Re e l'atteggiamento ostile a Firenze. Sembra che quelle lettere siano dei falsi e che l'iniziativa del Moro tendesse a rompere l'alleanza franco-fiorentina e a screditare fra Girolamo, che negò di averle mai scritte.
Il 7 febbraio del 1497 Savonarola organizzò un falò delle vanità a Firenze, nel quale, con spirito di fanatismo medievale, vennero dati alle fiamme molti oggetti d'arte, dipinti dal contenuto paganeggiante, gioielli, suppellettili preziose, vestiti lussuosi, con incalcolabile danno per l'arte e la cultura fiorentina rinascimentale.
Scomunicato da Papa Alessandro VI il 12 maggio del 1497, Savonarola continuò la sua campagna contro i vizi della Chiesa, se possibile con ancora più violenza, creandosi numerosi nemici, ma anche nuovi estimatori, perfino fuori Firenze: proprio a questo periodo risale una breve corrispondenza epistolare con Caterina Sforza, signora di Imola e Forlì, che gli aveva chiesto consiglio spirituale. La Repubblica fiorentina in un primo momento lo sostenne, ma poi, per timore dell'interdizione papale e per la diminuzione del prestigio del frate, gli tolse l'appoggio. Fu inscenata anche una prove del fuoco, che fu mancata, a cui era stato sfidato da un francescano suo rivale.
Venutogli meno l'appoggio francese, fu messo in minoranza rispetto al risorto partito dei Medici che nel 1498 lo fece arrestare e processare per eresia. Il processo fu palesemente manipolato e fu condannato ad essere bruciato in piazza della Signoria con due suoi confratelli. All’alba del 23 maggio 1498, alla vigilia dell'Ascensione, i tre religiosi dopo aver ascoltato la messa nella Cappella dei Priori nel Palazzo della Signoria, furono condotti sull’arengario del palazzo stesso dove subirono la degradazione da parte del Tribunale del Vescovo. Nello stesso luogo vi erano anche il Tribunale dei Commissari Apostolici e quello del Gonfaloniere e dei Signori Otto di Guardia e Balìa, questi ultimi i soli che potevano decidere sulla condanna. Dopo la degradazione i tre frati furono avviati verso il patibolo, innalzato nei pressi della Fontana del Nettuno in seguito compiuta dal Giambologna, e collegato all’arengario del palazzo da una passerella alta quasi due metri da terra. La forca, alta cinque metri, si ergeva su una catasta di legna e scope cosparse di polvere da sparo per bombarde. Fra le urla della folla fu appiccato il fuoco a quella catasta che in breve fiammeggiò violentemente, bruciando i corpi oramai senza vita degli impiccati. Le ceneri dei tre frati, del palco e d’ogni cosa arsa furono portate via con delle carrette e gettate in Arno dal Ponte Vecchio, anche per evitare che venissero sottratte e fatte oggetto di venerazione da parte dei molti seguaci del Savonarola mescolati fra la folla. Dice infatti il Bargellini che "ci furono gentildonne, vestite da serve, che vennero sulla piazza con vasi di rame a raccogliere la cenere calda, dicendo di volerla usare per il loro bucato". La mattina dopo, come già detto, il luogo dove avvenne l’esecuzione apparve tutto coperto di fiori, di foglie di palma e di petali di rose. Nottetempo, mani pietose avevano così voluto rendere omaggio alla memoria dell’ascetico predicatore, iniziando la tradizione che dura tuttora. Il punto esatto nel quale avvenne il martirio e oggi avviene la Fiorita era indicato da un tassello di marmo, già esistente, dove veniva collocato il "Saracino" quando si correva la giostra. Questo lo si rivela da "Firenze illustrata" di Del Migliore, il quale così scrive: "alcuni cittadini mandavano a fiorire ben di notte, in su l'ora addormentata, quel luogo per l'appunto dove fu piantato lo stile; che v'è per segno un tassello di marmo poco lontano dalla fonte". Al posto dell’antico tassello per il gioco del Saracino, v'è attualmente la lapide circolare che ricorda il punto preciso dove fu impiccato e arso "frate Hieronimo". La lapide, in granito rosso, porta un'iscrizione in caratteri bronzei.
Molti anni dopo la sua scomparsa, il termine Savonarola divenne un aggettivo di connotazione dispregiativa o ironica che sta ad indicare una persona che si scaglia con veemenza contro il degrado morale: il repubblicano Ugo La Malfa ad esempio venne soprannominato "Il Savonarola della politica".
Il Museo di San Marco a Firenze conserva numerose memorie del frate.
Bibliografia
▪ Annalia Conventus Sancti Marci de Florentia, codice San Marco 370, Biblioteca Laurenziana, Firenze
▪ P. Villari, La storia di Girolamo Savonarola e de' suoi tempi, Firenze, 1930
▪ J. Schnitzer, Savonarola, trad. di E. Rutili, Milano, 1931
▪ Anonimo (Pseudo fra Pacifico Burlamacchi), La vita del Beato Ieronimo Savonarola, a cura e con una introduzione di R. Ridolfi, Firenze, 1937
▪ G. Savonarola, Edizione Nazionale delle Opere, Roma, 1953
▪ R. De Maio, Savonarola e la curia romana, Roma, 1969
▪ G. Cattin, Il primo Savonarola, Firenze, 1973
▪ R. Ridolfi, Vita di Girolamo Savonarola, Firenze, 1952
▪ D. Weinstein, Savonarola e Firenze. Profezia e patriottismo nel Rinascimento, Bologna, 1976
▪ F. Cordero, Savonarola, Bari, 1988
▪ I. Cloulas, Savonarola o la rivoluzione di Dio, Casale Monferrato, 1998
▪ R. Klein, Il processo di Girolamo Savonarola, Ferrara, 1998
▪ F. Guicciardini, Storie fiorentine, Milano, 1998
▪ R. Ridolfi, Prolegomeni e aggiunte alla Vita di Girolamo Savonarola, Firenze, 2000 ISBN 88-87027-86-2
▪ 1868 - Christopher Carson meglio noto come Kit Carson (Richmond, 24 dicembre 1809 – Fort Lyon, 23 maggio 1868) è stato un esploratore statunitense. Fu un celebre "uomo di frontiera" americano del XIX secolo; fu esploratore, guida, agente indiano, cacciatore, e soldato. Figura quasi leggendaria, rappresenta nell'immaginario collettivo una delle icone del Far West. Christopher Carson meglio noto come Kit Carson (Richmond, 24 dicembre 1809 – Fort Lyon, 23 maggio 1868) è stato un esploratore statunitense. Fu un celebre "uomo di frontiera" americano del XIX secolo; fu esploratore, guida, agente indiano, cacciatore, e soldato. Figura quasi leggendaria, rappresenta nell'immaginario collettivo una delle icone del Far West.
Fuggì di casa all'età di 16 anni, girovagando fino a stabilirsi nel Colorado, dove intraprese l'attività di cacciatore. Successivamente cambiò mestiere, divenendo guida lungo la tratta che conduceva le carovane di pionieri, dall'Est del continente americano verso la California.
Come esploratore, Carson guidò numerose spedizioni in California e nelle Montagne Rocciose.
Come cacciatore, soggiornò a Forte Bent, in una delle numerosi stazioni commerciali, create all'epoca della caccia al bisonte, non molto distanti dall'odierna Denver. La sua funzione era quella di ottenere carne a sufficienza per nutrire i visitatori e i lavoranti nella stazione. Fu proprio in quel periodo che propose la sua celeberrima sfida: uccidere sei bisonti con sei colpi. Le cronache narrano che riuscì, incredibilmente, ad ucciderne ben sette, dopo aver recuperato uno dei sei proiettili, rimasto infilato, percettibilmente, appena sotto la pelle di un bisonte colpito.
Combatté nella Guerra messicano-statunitense (1846-1848) e nella Guerra di secessione arruolandosi nell'esercito nordista (1861-1865), dove ottenne il grado di brigadiere generale.
Alla fine della guerra fu mandato a Fort Stanton, tra i Monti Sacramento con il compito di occuparsi delle tribù indiane Apache e Navajo. Il tenente colonnello Carson si mostrò moderato nella repressione degli indigeni, e nonostante le raccomandazioni di uccidere tutti i maschi e di catturare le donne, optò per la distruzione delle cose rispettando le vite umane.
Morì il 23 maggio 1868 a Boggsville, sulla stessa tratta che aveva percorso ripetutamente in passato, come guida.
Fuggì di casa all'età di 16 anni, girovagando fino a stabilirsi nel Colorado, dove intraprese l'attività di cacciatore. Successivamente cambiò mestiere, divenendo guida lungo la tratta che conduceva le carovane di pionieri, dall'Est del continente americano verso la California.
Come esploratore, Carson guidò numerose spedizioni in California e nelle Montagne Rocciose.
Come cacciatore, soggiornò a Forte Bent, in una delle numerosi stazioni commerciali, create all'epoca della caccia al bisonte, non molto distanti dall'odierna Denver. La sua funzione era quella di ottenere carne a sufficienza per nutrire i visitatori e i lavoranti nella stazione. Fu proprio in quel periodo che propose la sua celeberrima sfida: uccidere sei bisonti con sei colpi. Le cronache narrano che riuscì, incredibilmente, ad ucciderne ben sette, dopo aver recuperato uno dei sei proiettili, rimasto infilato, percettibilmente, appena sotto la pelle di un bisonte colpito.
Combatté nella Guerra messicano-statunitense (1846-1848) e nella Guerra di secessione arruolandosi nell'esercito nordista (1861-1865), dove ottenne il grado di brigadiere generale.
Alla fine della guerra fu mandato a Fort Stanton, tra i Monti Sacramento con il compito di occuparsi delle tribù indiane Apache e Navajo. Il tenente colonnello Carson si mostrò moderato nella repressione degli indigeni, e nonostante le raccomandazioni di uccidere tutti i maschi e di catturare le donne, optò per la distruzione delle cose rispettando le vite umane.
Morì il 23 maggio 1868 a Boggsville, sulla stessa tratta che aveva percorso ripetutamente in passato, come guida.
▪ 1886 - Leopold von Ranke (Wiehe, 21 dicembre 1795 – Berlino, 23 maggio 1886) è stato uno storico tedesco.
La sua prima opera, Storie dei popoli latini e germanici dal 1494 al 1535, pubblicata nel 1824, gli guadagnò subito larga fama per il metodo rigorosamente scientifico che aveva adottato e che gli aveva permesso di mettere in luce tutta una serie di errori contenuti in precedenti opere storiografiche. Fece seguire a questa una serie di opere, composte in seguito a meticolose ricerche in ricchi archivi dell'Italia e della Germania, su grandiose ricostruzioni storiche.
Fu il maggiore storico tedesco dell’Ottocento, fondatore del metodo che fu prevalente nella storia ufficiale sino agli anni ’60 del Novecento. Attenzione per le fonti documentarie, studio rigoroso dei fatti sulla base delle fonti e critica per le visioni positivistiche ed hegeliane furono il suo assetto principale. La dottrina metodologica ha il compito di mostrare i fatti come essi sono effettivamente apparsi, astenendosi dal proporre interpretazioni.
Fu critico nei confronti della filosofia della storia e in particolar modo dell’interpretazione proposta da Hegel, la quale escludeva la componente umana dalla storia, riconducendo al solo manifestarsi dell’idea nel mondo fenomenico il percorso storico, finalizzato al pieno affermarsi dell’idea stessa. Ranke, invece, si proponeva di ricondurre dal piano delle idee a quello dei fatti, connesse tramite una specifica correlazione. Secondo un legame immanente, l’idea non è indagabile a priori slegata dagli eventi, così come nella comprensione della storia non è possibile il passaggio dal particolare fenomenico all’universale dell’idea.
L’oggetto della storia non è possibile indagarlo né in senso positivista come somma dei semplici fatti, né per via strettamente speculativa, tramite concetti universali. Per Ranke, le dottrine dominanti in un determinato periodo non possono essere valide in eterno per considerare lo studio di periodi differenti. Le idee forti sono le tendenze dominanti in ciascun secolo, non si può tramite queste risalire ad un concetto generale della storia. La storia è da intendere come una continua tensione tra evento e idea, inscindibile l’uno dall’altro, particolare ed immanente in ciascun periodo essa si attui.
L'importanza di Ranke nella storiografia moderna è notevole, perché introdusse in modo definitivo il metodo più rigoroso nell'accertamento dei fatti storici sulla base della loro documentazione diretta. Veramente imponenti furono anche la vastità e la ricchezza della sua visione storica.
Pur ponendo talora l'accento in modo eccessivo sui fatti diplomatici e di politica internazionale, Ranke mostrò che il quadro generale della ricostruzione storica è quello di un'intera civiltà, anziché di un singolo stato, eliminando tutta una serie di pregiudizi che erano presenti nella storiografia a lui precedente a che dovevano ritornare spesso in quella successiva.
▪ 1945 - Heinrich Luitpold Himmler (Monaco di Baviera, 7 ottobre 1900 – Lüneburg, 23 maggio 1945) Reichsführer delle Schutzstaffeln dal 1929, comandante della polizia dal 1936 e delle forze di sicurezza della Germania nazista
(Reichssicherheitshauptamt o RSHA, Ufficio centrale della sicurezza del Reich) dal 1939; nel 1943 venne nominato ministro dell'Interno del Reich. Fu uno degli uomini più importanti della Germania nazista.
La gioventù
Heinrich Himmler nacque a Monaco di Baviera il 7 ottobre 1900, secondo dei tre figli di Gebhard Himmler, insegnante di scuola superiore, e di Anna Maria Heyder, una casalinga, fervente cattolica, figlia di un uomo d'affari. Il padre era un genitore che si interessava molto all'educazione di Heinrich e dei suoi fratelli Gebhard (il primogenito, più vecchio di due anni) e Ernst (l'ultimo, più giovane di cinque anni).
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Himmler, che allora aveva quattordici anni, seguì con vivo interesse gli avvenimenti e spinse i genitori a servirsi delle loro amicizie (il padre infatti era stato il precettore del principe Enrico di Wittelsbach) per aiutarlo a trovare un posto di ufficiale cadetto ancor prima di finire il ginnasio. Tuttavia la guerra finì prima che gli fosse data l'opportunità di andare al fronte.
L'ingresso nel Partito Nazionalsocialista
Dall'aprile del 1919 Himmler si iscrisse a diversi Freikorps, tra i quali il "Landshut", "Oberland", "21° Schützenbrigade" e "Einwohnerwehr", per "cancellare l'onta di Versailles" e abbattere la "dittatura marxista". Terminati gli studi universitari nel 1922 con un diploma in agraria, trovò immediatamente lavoro presso una ditta di concimi, la "Stickstoff-Land".
Iscrittosi al Partito nazionalsocialista nel 1923 (tessera n° 156), lo stesso anno partecipò al fallito putsch di Monaco, ma mentre Röhm e Hitler vennero arrestati, Himmler venne considerato un comprimario insignificante. Nella primavera del 1925 venne licenziato, e, disoccupato, decise di entrare nella nuova formazione politica "Movimento di liberazione nazionalsocialista" di Erich Ludendorff. In quel periodo conobbe anche Gregor Strasser, di cui divenne di lì a breve segretario personale; Strasser, infatti, dopo lo scioglimento d'autorità del movimento nazionalsocialista, stava tentando di ricostruire il partito.
Dopo la ricostituzione, il 27 febbraio 1925, dello NSDAP, Himmler riuscì rapidamente a scalare i vertici del partito: funzionario del Gau (una suddivisione territoriale, paragonabile alle nostre Regioni) della Bassa Baviera, con sede a Landshut, provvide a rivitalizzare le sezioni nazionalsocialiste della zona. Sempre nel 1925 venne promosso vice-Gauleiter della Bassa Baviera-Alto Palatinato. L'anno seguente venne nominato facente funzioni di Gauleiter dell'Alta Baviera-Svevia, poi vice responsabile nazionale della propaganda del partito e, infine, nel 1927, facente funzione di dirigente nazionale delle Schutzstaffel.
L'ingresso nelle SS
Le SS, che negli anni venti contavano poche decine di uomini, crebbero insieme all'avanzare della carriera di Himmler.
Il 6 gennaio 1929, Hitler nominò Himmler Reichsführer delle Schutzstaffel: la piccola formazione paramilitare era ancora una formazione marginale all'interno delle SA, le Sturmabteilung di Ernst Röhm che erano diventate un vero e proprio esercito al servizio del partito. Himmler si mise subito al lavoro: secondo i suoi progetti, mentre nelle SA contava la quantità, le SS si sarebbero contraddistinte per la qualità, per formare una guardia elitaria, sull'esempio dei pretoriani della Roma imperiale, vincolando gli uomini con un giuramento personale a Hitler, divenendo in tal modo disposti ad eseguire ogni ordine risolutamente e senza troppe domande.
Esempio concreto, e vistoso, di questa cieca ubbidienza, divenne il motto "Meine Ehre heißt Treue" ("Il mio onore si chiama fedeltà") che venne inciso sulle fibbie delle cinture delle divise delle SS e sui "pugnali d'onore": fu proprio Adolf Hitler, nell'aprile del 1931, a rendere omaggio in questo modo alla lealtà delle unità SS di Berlino che, guidate da Kurt Daluege, repressero sul nascere il tentativo di rivolta delle SA più radicali.
Nel frattempo, le SS e, di pari passo, Himmler uscirono a poco a poco dall'ombra: i duecento uomini del 1928 erano saliti a mille l'anno seguente, raggiungendo una forza di 50 000 uomini nel 1934. Nel 1931, inoltre, sotto la guida di Reinhard Heydrich, venne creato un servizio segreto all'interno delle stesse SS, il famigerato Sicherheitsdienst (SD).
Il consolidamento del potere
Dopo la vittoria alle elezioni del 1933 e la nomina a Cancelliere, Hitler si accorse che le squadre delle SA, indisciplinate e violente, non erano più necessarie; anzi, costituivano un fattore di disturbo e di pregiudizio per la sua immagine di uomo votato all'ordine e alla pace sociale, ed erano altresì un ostacolo alla strada per il rafforzamento del suo potere. Il generale Werner von Blomberg, ministro responsabile della Reichswehr, era stato molto chiaro: Hitler avrebbe potuto contare sull'appoggio dell'esercito, della marina e della nascente aviazione solo se fossero rimaste le uniche le forze armate del Reich. Anche negli ambienti tradizionalisti e conservatori dell'economia e della politica si guardava con diffidenza e con paura all'armata popolare, animata da idee rivoluzionarie ed anticapitaliste, guidata dal turbolento Ernst Röhm.
Anche all'interno dello stesso NSDAP vi erano correnti, spinte da interessi personali, che volevano infrangere il potere delle SA: una era guidata da Hermann Göring, che temeva che l'aumento del potere di Röhm lo avrebbe scalzato di fatto da "numero due" del partito; l'altra corrente era guidata appunto da Himmler, che mal sopportava che le SS fossero ancora formalmente subordinate alle SA.
Le SS ebbero un ruolo di assoluto rilievo nella preparazione e nell'esecuzione di quella che sarebbe passata alla storia come la "notte dei lunghi coltelli": fu lo stesso Heydrich a provvedere alla falsificazione dei documenti che avrebbero dovuto dimostrare che le SA stessero preparando un colpo di Stato, mentre Himmler portò personalmente la notizia e le "prove" del complotto di Röhm a Hitler. Il 30 giugno 1934 Röhm, i vertici delle SA e altri vecchi avversari di Hitler, come Kurt von Schleicher, Gustav von Kahr e Gregor Strasser, vennero eliminati come nemici dello Stato.
Come "ricompensa" per il ruolo svolto, Himmler ottenne il controllo della Gestapo, la polizia politica segreta, e il 20 luglio 1934 Hitler firmò un decreto con il quale elevava le SS a organizzazione autonoma nell'ambito dello NSDAP. Himmler però non avanzò solamente all'interno del partito ma anche nell'ambito dello Stato. Infatti, quando il Partito nazionalsocialista, il 9 marzo 1933, aveva preso il potere in Baviera, Himmler aveva assunto il controllo della polizia: da lì mosse anche all'assorbimento delle forze di polizia degli altri Länder, fino a che, nel maggio del 1934 ebbe il comando di tutte le forze di polizia con l'eccezione di quella della Prussia (ancora sotto il controllo di Göring in qualità di ministro degli Interni dello stato prussiano). Il 20 novembre dello stesso anno, Göring, suo malgrado, gli trasmise tutti i poteri e le competenze operative della polizia prussiana.
Nel giugno del 1936 Himmler venne nominato Chef der Deutschen Polizei (ChdDtP), ovvero comandante dell'intera attività di polizia, politica e segreta dell'intera Germania: in questa sua nuova funzione, Himmler poteva partecipare alle riunioni del governo Hitler, poiché la sua carica equivaleva a quella di un ministro; da allora la polizia non fu più un organo dello Stato, ma uno strumento del potere del Führer. Il 26 giugno 1936 Himmler emise un decreto per procedere alla riorganizzazione della polizia tedesca: Kurt Daluege divenne comandante delle forze di polizia preposte all'ordine pubblico (Orpo); mentre Reinhard Heydrich assunse il controllo sulla polizia politica (Gestapo) e su quella investigativa (SD).
La seconda guerra mondiale e l'Olocausto
Il nome di Himmler è comunque indissolubilmente legato alla "Soluzione finale": egli delegò prima il suo braccio destro Reinhard Heydrich e, in seguito, Adolf Eichmann a portare avanti il programma di sterminio degli Untermenschen ovvero degli "inferiori" rispetto alla razza ariana.
Fu la guerra contro l'Unione Sovietica ad offrire le condizioni per procedere all'esecuzione di una vera e propria campagna di annientamento: per questo vennero costituite unità speciali, le famigerate Einsatzgruppen, per procedere all'eliminazione di tutti gli ebrei, i funzionari comunisti e gli zingari nelle retrovie del fronte.
Himmler comunque si preoccupò anche della "salute mentale" dei propri uomini che operavano in queste "missioni": difatti uno dei problemi più complessi da risolvere fu individuato nel riuscire a procedere all'eliminazione di grandi masse di persone, come in occasione delle fucilazioni di massa a Babi Yar, in Ucraina, senza che agli esecutori ne derivassero danni psichici o rimorsi di coscienza. La "soluzione" di Himmler, per l'omicidio "pulito e corretto", venne comunicata ai Gruppenführer nel famoso discorso di Posen del 4 ottobre 1943:
«Non ne dibatteremo mai in pubblico, però è venuto il momento di parlare molto francamente fra di noi. Mi riferisco all'evacuazione degli ebrei, allo sterminio del popolo ebraico. È uno di quei principi che è facile enunciare: "Il popolo ebraico va eliminato", dice ogni membro del partito, "ed è ovvio che così sia perché così è scritto nel nostro programma. Bisogna togliere di mezzo gli ebrei, farli fuori, ma certo!" Poi però vengono tutti, uno per uno, i nostri cari ottanta milioni di tedeschi e ognuno di loro ha il suo bravo ebreo da proteggere. Sì, è vero, tutti gli altri sono porci, tuttavia questo ebreo in particolare rappresenta un'eccezione [...] ma non uno di quelli che parlano così ha mai assistito a ciò che poi di fatto succede, non uno che abbia dovuto superare questa prova. I più di voi sanno cosa significa trovarsi davanti a cento cadaveri, a cinquecento o a mille. Aver provveduto a tutto questo e, a parte le eccezioni costituite da alcuni episodi di umana debolezza, essere rimasti ugualmente corretti: ecco cosa ci ha resi duri.»
Alla fine la soluzione venne trovata nell'istituzione dei campi di concentramento. Il primo lager venne costruito già nel 1933, subito dopo la vittoria alle elezioni del Partito nazista, a Dachau, vicino Monaco di Baviera, per internare gli avversari politici.
All'inizio della Seconda guerra mondiale, nei sei grandi campi di concentramento allora già esistenti, erano rinchiusi circa 21.000 detenuti; ma nel 1940 questo numero era già salito a 800.000.
Dopo i campi di concentramento l'istituzione dei campi di sterminio fu solo una conseguenza: Auschwitz, Sobibór, Chełmno, Majdanek, Treblinka, Bełżec, tutti istituti nel Governatorato Generale (il nome assunto dalla Polonia occupata) perché la popolazione tedesca non si accorgesse di nulla.
Il tradimento e la morte
Con le sorti della guerra ormai compromesse, Himmler si presentò l'ultima volta presso il Führerbunker di Hitler a Berlino, il 20 aprile 1945 in occasione del compleanno del Führer. Nelle stesse ore nella tenuta di Felix Kersten, medico e massaggiatore personale di Himmler, lo stava aspettando Norbert Masur, un inviato del Congresso mondiale ebraico. All'incontro, avvenuto il 21 aprile, Masur chiese che fossero immediatamente liberati tutti gli ebrei detenuti nelle località da cui fosse possibile raggiungere i confini con la Svizzera e con la Svezia; oltre alla consegna, senza resistenza, dei campi di concentramento alle truppe alleate e la liberazione di una lista di detenuti svedesi, francesi e norvegesi, oltre a mille donne ebree recluse a Ravensbrück.
Himmler si dimostrò disposto a patteggiare: promise che gli ebrei olandesi rinchiusi a Theresienstadt e le mille donne ebree di Ravensbrück sarebbero stati liberati e che tutti i campi di concentramento sarebbero stati abbandonati, indenni, all'avvicinarsi delle truppe alleate. In realtà Himmler sapeva benissimo che in quegli stessi momenti erano in corso le "marce della morte" dai campi di Sachsenhausen, Dachau e Flossenbürg, e lui stesso aveva impartito ordini specifici perché nessun detenuto cadesse vivo nelle mani del nemico.
Pochi giorni dopo, il 23 aprile, Himmler incontrò nella cantina del consolato svedese di Lubecca il conte Folke Bernadotte, proponendogli la resa tedesca sul fronte occidentale, ma non su quello orientale. Gli Alleati occidentali si guardarono bene dal prendere in considerazione la proposta di pace di Himmler; tuttavia l'offerta fatta venne divulgata attraverso la stampa e il 28 aprile Radio Londra annunciò: "Il Reichsführer delle SS sostiene che Hitler è morto e di esserne il successore". A Berlino Hitler, in preda ad un attacco d'ira incontenibile, lo sollevò da tutti i suoi incarichi politici e millitari e ne ordinò anche l'arresto e la fucilazione, solo che questi non furono eseguiti per via della difficile situazione di stallo in cui si trovano tutti i reparti dell'esercito del Terzo Reich.
Tuttavia il 1º maggio Himmler si presentò ugualmente al nuovo Presidente del Reich, il Grandammiraglio Karl Dönitz, per tentare di avere un posto nel nuovo governo tedesco, ma nonostante ripetuti incontri, si risolse in un nulla di fatto. Himmler decise allora di nascondersi cercando di confondersi con i militari sbandati della Wehrmacht. Il 12 maggio Himmler e un piccolo drappello di uomini delle SS attraversarono l'Elba con l'obiettivo di raggiungere la Baviera; tra questi vi erano l'SS-Sturmbannführer Josef Kiermayer (sua guardia del corpo) l'SS-Standartenführer Rudolf Brandt (suo assistente personale), i due aiutanti maggiori l'SS-Obersturmbannführer Werner Grothmann e l'SS-Sturmbannführer Heinz Macher, oltre ad altri sette uomini delle SS e al professor Karl Gebhardt, medico di Ravensbrück.
Il 22 maggio alla periferia del villaggio di Barnstedt, fra Bremervörde e Amburgo, il piccolo drappello e Himmler (che aveva assunto l'identità di Heinrich Hitzinger) vennero fermati da una pattuglia militare inglese e tradotti nel campo di prigionia 031, presso Bramstedt. Himmler, rivelando la propria identità, chiese allora di avere un colloquio con il capitano T. Sylvester, comandante del campo, nel vano tentativo di assicurarsi un trattamento privilegiato.
Il giorno successivo, 23 maggio 1945, Himmler fu sottoposto ad un nuovo interrogatorio e ad un'ulteriore perquisizione per evitare che nascondesse del veleno: fu allora che spezzò la capsula di cianuro che aveva inserito in una fessura tra i denti. Gli inglesi gli somministrarono immediatamente un emetico e lo sottoposero ad una lavanda gastrica nel tentativo di salvargli la vita, ma dopo dieci minuti di agonia Himmler morì. Nei giorni successivi ufficiali statunitensi e sovietici ispezionarono la salma per accertarsi della vera identità.
Il 26 maggio il cadavere fu interrato da alcuni soldati inglesi in qualche punto di un bosco nei pressi di Lüneburg.
La razza ariana e l'occulto
Negli anni dal 1933 al 1935 la tessera delle SS fu conferita solamente a 60.000 uomini, una crescita enorme rispetto ai 200 uomini del 1929, ma pur sempre una forza modesta, se paragonata ai tre milioni di uomini delle SA. Himmler difatti era deciso a fare delle SS un'élite razziale, e, come lui stesso ebbe a dire nei suoi diari, esaminava personalmente le fotografie degli aspiranti e scartava quelli "il cui aspetto può apparire stravagante a un occhio tedesco"; ad esempio, a suo dire, zigomi troppo pronunciati rimandavano quasi certamente a sangue mongolo o slavo.
Proprio per preservare la purezza della razza ariana, il 28 ottobre 1938 Himmler fece diffondere fra tutti i membri delle SS una nota secondo la quale era un "dovere", per ogni uomo delle SS, procreare almeno quattro figli per preservare il proprio "buon sangue" prima della partenza per il fronte. Proprio in questa prospettiva è da sottolineare l'attuazione del "progetto Lebensborn" ("Sorgente della vita"), dove ragazze e donne dall'aspetto nordico ricevevano cure in caso di gravidanza, ma anche, nel corso della guerra, "germanizzando" bambini non tedeschi ma che comunque presentavano caratteri nordici (alla fine della guerra saranno più di 80.000 i bambini strappati alle proprie famiglie).
Himmler fu inoltre un fanatico dell'occulto. Nell'estate del 1936 fece celebrare a Quedlinburg il millenario della morte di Enrico I l'Uccellatore, primo re dei tedeschi che aveva respinto le incursioni dei boemi e dei magiari e che aveva posto le basi per la creazione del Sacro Romano Impero, e fu proprio in quell'occasione che illustrò la sua visione della "missione" delle SS: « Noi dobbiamo onorare la sua memoria e farne in questo sacro luogo, in silenziosa meditazione, il nostro modello. Noi dobbiamo proporci e riproporci di fare nostre le sue virtù umane e di comando, quelle con cui rese felice il nostro popolo un millennio or sono. E dobbiamo infine convincerci che il miglior modo d'onorarlo è di onorare l'uomo che mille anni dopo re Enrico ha ripreso la sua eredità umana e politica con una grandiosità senza precedenti: e quindi di servire il nostro Führer, Adolf Hitler, per il bene della Germania e del germanesimo, con i pensieri, le parole e i fatti, con l'antica fedeltà e nell'antico spirito. »
Inoltre Himmler si dichiarava la reincarnazione dello stesso Enrico I.
La partecipazione giovanile alla Società Thule influenzò Himmler a tal punto che divenne ossessionato dalla cultura pagana germanica: nel 1937 dichiarò, durante un discorso radio, che era « molto meglio essere pagani, che cristiani [...] molto meglio adorare le entità tangibilmente presenti nella natura e quelle degli antenati, che non una divinità invisibile e i suoi fasulli rappresentanti in terra [...] poiché un popolo che onora i propri antenati, e cerca di onorare sé stesso, avrebbe sempre dato vita a nuovi figli e perciò avrebbe vissuto in eterno. »
Himmler infatti si considerava come il fondatore di un nuovo Ordine pagano, che sarebbe giunto a diffondersi per tutta l'Europa.
La morbosa passione per la storia tedesca, i cui ideali dovevano formare le nuove generazioni, spinsero Himmler a fondare la Ahnenerbe Forschungs und Lehrgermeinschaft ("Associazione per la ricerca e la diffusione dell'eredità ancestrale"), che avrebbe dovuto svolgere ricerche nel campo della storia antica, studiando i fatti da un punto di vista scientifico, in maniera oggettiva e senza falsificazioni. Questa associazione finanziò una serie di scavi alla ricerca di antiche presenze nordiche per tutta l'Europa e una missione tedesca in Tibet.
Altro esempio concreto di questa ossessione per il paganesimo è Wewelsburg. Himmler era difatti un sostenitore dell'antica leggenda secondo la quale un castello della Westfalia sarebbe stato l'unico superstite dell'assalto degli slavi dall'Est; per questo nel 1934 il Reichsführer fece perlustrare in lungo e in largo la Germania occidentale, finché non trovò le rovine della fortezza di montagna di Wewelsburg presso Paderborn, dal nome del cavaliere brigante Wevel von Büren, che era stata un centro della resistenza dei Sassoni agli Unni e che era stata ricostruita in forma triangolare nel XVII secolo. Himmler decise allora di trasformare la fortezza nel quartier generale delle SS. Nel 1937, al termine dei lavori di ristrutturazione, Wewelsburg si era trasformato in un vero "sacrario", con decine di statue di Enrico I l'Uccellatore, di Federico di Hohenstaufen e di altri eroi tedeschi; la parte più importante era il "Sacrario dei defunti", una sorta di rifacimento della tavola rotonda di re Artù, che doveva ospitare le spoglie dei 12 più importanti generali delle SS.
- 1945 - Giuseppe Preci (Montalto, 1883 – Montalto, 23 maggio 1945) è stato un sacerdote italiano, parroco di Montalto nell'arcidiocesi di Modena.
Montalto, chiamata anche Montalto di Zocca, è una piccola frazione del comune di Montese sull'Appennino modenese, tanto piccola da dipendere ecclesiasticamente da Semelano, altra frazione di Montese. Tuttavia il 23 luglio 1939 l'arcivescovo di Modena, il cappuccino Giuseppe Antonio Ferdinando Bussolari, la eresse in parrocchia autonoma nominandone prevosto don Giuseppe Preci, nativo del luogo.
Pochi anni dopo il piccolo centro si trovò direttamente coinvolto nella seconda guerra mondiale perché proprio su quei crinali appenninici correva la cosiddetta Linea Gotica, approntata dai tedeschi per sbarrare la strada della Val Padana all'avanzata delle truppe alleate. Dall'autunno del 1944 fino alla metà di aprile 1945 le operazioni militari investirono la zona con cannoneggiamenti, incursioni aeree e bombardamenti pressoché quotidiani con il loro tragico strascico di morti e distruzioni.
Don Preci si prodigò per alleviare le sofferenze dei propri parrocchiani, ma dovette ricorrere a sua volta alla generosità dei fedeli perché si ritrovò con la canonica praticamente distrutta: lui e la sua perpetua furono allora ospitati in casa dei coniugi Bononcini.
Alla porta di quella casa la sera del 23 maggio 1945, a Liberazione ormai avvenuta, vennero a bussare Giuseppe Galluzzi e Ivo Zanni chiedendo che il parroco andasse a portare i conforti religiosi a un moribondo. I due riuscirono a convincere il sacerdote, piuttosto riluttante, consentendogli di farsi accompagnare dalla sua domestica, Teresa Tamburini. Il gruppo si avviò con il Galluzzi in testa e lo Zanni in coda ma, dopo circa trecento metri, quest'ultimo estrasse una pistola ed esplose alcuni colpi alla nuca di don Preci uccidendolo. Quindi i criminali minacciarono di morte anche la Tamburini e la seguirono ritornando alla casa, dove fecero razzia di gioielli (ex voto), calici preziosi, un ostensorio d'oro e denaro, di cui lasciarono 30.000 lire ai coniugi Bononcini e altrettanti alla Tamburini per comprarne il silenzio. La salma del parroco venne rinvenuta l'indomani mattina nei pressi della chiesa, i suoi assassini invece soltanto quattro anni dopo.
Nell'agosto del 1949, infatti, la Tamburini decise di liberarsi la coscienza e rivelò i nomi dei responsabili dell'uccisione permettendo così alla questura di Modena di chiudere le indagini con l'arresto degli omicidi. Il 5 febbraio 1951 Giuseppe Galluzzi, Amilcare Lucchi e Ivo Zanni furono condannati in primo grado per omicidio premeditato alla pena di diciotto anni di reclusione. La sentenza venne confermata il 4 aprile 1952 dalla Corte d'Assise d'appello di Firenze e i successivi ricorsi degli imputati furono respinti dalla Cassazione. Va annotato che la pena di diciotto anni fu raggiunta in seguito alla concessione di generose attenuanti, che tredici anni furono subito condonati e che gli ulteriori condoni rimisero gli assassini in libertà. Nondimeno, per la prima volta in Emilia, fu riconosciuta ufficialmente la responsabilità di ex partigiani comunisti per l’omicidio di un sacerdote.
L'uccisione di don Preci fu infatti uno dei numerosi episodi di violenza subiti dagli esponenti del mondo cattolico in Emilia-Romagna fra il 1945 e il 1949 e attribuiti a militanti del Partito Comunista Italiano. Nella fattispecie il movente accertato dal tribunale fu «l'odio antireligioso», unito a quello della rapina poiché gli assassini cercavano «una forte somma di denaro incassata dal parroco per la vendita di alcuni capi di bestiame».
▪ 1952 - Georg Schumann (Königstein, 25 ottobre 1866 – Villenkolonie Lichterfelde-West, 23 maggio 1952) è stato un compositore tedesco progressista di stampo tardoromantico, contemporaneo ed affine ai maestri della triade Richard Strauss, Gustav Mahler, Hugo Wolf. Dal 1900 alla morte è stato direttore dell'Accademia di Canto di Berlino.
▪ 1986 - Altiero Spinelli (Roma, 31 agosto 1907 – Roma, 23 maggio 1986) è stato un politico e scrittore italiano, sovente citato come padre fondatore dell'Europa per la sua influenza sull'integrazione europea post-bellica.
Fondatore nel 1943 del Movimento Federalista Europeo, poi co-fondatore dell'Unione Europea dei Federalisti, membro della Commissione Europea dal 1970 al 1976, poi del Parlamento italiano (1976) e quindi del primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale nel 1979. Fu promotore di un progetto di trattato istitutivo di un'Unione Europea con marcate caratteristiche federali che venne adottato dal Parlamento europeo nel 1984. Questo progetto influenzò in maniera significativa il primo tentativo di profonda revisione dei trattati istitutivi della Cee e dell'Euratom, l'Atto unico europeo. Fu membro del parlamento europeo per dieci anni e rimase uno degli attori politici principali sulla scena europea attraverso il Crocodile Club, da lui fondato e animato nel 1981.
Gli anni prima dell'arresto
Nato a Roma il 31 agosto 1907, visse nella prima infanzia nella città brasiliana di Campinas, dove il padre esercitava la funzione di viceconsole del Regno d'Italia. All'età di cinque anni ritornò a Roma con la famiglia dopo che il padre aveva deciso di interrompere la propria carriera diplomatica per quella imprenditoriale. Nei suoi ricordi, il periodo della scuola elementare è in buona parte occupato dalla Prima Guerra Mondiale, un evento che, come ebbe modo di scrivere nella sua autobiografia, colpì l'immaginario anche dei più piccoli: a scuola le notizie dal fronte venivano comunicate ai bambini dagli insegnanti, e il piccolo Spinelli si appassionò al fatto, sognando di poter utilizzare il suo fucile giocattolo per scacciare il nemico austriaco dopo la disfatta di Caporetto.
A partire dalla scuola secondaria, e ancora di più durante gli anni del liceo, il giovane Spinelli cominciò a mostrare le sue doti intellettuali, la sua curiosità e la sua sete di conoscenza. Inizialmente la sua principale passione furono le materie scientifiche, soprattutto la biologia, la zoologia, l'astronomia, la geografia (in quel periodo sognava di fare l'esploratore o l'entomologo). Durante gli anni del liceo a tale passione unì una discreta capacità di assimilare le lingue che studiava, come il latino, il greco antico, il tedesco e il francese; le materie umanistiche, invece, come la storia e la filosofia ma anche l'italiano, gli risultavano ancora ostiche e noiose e le avrebbe riscoperte solo più tardi, durante il periodo universitario e ancora di più durante l'esperienza in carcere.
Già durante l'adolescenza, comunque, mostrò una spiccata tendenza autodidatta (approfondiva per conto suo in tutte le materie scientifiche che studiava a scuola, tanto da avere una cultura nettamente superiore ai suoi coetanei). In compenso, il suo carattere risultava decisamente introverso e solitario.
Riuscì a diplomarsi all'età di sedici anni grazie alla media dell'otto al penultimo anno (allora ci si diplomava a diciassette anni): decisivo fu un otto in storia dell'arte che egli stesso definì generoso. Nonostante la sua passione per le scienze naturali, decise di iscriversi alla facoltà di Legge all'Università "La Sapienza": decisivi per questa scelta furono il desiderio del padre che il figlio diventasse un avvocato, ma soprattutto la frequenza non obbligatoria, che consentiva al giovane di conciliare il suo impegno universitario con quello nel partito.
L'impegno politico
Spinelli fu influenzato sin da adolescente dalle idee politiche del padre socialista, dalle quali poi si distaccò per iscriversi al Partito Comunista nel 1924, l'anno dell'assassinio di Giacomo Matteotti. Fin da giovanissimo aveva deciso di approfondire da autodidatta il pensiero marxista grazie ai libri della biblioteca del padre, ma la lettura gli risultò molto complessa. Per descrivere il suo livello di conoscenza in quel tempo della filosofia marxista, Spinelli coniò l'espressione cattedrale di granito e nebbia per descrivere la sua cieca fede nella dottrina del partito, nonostante le lacune e la mancata comprensione di alcune questioni.
Fu la reazione dei giornali italiani ad una manifestazione fascista del 1921, con l'obiettivo di traslare la salma di Enrico Toti al Cimitero del Verano a Roma, a spingere Spinelli ad avvicinarsi, ancora solo sul piano delle idee, ai comunisti. Quasi tutti i giornali, infatti, avevano taciuto la reazione degli abitanti del quartiere San Lorenzo, tranne un giornale dei comunisti. Ciò lo convinse del fatto che i comunisti fossero più coraggiosi e più coerenti rispetto ai socialisti, maggiormente portati al dialogo con le forze borghesi. Da ciò derivò la frattura tra il giovane Spinelli e il padre, tenacemente ancorato al Partito Socialista[2]. Passarono ancora diversi mesi, però, prima che Altiero Spinelli si decidesse ad entrare nel partito, dal momento che era ancora fermo al tentativo di acquisire una piena padronanza della dottrina prima di dedicarsi alla militanza. Si iscrisse, infatti, al partito solo nel 1924, col fascismo ormai al potere e i comunisti costretti alla clandestinità. Tale condizione non lo scoraggiò affatto, anzi divenne ben presto il leader della cellula del Quartiere Trionfale grazie alla sua conoscenza della dottrina marxista, che gli permetteva di offrire spiegazioni ai garzoni e bottegai che facevano parte della cellula. L'attività di partito ben presto lo sottrasse agli affetti familiari e lo costrinse a trasferirsi a Milano per sfuggire alla polizia. Il tentativo comunque fu inutile perché nel giugno 1927 fu arrestato e, sulla base delle leggi speciali per gli oppositori politici introdotte dal fascismo, condannato dal Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato a sedici anni e otto mesi di carcere, dopo un anno di carcere passato a San Vittore.
Il periodo in carcere (1928-1937)
Spinelli scontò la sua pena in tre città diverse:
▪ a Lucca (1928-1931)
▪ a Viterbo (1931-1932)
▪ a Civitavecchia (1932-1937)
A queste tre fasi vanno aggiunti pochi mesi passati a Roma nel 1937, nel carcere di Regina Coeli, nell'attesa vana di tornare in libertà. Bisogna ricordare, a tal proposito, che a Spinelli erano stati condonati cinque anni di carcere nel 1932, in occasione del decennale della Marcia su Roma, più altri due per altri motivi. Scontò, dunque, circa dieci anni di carcere che trascorse approfondendo i suoi studi nel campo della filosofia, soprattutto Hegel e Marx, della storia e dell'economia, ma anche in quello letterario (imparò il russo e lo spagnolo leggendo i classici in lingua originale). Gradualmente maturò il suo distacco dal marxismo, considerato ormai troppo illiberale per fare l'interesse del proletariato, tanto da essere espulso dal partito, ma non si avvicinò ancora ad alcuna ideologia politica. Per questo fu costantemente guardato con sospetto dagli altri detenuti politici, che per altro erano ricambiati. I soli che Spinelli stimava erano Giuseppe Pianezza, Umberto Terracini, Leo Valiani. In questi anni, a causa della lontananza, si concluse il suo rapporto con Tina Pizzardo (nipote del cardinale Giuseppe Pizzardo).
Nel 1937 fu trasferito a Roma ma, mentre attendeva con ansia il momento del rilascio, ricevette la brusca notizia del trasferimento al confino di Ponza.
Gli anni del confino
Spinelli fu confinato in due località diverse:
▪ a Ponza (1937-1939)
▪ a Ventotene (1939-1943).
Il periodo del confino fu fondamentale nel suo percorso intellettuale e politico. Condivise tale esperienza con uomini politici di primaria importanza nella storia d'Italia, come il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Frutto delle discussioni e letture di questo periodo (tra cui una serie di articoli scritti negli anni '20 da Luigi Einaudi sul Corriere della Sera, pubblicati col titolo "Lettere di Junius") e in particolare dell'incontro con Ernesto Rossi e Eugenio Colorni è la stesura del Manifesto di Ventotene, il testo fondativo del federalismo europeo. Fu decisivo anche il contributo di Ursula Hirschmann, moglie di Colorni, che, non essendo confinata ed avendo la possibilità di mantenere rapporti costanti col marito, riuscì a far giungere lo scritto nella penisola e a diffonderlo tra i membri della Resistenza.
Spinelli fu liberato da Ventotene dopo l'arresto di Benito Mussolini, ai primi di agosto del 1943.
Il Manifesto di Ventotene
Durante il soggiorno forzato sull'isola, nel giugno 1941, Spinelli, aiutato da Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann (che poi diventerà sua moglie) scrisse il documento base del futuro federalismo europeo, il Manifesto per un'Europa Libera e Unita, meglio conosciuto come Manifesto di Ventotene. La stesura del Manifesto le sue successive versioni e la sua diffusione sono avvolte nella leggenda. Non è stata rintracciata nessuna delle versioni dattiloscritte o ciclostilate del documento, che circolavano tra il 1941 e il 1943. Così le testimonianze circa il modo in cui il Manifesto uscì clandestinamente da Ventotene non concordano.
Secondo la versione più suggestiva, il testo, per evitare i controlli della polizia e per mancanza di carta, fu scritto sulla carta da sigarette e nascosto nel ventre di un pollo arrosto e portato sul continente da Ursula Hirschmann.[senza fonte]
Il Manifesto riuscì a circolare clandestinamente fra la resistenza italiana e fu adottato come programma del Movimento Federalista Europeo, che Spinelli successivamente fondò a Milano il 28 agosto 1943. Sarà successivamente tradotto in diverse lingue.
Il periodo della Resistenza - L'impegno federalista
Di fronte a quella che era stata la catastrofe europea, Spinelli aveva maturato la convinzione che solo un'organizzazione federale avrebbe potuto farla rientrare da protagonista nel quadro internazionale. Per servire tale convinzione, Spinelli non fondò un partito, bensì un movimento trasversale ai partiti politici. Il Movimento Federalista Europeo venne fondato a Milano il 27 agosto 1943 da Spinelli, Ernesto Rossi ed altri, nell'abitazione di Mario Alberto Rollier in Via Poerio, dove una lapide ricorda l'evento. La speranza di Spinelli che, finita la guerra, si sarebbe potuta costruire una federazione europea poggiava sul presupposto che le potenze vincitrici si sarebbero ritirate dall'Europa; tuttavia l'instaurarsi di un clima di guerra fredda tra le superpotenze americana e sovietica e la stesura di un duplice protettorato vanificarono una tale prospettiva.
Nel 1947, dopo aver brevemente abbandonato il MEF, nel momento del lancio del Piano Marshall Spinelli tornò alla carica con la sua battaglia federalista, vedendo in tale Piano un'occasione per tentare una prima forma di unità europea. Una stagione particolarmente favorevole gli si aprì inoltre a partire dal 1950 in occasione dell'elaborazione del trattato CED. Tuttavia l'accantonamento della CED gettò Spinelli nello sconforto; egli si era accorto infatti, soprattutto dopo la morte di Stalin, che la questione europea si stava via via eclissando. Si rivolse allora a Jean Monnet per proporgli di diventare l'animatore di un partito europeo che tendesse alla creazione di una federazione europea, ma senza esito.
Ulteriore tentativo venne fatto quando si propose di trasformare la CECA in una comunità federale per mezzo di una evoluzione dei suoi organi e un allargamento delle competenze. Fallita anche tale prospettiva, si dedicò alla campagna in favore di un Congresso del popolo europeo e alla stesura del secondo manifesto federalista. L'idea era di cercare di convocare una serie di assemblee locali, ciascuna delle quali doveva eleggere persone che sarebbero andate a costituire un organismo che prefigurava un Parlamento federale. Anche i risultati di tale iniziativa si rivelarono scarsi, tanto che lo stesso Spinelli la abbandonò precocemente.
Un politico europeo
Spinelli ebbe un ruolo rilevante nella nascita e nella definizione in chiave moderna del concetto di Europa. Nel 1954 propose un mandato costituente per l'Assemblea comune della Comunità Europea di Difesa, che fu però bloccato per l'opposizione della Francia. Nel suo discorso del 1957, tenuto a Torino per il Congresso del popolo europeo, Spinelli mise in discussione e criticò la legittimità del concetto di stato-nazione.
Eletto al primo Parlamento europeo a elezione diretta nel 1979, come indipendente nel PCI, cui si era riavvicinato, nello stesso ruolo fu rieletto nel 1984. Il 14 febbraio 1984 propone al Parlamento un progetto costituzionale per gli Stati Uniti d'Europa; il progetto viene approvato dal Parlamento, ma bocciato successivamente dal Consiglio Europeo.
Gli ultimi anni
Nel 1985 interviene al XXXI Congresso del Partito Radicale di Marco Pannella per esortare i suoi amici radicali a promuovere a livello europeo le loro campagne portate avanti in Italia.
Muore in una clinica romana il 23 maggio 1986.
Riconoscimenti
Nel 1973 ricevette il Premio Robert Schuman. Nel 1993, una delle due ali dell'edificio che ospita il parlamento europeo a Bruxelles fu dedicata a Spinelli in omaggio alla sua vita spesa per la comunità europea. L'altra ala dell'edificio è intitolata a Paul-Henri Spaak. La costruzione è comunemente conosciuta con la sigla ASP (Altiero SPinelli). È dedicata a Spinelli anche l'aula magna della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Napoli Federico II.
Opere scritte
▪ (in collaborazione con Eugenio Colorni e Ernesto Rossi) Il Manifesto di Ventotene (1940)
▪ Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d'Europa (1950)
▪ Il manifesto dei Federalisti Europei (1956)
▪ L'Europa non cade dal cielo (1960)
▪ Tedeschi al bivio (1960)
▪ Rapporto sull'Europa (1965)
▪ Il lungo monologo (1968)
▪ Ulisse. Come ho tentato di diventare saggio (1984)
▪ Diario europeo (1989, 1991, 1992)
▪ 1992
- Giovanni Falcone (Palermo, 18 maggio 1939[2] – Palermo, 23 maggio 1992) è stato un magistrato italiano, tra i padri della lotta alla mafia, ed è considerato un eroe italiano, come Paolo Borsellino, di cui fu amico e collega.
Biografia
Figlio di Arturo Falcone, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e di Luisa Bentivegna, aveva due sorelle maggiori, Anna e Maria. Giovanni Falcone studiò al liceo classico "Umberto" e successivamente, dopo una breve esperienza all'Accademia Navale di Livorno, si iscrisse a giurisprudenza all'Università degli studi di Palermo dove si laureò nel 1961, con una tesi sulla "Istruzione probatoria in diritto amministrativo".[3]
Gli inizi in Magistratura
Falcone vinse il concorso in Magistratura nel 1964 e per breve tempo fu pretore a Lentini e poi sostituto procuratore a Trapani per dodici anni. Qui, a poco a poco nacque in lui la passione per il diritto penale.[4]
Arrivò a Palermo nel luglio 1978. Dopo l'omicidio del giudice Cesare Terranova fece domanda ed ottenne di lavorare all'Ufficio istruzione, che sotto la successiva guida di Rocco Chinnici, diviene un esempio innovativo di organizzazione giudiziaria. Chinnici chiamò al suo fianco anche Paolo Borsellino che divenne collega di Falcone nello sbrigare il lavoro arretrato di oltre cinquecento processi[5]. Nel maggio 1980 Chinnici affidò a Falcone le indagini contro Rosario Spatola: un lavoro che coinvolgeva anche criminali negli Stati Uniti e all'epoca osteggiato da alcuni altri magistrati.
Alle prese con questo caso, Falcone comprese che per indagare con successo le associazioni mafiose era necessario basarsi anche su indagini patrimoniali e bancarie. Ricostruire il percorso del denaro che accompagnava i traffici ed avere un quadro complessivo del fenomeno. Notò che gli stupefacenti venivano venduti negli Stati Uniti così chiese a tutti i direttori delle banche di Palermo e provincia di mandargli le distinte di cambio valuta estera dal 1975 in poi. Alcuni telefonarono personalmente a Falcone per capire che intenzione avesse e lui rimase fermo sulle sue richieste[6]. Grazie ad un attento controllo di tutte le carte richieste, una volta superate le reticenze delle banche, e "seguendo i soldi" riuscì ad iniziare a vedere il quadro di una gigantesca organizzazione criminale: i confini di Cosa nostra. Grazie ad un assegno dell'importo di centomila dollari cambiato presso la Cassa di Risparmio di piazza Borsa di Palermo, Falcone, trovò la prova che Michele Sindona si trovava in Sicilia smascherando quindi il finto sequestro organizzato a suo favore dalla mafia siculo-americana alla vigilia del suo giudizio[6]. Nei primi giorni del mese di dicembre 1980 Giovanni Falcone si recò per la prima volta a New York per discutere di mafia e stringere una collaborazione con Victor Rocco, investigatore del distretto est[7].
Sono anni tumultuosi che vedono la prepotente ascesa dei Corleonesi, i quali impongono il proprio feudo criminale insanguinando le strade a colpi di omicidi. Emblematici i titoli del quotidiano palermitano L'Ora, che arriverà a titolare le sue prime pagine enumerando le vittime della drammatica guerra di mafia. Tra queste vittime anche svariati e valorosi servitori dello Stato come Pio La Torre, principale artefice della legge Rognoni-La Torre (che introdusse nel codice penale il reato di associazione mafiosa), e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Infine lo stesso Chinnici, al quale succedette Antonino Caponnetto.
Gli anni del Pool
Caponnetto si insedia concependo la creazione di un "pool" di pochi magistrati che, così come sperimentato contro il terrorismo, potessero occuparsi dei processi di mafia, esclusivamente e a tempo pieno, col vantaggio sia di favorire la condivisione delle informazioni tra tutti i componenti e minimizzare così i rischi personali, che per garantire in ogni momento una visione più ampia ed esaustiva possibile di tutte le componenti del fenomeno mafioso.
Nello scegliere i suoi uomini, Caponnetto pensa subito a Falcone per l'esperienza ed il prestigio già da lui acquisiti, ed a Giuseppe Di Lello, pupillo di Chinnici. Lo stesso Falcone suggerì poi l'introduzione di Borsellino, mentre la scelta dell'ultimo membro ricadde sul giudice più anziano, Leonardo Guarnotta. La validità del nuovo sistema investigativo si dimostra subito indiscutibile, e sarà fondamentale per ogni successiva indagine, negli anni a venire.
Ma una vera e propria svolta epocale alla lotta alla mafia sarebbe stata impressa con l'arresto di Tommaso Buscetta, il quale, dopo una drammatica sequenza di eventi, decise di collaborare con la Giustizia. Il suo interrogatorio, iniziato a Roma nel luglio 1984 in presenza del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di Gianni De Gennaro del Nucleo operativo della Criminalpol, si rivelerà determinante per la conoscenza non solo di determinati fatti, ma specialmente della struttura e delle chiavi di lettura dell'organizzazione definita Cosa nostra.
Il maxiprocesso di Palermo
Le inchieste avviate da Chinnici e portate avanti dalle indagini di Falcone e di tutto il pool portarono così a costituire il primo grande processo contro la mafia.
Questa reagì bruciando il terreno attorno ai giudici: dopo l'omicidio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà nell'estate 1985, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, si cominciò a temere per l'incolumità anche dei due magistrati, che furono indotti per motivi di sicurezza a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell'Asinara (incredibilmente dovettero pagarsi le spese di soggiorno e consumo bevande, come ricordò Borsellino in un'intervista [8]), dove gettarono le basi dell'istruttoria.
Ma il 16 novembre 1987 diventa una data storica e insieme un momento fondamentale per il Paese, che per la prima volta inchioda la mafia traducendola alla Giustizia. Il Maxiprocesso sentenzia 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici milardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia.[9]
Nel dicembre 1986, Borsellino viene nominato Procuratore della Repubblica di Marsala e lascia il pool. Come ricorderà Caponnetto, a quel punto gli sviluppi dell'istruttoria includono ormai quasi un milione di fogli processuali, rendendo necessaria l'integrazione di nuovi elementi per seguire l'accresciuta mole di lavoro. Entrarono così a far parte del pool altri tre giudici istruttori: Ignazio De Francisci, Gioacchino Natali e Giacomo Conte.
La fine del Pool Antimafia
Se lo Stato aveva conseguito una vittoria memorabile, la partita era lungi da considerarsi conclusa. Inoltre, Caponnetto si apprestava a lasciare l'incarico per ragioni di salute, e raggiunti limiti di età. Alla sua sostituzione vennero candidati Falcone, ed Antonino Meli. Nel settembre 1987, dopo una discussa votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. A favore di Falcone, votò anche il futuro Procuratore della Repubblica di Palermo, Giancarlo Caselli.
La scelta di Meli, generalmente motivata in base alla mera anzianità di servizio, piuttosto che alla maggiore competenza effettivamente maturata da Falcone, innescò amare polemiche, e venne interpretata come una possibile rottura dell'azione investigativa; Borsellino stesso aveva lanciato a più riprese l'allarme a mezzo stampa, rischiando conseguenze disciplinari; esternazioni che di fatto non sortirono alcun effetto.
Meli si insedia nel gennaio 1988 e finisce con lo smantellare il metodo di lavoro intrapreso, riportandolo indietro di un decennio. Da qui in poi Falcone e i suoi dovettero fronteggiare un numero sempre crescente di ostacoli alla loro attività. La mafia intanto non ha abbassato la guardia, ed uccide l'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, che aveva denunciato le pressioni subite da Vito Ciancimino durante il suo mandato. Tempo dopo, i due membri del pool Di Lello e Conte si dimisero polemicamente. Non ultimo, persino la Cassazione sconfessò l'unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone.
Il 30 luglio Falcone richiese addirittura di essere destinato a un altro ufficio, ma Meli, ormai in aperto contrasto con Falcone, e, come premonizzato da Borsellino, sciolse ufficialmente il pool. Un mese dopo, Falcone ebbe l'ulteriore amarezza di vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell'Alto Commissariato per la lotta alla Mafia. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando una importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York.
Il fallito attentato dell'Addaura e la vicenda del "corvo"
Il 21 giugno 1989, Falcone divenne obiettivo di un attentato presso la sua villa al mare, comunemente detto attentato dell'Addaura e sul quale ancor oggi non è stata fatta piena luce[10].
I sicari di Totò Riina e di altri mafiosi ritenuti mandanti, piazzarono un borsone con cinquantotto candelotti di tritolo in mezzo agli scogli, a pochi metri dalla villa del giudice, che stava per ospitare i colleghi Carla del Ponte e Claudio Lehmann. Il piano era probabilmente quello di assassinare il giudice allorché fosse sceso dalla villa sulla spiaggia per fare il bagno, ma l'attentato fallì. Inizialmente venne ritenuto che i killer non fossero riusciti a far esplodere l'ordigno a causa di un detonatore difettoso, dandosi quindi alla fuga e abbandonando il borsone. Vent'anni dopo, nuove ipotesi investigative avallarebbero invece la ricostruzione che l'ordigno venne reso inoffensivo nelle ore notturne antecedenti dagli agenti Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, fintisi sommozzatori. Agostino e Piazza verranno poi assassinati.
Falcone dichiarò a riguardo che a volere la sua morte si trattava probabilmente di qualcuno che intendeva bloccarne l’inchiesta sul riciclaggio in corso, parlando inoltre di "menti raffinatissime", e teorizzando la collusione tra soggetti occulti e criminalità organizzata, come avvenuto per l'omicidio Dalla Chiesa. Espressioni in cui molti lessero i servizi segreti deviati. Il giudice, in privato, si manifestò sospettando di Bruno Contrada, funzionario del Sisde che aveva costruito la sua carriera al fianco di Boris Giuliano. Contrada verrà poi arrestato e condannato in primo grado a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, sentenza poi confermata in Cassazione.
Ma al Palazzo di Giustizia di Palermo aveva preso corpo anche la nota vicenda del "corvo": una serie di lettere anonime (di cui un paio addirittura composte su carta intestata della Criminalpol), che diffamarono il giudice ed i colleghi Giuseppe Ayala, Giammanco, Prinzivalli più altri come il Capo della Polizia di Stato, Vincenzo Parisi, ed importanti investigatori come De Gennaro e Antonio Manganelli. In esse Falcone veniva millantato soprattutto di avere "pilotato" il ritorno di un pentito, Totuccio Contorno, al fine di sterminare i corleonesi, storici nemici della sua famiglia.
I fatti descritti venivano presentati come movente della morte di Falcone ad opera dei corleonesi, i quali avrebbero organizzato il poi fallito attentato come vendetta per il rientro di Contorno (e non, si badi, per i decenni di inflessibile lotta senza quartiere che Falcone aveva scatenato contro di loro...). I contenuti, particolarmente ben dettagliati sulle presunte coperture del Contorno e gli accadimenti all'interno del tribunale, furono alimentati ad arte sino a destare notevole inquietudine negli ambienti giudiziari, tanto che nello stesso ambiente degli informatori di polizia queste missive vennero attribuite ad un "corvo", ossia un magistrato.
Sebbene sul momento la stampa non lo spiegasse apertamente al grande pubblico, infatti, tra gli esperti di "cose di cosa nostra" (come Falcone) era risaputo che, nel linguaggio mafioso, tale appellativo designasse proprio i magistrati (dalla toga nera che indossano in udienza); le missive avrebbero così inteso insinuare la certezza che in realtà il pool operasse al di fuori dalle regole, immerso tra invidie, concorrenze e gelosie professionali.
Gli accertamenti per individuare gli effettivi responsabili portarono alla condanna in primo grado per diffamazione del giudice Alberto Di Pisa, identificato grazie a dei rilievi dattiloscopici. Le impronte digitali - raccolte con un artificio dal magistrato inquirente - furono però dichiarate processualmente inutilizzabili, oltre a lasciare dubbi sulla loro validità probatoria (sia il bicchiere di carta su cui erano state prelevate le impronte, sia l'anonimo con cui furono confrontate, erano alquanto deteriorati).
Una settimana dopo il fallito attentato, il C.S.M. decise la nomina di Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica. Di Pisa, che tre mesi dopo davanti al C.S.M. avrebbe mosso gravi rilievi allo stesso Falcone sia sulla gestione dei pentiti che sull'operato, verrà poi assolto in Appello per non aver commesso il fatto[11].
Molti testimoni diretti dei fatti dell'Addaura morirono in circostanze sospette: Antonino Agostino, agente del SISDE, che si ipotizza lavorasse per protegge Falcone, venne ucciso insieme alla moglie Ida Castelluccio il 5 agosto del 1989 da un commando in motocicletta; Emanuele Piazza, collega di Agostino al SISDE, venne ucciso per strangolamento dalla mafia il 15 marzo 1990; il microcriminale Francesco Paolo Gaeta, che quel giorno aveva casualmente assistito alle manovre militari intorno alla villa del giudice, venne ucciso a colpi di pistola il 2 settembre 1992; il mafioso Luigi Ilardo, informatore del colonnello dei carabinieri Michele Riccio - e che a questi aveva confidato di sapere che «a Palermo c'era un agente che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino» - venne assassinato il 10 maggio 1996, qualche giorno prima di mettere a verbale le sue confessioni[10].
La stagione dei veleni
Nell'agosto 1989 iniziò a collaborare coi magistrati anche il mafioso Giuseppe Pellegriti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, e rivelando al pubblico ministero Libero Mancuso di essere venuto a conoscenza, tramite il boss Nitto Santapaola, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informò subito Falcone, che interrogò il pentito a sua volta, e, dopo due mesi di indagini, lo incrimina insieme ad Angelo Izzo, spiccando nei loro confronti due mandati di cattura per calunnia (poi annullati dal Tribunale della libertà in quanto essi erano già in carcere). Pellegriti, dopo l’incriminazione, ritrattò, attribuendo a Izzo di essere l’ispiratore delle accuse.
Lima e la corrente di Giulio Andreotti, erano spregiati dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, e tutto il movimento antimafia, e l’incriminazione di Pellegriti venne vista come una sorta di cambiamento di rotta del giudice dopo il fallito attentato, tanto che ricevette nuove e dure critiche al suo operato da parte di esponenti come Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e in maniera minore anche da Nando Dalla Chiesa, figlio del compianto generale. Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia, scriverà poi, in riferimento al fallito attentato all'Addaura contro Falcone:
«I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».
Nel gennaio '90, Falcone coordina un'altra importante inchiesta che porta all'arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani. Ma a maggio riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima trasmissione televisiva di Rai 3, Samarcanda dedicata all'omicidio di Giovanni Bonsignore, scagliandosi contro Falcone, che, a suo dire, avrebbe "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Si asseriscono responsabilità politiche alle azioni della cupola mafiosa (il cosiddetto "terzo livello") ma Falcone dissente sostanzialmente da queste conclusioni, sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni come "cinismo politico". Rivolto direttamente ad Orlando, dirà: "Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati"[12].
Nel settembre 1991 Salvatore Cuffaro, all'epoca deputato regionale poi presidente della Regione Siciliana per il centro-destra ed attualmente eurodeputato UDC, intervenne ad una puntata speciale della trasmissione televisiva Samarcanda condotta da Michele Santoro in collegamento con il Maurizio Costanzo Show e dedicata alla commemorazione dell'imprenditore Libero Grassi, ucciso dalla mafia. In quella occasione, Cuffaro - presente tra il pubblico - si scagliò con veemenza contro conduttori ed ospiti (tra cui Falcone), sostenendo come le iniziative portate avanti da un certo tipo di "giornalismo mafioso" fossero degne dell'attività mafiosa vera e propria, tanto criticata e comunque lesive della dignità della Sicilia. Cuffaro parlò di certa magistratura "che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana", con chiaro riferimento a Mannino, in quel momento uno dei politici più influenti della Dc[13][14].
La polemica sancì la rottura del fronte antimafia, e da allora in poi Cosa Nostra si avvantaggerà della tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone, isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990, Falcone venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88", ma non viene eletto. Fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco, Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali del ministero.
L'ultima battaglia
In questo periodo, che va dal 1991 alla sua morte, Falcone fu molto attivo, cercando in ogni modo di rendere più incisiva l'azione della magistratura contro il crimine. Tuttavia, la vicinanza di Giovanni Falcone al socialista Claudio Martelli costò al magistrato siciliano violenti attacchi da buona parte del mondo politico. In particolare, l'appoggio di Martelli fece destare sospetti da parte dei partiti di centro sinistra che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone.
Falcone in realtà profuse tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato, ed in particolare sulla procura nazionale antimafia.
Alcuni magistrati avversarono poi il progetto della Superprocura, denunciando il rischio che essa costituisse paradossalmente un elemento strategico nell'allontanamento di Falcone dal territorio siciliano e nella neutralizzazione reale delle sue indagini. [15]
Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a difendersi davanti al CSM in seguito all'esposto presentato il mese prima (l'11 settembre) da Leoluca Orlando. L'esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo».
In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 viene assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell'inasprimento della strategia mafiosa la quale rompe così gli equilibri consolidati ed alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del ROS che analizzava l'imminente neo-equilibrio tra mafia, politica ed imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare ad ulteriori approfondimenti.
Il ruolo di "Superprocuratore" a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell'autonomia della Magistratura ed una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per lo più in uno sciopero dell'Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova.
Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all'interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne la nomina a Superprocuratore il giorno prima della sua morte.
Nell'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per "Cose di Cosa Nostra", Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."
La strage di Capaci
Giovanni Falcone muore nella comunemente detta strage di Capaci, il 23 maggio 1992[16]. Stava tornando, come era solito fare nei fine settimana, da Roma. Il jet di servizio partito dall'aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 arriva a Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Lo attendono quattro autovetture tre Fiat Croma, gruppo di scorta sotto comando del capo della squadra mobile della Polizia di Stato, Arnaldo La Barbera.
Appena sceso dall'aereo, Falcone si sistema alla guida della vettura bianca, ed accanto prende posto la moglie Francesca Morvillo mentre l'autista giudiziario Giuseppe Costanza occupa il sedile posteriore. Nella Croma marrone, c'è alla guida Vito Schifani, con accanto l'agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Al gruppo è in testa la Croma marrone, poi la Croma bianca guidata da Falcone, e in coda la Croma azzurra. Alcune telefonate avvisano della partenza i sicari che hanno sistemato l'esplosivo per la strage.
I particolari sull'arrivo del giudice dovevano essere coperti dal più rigido riserbo; indicativo del clima di sospetto che si viveva nel Paese, è il fatto che nell'aereo di Stato - che lo riportava a Palermo - avevano avuto un passaggio diversi "grandi elettori" (deputati, senatori e delegati regionali) siciliani reduci dagli scrutini di Montecitorio per l'elezione del Capo dello Stato, prolungatisi invano fino al sabato mattina. Uno di essi sarebbe stato addirittura inquisito per associazione a delinquere di stampo mafioso tre anni dopo; ma nessuna verità definitiva fu acquisita in sede processuale sull'identità della fonte che aveva comunicato alla mafia la partenza di Falcone da Roma e l'arrivo a Palermo per l'ora stabilita.
Le auto lasciano l'aeroporto imboccando l'autostrada in direzione Palermo. La situazione appare tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Su una strada parallela, una macchina si affianca agli spostamenti delle tre Croma blindate, per darne segnalazione ai killer in agguato sulle alture sovrastanti il litorale; sono gli ultimi secondi prima della strage.
Otto minuti dopo, alle ore 17:58, presso il Km.5 della A29, una carica di cinque quintali di tritolo posizionata in un tunnel scavato sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine viene azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina. Pochissimi istanti prima della detonazione, Falcone si era accorto che le chiavi di casa erano nel mazzo assieme alle chiavi della macchina, e le aveva tolte dal cruscotto, provocando un rallentamento improvviso del mezzo. Brusca, rimasto spiazzato, preme il pulsante in anticipo, sicché l'esplosione investe in pieno solo la Croma marrone, prima auto del gruppo, scaraventandone i resti oltre la carreggiata opposta di marcia, sin su un piano di alberi; i tre agenti di scorta muoiono sul colpo.
La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio. Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, vengono proiettati violentemente contro il parabrezza. Falcone, che riporta ferite solo in apparenza non gravi, muore dopo il trasporto in ospedale a causa di emorragie interne.
Rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resiste, e si salvano miracolosamente anche un'altra ventina di persone che al momento dell'attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell'eccidio.
La detonazione provoca un'esplosione immane ed una voragine enorme sulla strada.[17]. In un clima irreale e di iniziale disorientamento, altri automobilisti ed abitanti dalle villette vicine danno l'allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata ed una coltre di polvere.
Venti minuti dopo circa, Giovanni Falcone viene trasportato sotto stretta scorta di un corteo di vetture e di un elicottero dell'Arma dei Carabinieri presso l'ospedale Civico di Palermo. Gli altri agenti e i civili coinvolti vengono anch'essi trasportati in ospedale mentre la Polizia Scientifica esegue i primi rilievi ed i Vigili del Fuoco espletano il triste compito di estrarre i cadaveri irriconoscibili di Schifani, Montinaro e Di Cillo.
Intanto i media iniziano a diffondere la notizia di un attentato a Palermo, ed il nome del giudice Falcone trova via via conferma. L'Italia intera, sgomenta, trattiene il fiato per la sorte delle vittime con tensione sempre più viva e contrastante, sinché alle 19:05, ad un'ora e sette minuti dall'attentato, Giovanni Falcone muore dopo alcuni disperati tentativi di rianimazione, a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne. Francesca Morvillo morirà anch'essa, poche ore dopo.
Volantini recanti una citazione del giudice Falcone: "Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini".
Due giorni dopo, mentre a Roma viene eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a Palermo si svolgono i funerali delle vittime ai quali partecipa l'intera città, assieme a colleghi e familiari e personalità come Giuseppe Ayala e Tano Grasso. I più alti rappresentanti del mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, vengono duramente contestati dalla cittadinanza; e le immagini televisive delle parole e del pianto straziante della vedova Schifani [1] susciteranno particolare emozione nell'opinione pubblica.
Il giudice Ilda Boccassini urlerà la sua rabbia rivolgendosi ai colleghi nell'aula magna del Tribunale di Milano: «Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali». Nel suo sfogo il magistrato, che si farà trasferire a Caltanissetta per indagare sulla strage di Capaci, ricorderà anche il linciaggio subito dall'amico Falcone da parte dei suoi colleghi magistrati, anche facenti capo alla stessa corrente cui Falcone aderiva:
«Due mesi fa ero a Palermo in un'assemblea dell'Anm. Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da Magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la Superprocura. Un'altra, come hanno fatto il Consiglio superiore della Magistratura, gli intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l'unica strada possibile, il ministero della Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione.»
La Boccassini criticherà anche l'atteggiamento dei magistrati milanesi impegnati in Mani pulite:
«Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale? Giovanni è morto con l'amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l'ultima ingiustizia l'ha subìta proprio da quelli di Milano, che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi ha telefonato e mi ha detto:
"Non si fidano neppure del direttore degli Affari penali"»
Ilda Boccassini, confermerà le critiche in un'intervista a La Repubblica del maggio 2002[18], in occasione dell'affissione di targa in memoria di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia. Il magistrato criticherà gli onori postumi offerti a Falcone, sostenendo che
«Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento.[...] Non c'è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di "amici" che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito»
Nell'intervista ricorderà anche come diversi magistrati e politici, sia vicini a partiti della sinistra che della destra, criticarono fortemente Falcone quando questo era ancora vivo.
In particolare, l'opposizione a Falcone dei magistrati vicini al Pds fu fortissima: al Csm, per tre volte il magistrato palermitano subì dei veti. Quando concorse al posto di super-procuratore antimafia, gli venne preferito Agostino Cordova, procuratore capo di Palmi. Alessandro Pizzorusso, componente laico del Csm designato dal Partito Comunista, firmò un articolo sull'Unità sostenendo che Falcone non fosse "affidabile" e che essendo "governativo", avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza. Successivamente, quando al Consiglio superiore della magistratura si dovette decidere se Falcone dovesse essere posto o meno a capo dell'Ufficio istruzione di Palermo, gli venne preferito Antonino Meli; votarono per quest'ultimo e quindi contro Falcone anche gli esponenti di Magistratura democratica, vicini al Pds, Giuseppe Borré ed Elena Paciotti, quest'ultima poi eletta europarlamentare dei Democratici di Sinistra.
Dopo la sua morte, Leoluca Orlando, commentando l'ostracismo che Falcone subì da parte di alcuni colleghi negli ultimi mesi di vita, dirà: «L'isolamento era quello che Giovanni si era scelto entrando nel Palazzo dove le diverse fazioni del regime stavano combattendo la battaglia finale».
All'esecrazione dell'assassinio, il 4 giugno si unisce anche il Senato degli Stati Uniti, con una risoluzione (la n. 308) intesa a rafforzare l'impegno del gruppo di lavoro italo-americano, di cui Falcone era componente[19]. Intanto, Paolo Borsellino, intraprenderà la sua ultima lotta contro il tempo, che durerà appena altri cinquantotto giorni, indagando nel tentativo di dare giustizia all'amico Giovanni.
Il 25 Giugno 1992, durante un Convegno a Palermo organizzato da La Rete e dalla rivista Micromega [20][21], Paolo Borsellino affermò:
« Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni Falcone »
«Quando Giovanni Falcone solo, per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il CSM, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli.»
L'eredità
Al magistrato, in Sicilia e nel resto d'Italia sono state dedicate molte scuole e strade, nonché una piazza nel centro di Palermo. A Falcone e al suo collega Borsellino è stato dedicato anche l'Aeroporto di Palermo-Punta Raisi. Un albero situato di fronte l'ingresso del suo appartamento, in via Emanuele Notarbartolo a Palermo, raccoglie messaggi, regali e fiori dedicati al giudice: è "l'albero Falcone"[22].
Il 23 gennaio 2008, su proposta del sindaco Walter Veltroni, con una risoluzione approvata all'unanimità dal Consiglio dell'VIII Municipio di Roma, la località Ponte di Nona è stata rinominata Villaggio Falcone in suo onore[23].
Attualmente all'uscita di Capaci, dov'è avvenuto l'attentato, è eretta una colonna che espone i nomi delle vittime di quel 23 maggio 1992.
La Corte Suprema degli Stati Uniti, massimo organo giurisdizionale USA, ricorda il 29 ottobre 2009 Giovanni Falcone in una seduta solenne quale "martire della causa della giustizia"[24].
Note
1. ^ Giovanni Falcone, Marcelle Padovani 1991, 2004, op. cit.
2. ^ Citato in: F. La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Feltrinelli, Milano 2006, p. 24.
3. ^ Francesco La Licata, Storia di Giovanni Falcone, pp. 23-36
4. ^ Francesco La Licata, Storia di Giovanni Falcone, pp. 37-44
5. ^ Saverio Lodato, I professionisti dell'antimafia in Trent'anni di mafia, Rizzoli [2008], pp. 52-53 ISBN 978-88-17-01136-5
6. ^ a b Saverio Lodato, I professionisti dell'antimafia in Trent'anni di mafia, Rizzoli [2008], pp. 55-56 ISBN 978-88-17-01136-5
7. ^ Saverio Lodato, I professionisti dell'antimafia in Trent'anni di mafia, Rizzoli [2008], p. 58 ISBN 978-88-17-01136-5
8. ^ Video dell'intervista di Paolo Borsellino con Lamberto Sposini su YouTube
9. ^ Enrico Deaglio, Raccolto rosso: la mafia, l'Italia e poi venne giù tutto
10. ^ a b Addaura, nuova verità sull'attentato a Falcone, Attilio Bolzoni, La Repubblica, 7 maggio 2010.
11. ^ Anche se al suo dossier difensivo al CSM il sostituto procuratore Ayala fa discendere un ulteriore elemento di delegittimazione del pool antimafia, cioè gli addebiti deontologici che portarono al suo trasferimento per incompatibilità ambientale: Giuseppe AYALA: Chi ha paura muore ogni giorno – Mondadori 2008.
12. ^ «QUANDO COSSIGA CONVOCO' LE TOGHE DI SICILIA». La Repubblica, 21-10-1993, p. 4. URL consultato in data 24-01-2010.
13. ^ Costanzo Show: Totò Cuffaro aggredisce Giovanni Falcone in Video di YouTube. URL consultato il 18-10-2009.
14. ^ «MANNINO NON E' MAFIOSO E IL CASO VIENE ARCHIVIATO». La Repubblica, 12-10-1991, p. 6. URL consultato in data 18-10-2009.
15. ^ Citato in: F. La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 120, 137-141.
16. ^ Citato in: F. La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Feltrinelli, Milano 2006, p. 169.
17. ^ Si veda: C. Lucarelli, Blu Notte - Misteri Italiani (sesta serie - 2004), La Mattanza: dai silenzi sulla Mafia al silenzio della Mafia
18. ^ Giuseppe D'Avanzo. «Boccassini: "Falcone un italiano scomodo"». La Repubblica, 21-5-2002. URL consultato in data 18-10-2009.
19. ^ Si veda: C. Lucarelli, Blu Notte - Misteri Italiani (sesta serie - 2004), La Mattanza: dai silenzi sulla Mafia al silenzio della Mafia
20. ^ Una fra le numerose fonti online
21. ^ Trascrizione intervento
22. ^ Enrico Deaglio, Raccolto rosso: la mafia, l'Italia e poi venne giù tutto, p. 180
23. ^ Nuova denominazione per Ponte di Nona P.d.z. "Villaggio Falcone"
24. ^ «Gli Usa ricordano Falcone». La Sicilia, 30-10-2009. URL consultato in data 30-10-2009.
Opere
▪ Rapporto sulla mafia degli anni '80. Gli atti dell'Ufficio istruzione del tribunale di Palermo, Palermo, S. F. Flaccovio, 1986.
▪ Cose di Cosa Nostra, in collaborazione con Marcelle Padovani, Milano, Rizzoli, 1991.
▪ Io accuso. Cosa nostra, politica e affari nella requisitoria del maxiprocesso, Roma, Libera informazione, 1993.
Bibliografia
▪ Gian Carlo Caselli e Raoul Muhm, Il ruolo del Pubblico Ministero - Esperienze in Europa, Vecchiarelli Editore Manziana, Roma, 2005, ISBN 88-8247-156-X.
▪ Enrico Deaglio, Raccolto rosso: la mafia, l'Italia e poi venne giù tutto, Feltrinelli Editore, 1993, ISBN 978-88-07-12010-7.
▪ Anna Falcone, Maria Falcone, Leone Zingales, Giovanni Falcone, un uomo normale, Ed. Aliberti, 2007, ISBN 978-88-7424-253-5.
▪ Giovanni Falcone e Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, Milano, Rizzoli, 1991, ISBN 978-88-17-00233-2.
▪ Claudio Fava, Cinque delitti imperfetti: Impastato, Giuliano, Insalaco, Rostagno, Falcone, Mondadori, Milano 1994.
▪ Fondazione Giovanni Falcone, Giovanni Falcone: interventi e proposte (1982 – 1992) a cura di F. Patroni Griffi, Sansoni, Firenze, 1994.
▪ Luigi Garlando, Per questo mi chiamo Giovanni Fabbri, 2004.
▪ Lucio Galluzzo, Obiettivo Falcone, Napoli, Pironti, 1992.
▪ Francesco La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Rizzoli, Milano 1993; Feltrinelli, Milano, 2006.
▪ Saverio Lodato, Ho ucciso Giovanni Falcone: la confessione di Giovanni Brusca, Milano, Mondadori, 1999.
▪ Saverio Lodato, Trent'anni di mafia, Rizzoli, 2008, ISBN 978-88-17-01136-5.
▪ Giammaria Monti, Falcone e Borsellino: la calunnia il tradimento la tragedia, Roma, Editori Riuniti, 1996.
▪ Luca Rossi, I disarmati: Falcone, Cassarà e gli altri, Milano, Mondadori, 1992.
▪ Alexander Stille, Excellent Cadavers, Vintage (Jonathan Cape), 1995.
- Antonio Montinaro, poliziotto italiano (n. 1962)
- Rocco Dicillo, agente scelto di Polizia italiano (n. 1962)
- Francesca Morvillo, magistrato italiano (n. 1945)
- Vito Schifani, agente di Polizia italiano (n. 1965)
▪ 1999 - Luigi Santucci (Milano, 11 novembre 1918 – Milano, 23 maggio 1999) è stato uno scrittore, romanziere, poeta e commediografo italiano. È ritenuto dalla critica il principale narratore milanese della seconda metà del Novecento.
La formazione e gli inizi come docente
Consegue la maturità classica nel 1937 presso l’Istituto Leone XIII dei Padri Gesuiti. Nel 1941 si laurea in Lettere Moderne presso l’Università Cattolica di Milano, discutendo con Mario Apollonio una tesi sulla letteratura infantile, pubblicata l’anno successivo con il titolo Limiti e ragioni della letteratura infantile, (Firenze, Barbera, 1942) poi completamente rivista e ampliata in La letteratura infantile (Fabbri editori, 1958). L’opera fu salutata nel 1942 con una nota di consenso da Benedetto Croce, cui non sfuggì la «buona analisi dell’anima dei fanciulli» e che definì l’autore «acuto e accurato».
Il giovane Santucci inizia ad insegnare nelle scuole superiori, prima a Gorizia, poi a Milano, facendo anche da assistente di Apollonio all’Università Cattolica. Nel 1944 a causa della sua opposizione al regime fascista, deve espatriare in Svizzera, dove rimane per alcuni mesi. Rientrato a Milano, partecipa attivamente alla Resistenza, prima con i partigiani della Val Cannobina, in seguito collaborando a Milano alla fondazione del giornale clandestino L’Uomo, accanto a David Maria Turoldo, Dino Del Bo, Camillo De Piaz, Gustavo Bontadini, Angelo Merlin, Angelo Romanò.
Alla fine degli anni Quaranta Santucci collabora con molte autorevoli figure della cultura italiana - tutti suoi futuri grandi amici - come, per citarne alcuni: Carlo Bo, Primo Mazzolari, Vittorio Sereni, Nicola Lisi, Fabio Tombari, Giuseppe Novello, Cesare Angelini. Altri importanti incontri di quel periodo lo influenzano moltissimo, come quelli presso il celebre caffè letterario delle «Giubbe Rosse» di Firenze, dove Santucci incontra Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo e Mario Luzi; o quello con Elio Vittorini, che nel 1947 incluse il libro di Santucci, In Australia con mio nonno nella triade del Premio Mondadori accanto a Oreste Del Buono e Milena Milani (l’opera fu edita da Mondadori nello stesso 1947).
Nel 1950 si unisce in matrimonio con Bice Cima. Dalla loro felice unione nascono i quattro figli Michele, Agnese, Raimondo ed Emma.
Gli inizi dell'attività letteraria
A partire dalla pubblicazione della raccolta di racconti Lo zio prete (Milano, Mondadori, 1951) Santucci si vedrà imporre l’etichetta di “scrittore cattolico”, da lui accolta non senza resistenze, preferendo modificarla in “scrittore cattolico del dissenso”. A questo proposito, in una tarda intervista del 1972 lo scrittore espliciterà la sua posizione:
«L’etichetta di scrittore cattolico, se incollata addosso sbrigativamente e puntigliosamente appunto come etichetta (ed è da tempo il mio caso), significa ben poco, serve ad alimentare confusione, pigrizia, archiviamento di personalità e problemi. […] In effetti non mi sento più interessato a Cristo come cattolico di anagrafe di quanto lo fossero i protestanti Martin Luther King o Albert Schweitzer; sono solo uno scrittore che vive oggi, coi suoi spasimi e alternative sempre più tese, una sua cristomachia. Fuori della foresta in cui mi arrabatto non posso sapere se troverò Cristo e non so quale Cristo troverò: certo non sarà un Cristo riduttivamente cattolico.» (Non sparate sui narcisi, intervista a cura di P. Bianucci, «Gazzetta del Popolo », 25 marzo 1972)
E ancora difese tale libera posizione in un’intervista di qualche mese successiva:
«Ci sono stati due modi di accogliere questa mia qualificazione: un grande favore, un compiacimento e entusiasmo da parte dell’ala cattolica, talora debbo dire con qualche ingenua goffaggine; dall’altro versante, quello laico, sono stato naturalmente (direi legittimamente) ripudiato, squalificato e anche deriso (sappiamo che il bigottismo dei laici non è inferiore a quello dei cattolici…).» (Questiti a Santucci, intervista a cura di C. Toscani, «Il Ragguaglio librario », settembre 1972)
Tornando agli anni Cinquanta, questi furono un periodo di intensa produzione letteraria: nel 1953 Santucci collaborò con Angelo Romanò per la stesura di Chi è costui che viene? (Milano, Mondadori), nel 1954 la fitta attività saggistico-culturale si manifestò nella stesura dell''L’imperfetta letizia (Firenze, Vallecchi), mentre per la pubblicazione de Il libro dell’amicizia (Milano, Mondadori, 1960) Santucci fu affiancato da Angelo Merlin.
L'attività letteraria diventa prevalente
Nel 1962 abbandona l’insegnamento per dedicarsi a tempo pieno all’attività di scrittore. Nel 1963, l’anno in cui viene pubblicato per Mondadori Il velocifero, muore la madre Eva, provocandogli un grande dolore. Nel 1967, dopo essere stato finalista allo stesso premio nel 1964 con Il velocifero, vince il Premio Campiello con Orfeo in Paradiso (Milano, Mondadori, 1967).
La lunga e prolifica carriera di Santucci è stata sorretta dall’attenzione e dal prevalente consenso della critica, che non mancò neanche ai suoi testi teatrali. Già nel 1956 con L’angelo di Caino, dramma rappresentato ad Assisi da Giorgio Albertazzi e Gian Maria Volonté in occasione del Premio Pro Civitate Christiana, ottenne molto successo, ma è con l’opera in dialetto milanese Noblesse Oblige (Milano 1966, poi rappresentata nel 1985 da Corrado Tedeschi) e con Ramon mercedario (Premio Istituto del dramma popolare di S. Miniato, 1981) che afferma soprattutto le sue doti di drammaturgo.
L’affacciarsi degli anni Sessanta fa emergere un nuovo aspetto dello scrittore: attraverso il percorso dei figli segue la stagione delle contestazioni giovanili con fervida immedesimazione, la stessa che lo guida nella stesura di Non sparate sui narcisi (Milano, Mondadori, 1971), in chiave fantastico-allegorica, tipica nell'autore.
Nel 1976 riceve a Varsavia il Premio Pietrzak. Dal 1981 coltiva un’intensa amicizia con mons. Gianfranco Ravasi, in particolare durante le vacanze estive a Guello.
Agli ultimi anni Novanta risalgono molte opere per bambini e ragazzi tra cui Una strana notte di Natale (Casale Monferrato, Piemme, 1992), Tra pirati e delfini (Milano, Bompiani, 1996), Le frittate di Clorinda (Firenze, Giunti, 1996).
Il 23 maggio 1999 muore a Milano, poco dopo l’uscita in libreria della sua ultima opera, Éschaton. Traguardo di un'anima (Novara, Interlinea, 1999). Quello stesso anno Santucci era riuscito a registrare su nastro una sorta di testamento spirituale e di bilancio della propria esitenza ed esperienza a beneficio dei figli, spronandoli ad affrontare la vita con generosità e raccontando di sé per un’ultima volta:
«Se dovessi sintetizzare in una formula, in un’espressione il mio essere stato scrittore, credo che sarebbe questa: che scrivo per lodare. […] Io ho lodato, ho cercato di applaudire, di risuscitare nella lode, quante più cose ho potuto. […] La lode, sì, come messaggio, come linguaggio, se non per salvare il mondo (per guarirlo ci vuole altro!), per aiutarlo, perché recuperi una qualche stima, una qualche fiducia in se stesso; perché esca dall’autodisprezzo, dalla disperazione, e ritrovi l’amabilità.[…] Perché senza un certo entusiasmo nei nostri confronti è poi quasi impossibile amare gli altri, si va a rischio al contrario d’infiltrare negli altri i nostri squilibri,il nostro scetticismo o addirittura pessimismo sull’umanità. […] E tutto quello che ho avuto l’ho davvero goduto, grazie penso alla mia natura di poeta, l’ho goduto (questo è molto importante) con consapevolezza.»
▪ 2001 - Alessandro Natta, politico italiano (n. 1918)
▪ 2004 - Maxime Rodinson (Marsiglia, 26 gennaio 1915 – Parigi, 23 maggio 2004) è stato un islamista francese con interessi storici, sociologici, a lungo interpretati alla luce delle teorie marxiste che egli condivideva.
Figlio di un ebreo russo-polacco commerciante di tessuti morto ad Auschwitz con sua moglie, Maxime Rodinson studiò lingue orientali e, dopo aver lavorato a Beirut presso il Service des Antiquités, divenne professore di Etiopico, Amarico all'EPHE (École Pratique des Hautes Études alla Sorbona di Parigi). Diresse anche la rivista Moyen Orient.
Aderì al Partito Comunista Francese nel 1937 per "ragioni morali". Ripensò più tardi la sua posizione dopo la svolta stalinista del Partito e fu espulso dal PCF nel 1958. Sul tema scrisse più tardi un libro autocritico sulla sua militanza comunista (senza però rinnegare i suoi ideali socialisti) che volle chiamare De Pythagore à Lénine (Parigi, Fayard, 1993).
Fu autore di una ricca serie di lavori di spiccata originalità, tutti condotti sul filo del massimo rispetto per le fonti originali, interpretate alla luce della corretta metodologia del comparativismo storico. Tra essi assai nota è la biografia del profeta dell'Islam, "Mahomet", in cui dispiegò una brillante interpretazione in chiave sociologica del fenomeno islamico.
Rodinson divenne assai noto in Francia quando espresse alcune sue perplessità circa lo Stato di Israele, di cui contestava l'humus sionista, e ciò a dispetto della sua origine ebraica. In particolare criticò la politica degli insediamenti agricoli nei Territori Occupati dopo la il 1967.
L'Islam da un punto di vista sociologico
Il lavoro di analisi dell'Islam svolto da Rodinson si basava su una combinazione delle teorie marxiste e sociologiche. Riguardo il marxismo affermò che lo aveva aiutato ad:
«aprire gli occhi facendomi comprendere e dire che il mondo dell'Islam era soggetto alle stesse leggi e tendenze del resto della razza umana»
Il suo primo libro sull'argomento riguardò Maometto ("Muhammad", 1960). Questo tentativo si distingue da altri in quanto studio razionalista che cercava di spiegare le motivazioni economiche e sociali all'origine dell'Islam.
In "Islam e capitalismo" (Islam et capitalisme, 1966), titolo che faceva eco alla famosa tesi di Max Weber sullo sviluppo contemporaneo in Europa di capitalismo e Protestantesimo, cercò di superare due pregiudizi: il primo, diffuso in Europa, secondo cui l'Islam è un freno allo sviluppo del capitalismo; il secondo, diffuso tra i musulmani, secondo cui l'Islam è egalitario. Pone, inoltre, grande enfasi sugli elementi sociali, vedendo l'Islam come un fattore neutrale.
Nei successivi lavori sull'Islam si occupò soprattutto della relazione tra la dottrina ispirata da Maometto e le strutture economiche e sociali del mondo musulmano.