8 settembre - Luigi PAREYSON: il PERSONALISMO ONTOLOGICO.
Oggi 8 settembre, mentre nel 70 d.C. Tito, incaricato da suo padre Vespasiano di concludere la prima guerra giudaica, conquista Gerusalemme con la conseguente demolizione del tempio, 1800 anni dopo a Roma lo Staio italiano dà inizio (con la lettera di Vittorio Emanuele II a Pio IX) alla presa di Roma vaticana, annettendo con la forza al Regno d'Italia uno Stato sovrano, contro tutte le norme allora vigenti del diritto internazionale, dando inizio alla guerra civile tra popolo italiano (cattolico nella quasi totalità) e classe dirigente italiana liberal massonica (questione romana) che si risolverà parzialmente solo nel 1929 con il Concordato e - più stabilmente - nel secondo dopoguerra con le elezioni del 1948, passando attraverso il 1943 con l'annuncio di Badoglio alle 19 dell’armistizio di Cassibile (stipulato giorni prima) e con il contemporaneo (ore 12) e ingiustificabile bombardamento da parte degli americani di Frascati (200 militari e 500 civili morti) in preparazione dello sbarco di Salerno.Vedi qui.
Tra i grandi che ricordiamo nel giorno della morte (nel 1148 Guglielmo di Saint Thierry, nel 1654 Pietro Claver, nel 1853 Federico Ozanam, nel 1892 Enrico Cialdini, nel 1892 Hermann von Helmholtz, nel 1997 Sabatino Moscati, nel 2009 Aage Niels Bohr, nel 2009 Mike Buongiorno) c'è
LUIGI PAREYSON, uno dei più rilevanti pensatori italiani del 900, fondatore del personalismo ontologico,
il cui pensiero appare oggi ancora in grado di offrire profonde suggestioni.
Il panorama filosofico in cui si muove Luigi Pareyson (Piasco, 4 febbraio 1918 – Milano, 8 settembre 1991) è l'esistenzialismo (o, forse più propriamente, la filosofia dell'esistenza); non però un esistenzialismo vittimistico, né materialistico o immanentistico, né spiritualistico, né nichilistico. Pareyson adotta il termine di personalismo ontologico: l'uomo, da un lato, è costitutivamente apertura verso l'essere, rapporto ontologico; dall'altro, non è né individuo singolo né funzione della società, bensì propriamente persona, ovvero fusione di apertura ontologica (aspetto universale) e di carattere storico (aspetto particolare).
Non unicamente trascendenza (perderemmo la ricchezza e l'unicità della singola esistenza concreta), non unicamente storicità (perderemmo la speranza del dialogo alla luce di un qualche principio universale).
L'uomo è persona, e la persona è rapporto verso l'essere, ed ha storia (non ha l'essere, non lo possiede interamente; non è storia, non si riduce alla storicità dell'esistenza).
La stessa filosofia non può essere semplice pensiero espressivo, portavoce unicamente dell'aspetto storico e particolare dell'esistenza umana, ma deve essere invece pensiero rivelativo, al tempo stesso ascolto dell'essere e considerazione della storicità umana. Dimentico della verità dell'essere, il pensiero espressivo distorce la natura dell'uomo e diviene pensiero strumentale, vuota ideologia, occasione per la volontà di potenza.
Come può essere conosciuta la verità?
Non la si può possedere interamente, in quanto trascendente, ma non siamo neppure condannati all'assoluto silenzio, poiché è la verità stessa che si offre al nostro ascolto.
D'altro canto, non è che la conoscenza della verità sia talmente ardua da divenire sostanzialmente vana ed impossibile: nel conoscerla, la possediamo davvero, per quanto non la esauriamo, così come ad una sorgente inesauribile ci si abbevera davvero, ma non la si finisce.
La verità si dona a noi, ma nessuno può dire di possederla del tutto, né di essere l'unico a possederla; la verità si nasconde, ma nessuno deve scoraggiarsi dal cercarla ponendosi in ascolto. Una tale forma di conoscenza è l'interpretazione.
E' interpretazione della verità, non arbitraria espressione del soggetto; è sempre personale, cioè accompagna l'aspetto rivelativo con quello espressivo, per cui la storicità del soggetto, lungi dal corrompere la conoscenza o dal farci cadere nel relativismo, è piuttosto lo strumento prezioso con cui possiamo penetrare la verità; è dialettica di presenza e nascondimento della verità; è rispettosa delle altrui interpretazioni, essendo il dialogo possibile (unica è la verità) e necessario (come strumento della sociabilità umana); è testimonianza personale, richiedendo che il soggetto scelga, scommetta, metta in gioco se stesso, senza sufficienza, presunzione, scetticismo.
Una siffatta conoscenza interpretativa mette capo ad una teoria ermeneutica dal carattere insieme ontologico e personalistico (sulla quale Pareyson ha modellato anche un'originale teoria estetica della formatività, su cui non ci soffermiamo). Probabilmente, il rischio costante di tale impostazione è quello del relativismo; ma non si deve chiedere alla filosofia di essere ricetta univoca e sistematica per risolvere le controversie, altrimenti cadremmo di nuovo in un pensiero strumentale, tecnico, ideologico. Ogni interpretazione è un impegno personale, e il dialogo fra gli uomini è cosa ardua senza soluzioni precostituite, con il costante rischio della sconfitta. La risposta va cercata di continuo, questa è la responsabilità dell'esistenza.
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La realtà, divina ed umana, è costituita di fatti, di eventi, è una storia libera di cui non si può teorizzare, ma di cui invece si deve narrare. E quando ci si avvicina all'agire divino e alla sua relazione con l'uomo, il compito di narrare gli eventi è affidato al mito. Mito non inteso come espressione irrazionale, arbitraria, superstiziosa: invece come unico modo di parlare di fatti che sfuggono alla ragione umana, senza però disperderne la carica rivelativa.
Come nell'interpretazione, il mito fonde armonicamente la verità rivelata e l'espressione storica, artistica, fantastica. Il mito non fa violenza alla ragione, ma diventa l'unica via di accesso ad una verità che non può essere dimostrata, pena fare violenza alla verità. E senza ancora uscire dalla filosofia, che resta pensiero razionale e rigoroso, possiamo indagare la rivelatività del mito cercando di interpretarlo, cercando di attingere alla verità non già per trasformarla in dimostrazione scientifica, bensì per problematizzarla, interrogarla, universalizzarla. Questo è quanto si propone di fare Pareyson negli ultimi scritti, attraverso l'ermeneutica dell'esperienza religiosa (del cristianesimo in particolare).
Il problema del male in Dio, nell'uomo e nel mondo.
Questa filosofia, che chiaramente si contrappone alla tradizione metafisica culminata in Hegel, porta in dote la capacità di ammettere l'esistenza del male, di comprenderlo, di darne ragione. Finché il pensiero è ancorato all'idea della necessità, e dell'essere come qualcosa di oggettivo a cui affibbiare le varie idee umane di perfezione, il male non può esistere: tutto è razionale, tutto è previsto, tutto è necessario alla storia, tutto è giustificato, tutto è com'è perché così deve essere. Al più il male è semplice sofferenza, al più è privazione dell'essere.
Ma il male che si presenta nel mondo quale forza negativa e distruttrice, che non dovrebbe essere ma è, non viene e non può venire ammesso. Ciò che avviene invece nell'ontologia della libertà: ogni atto è atto di libertà, è scelta, e la scelta può avvenire per l'essere, o contro l'essere. Ecco il male reale: non come semplice privazione dell'essere, ma come consapevole rivolta contro l'essere.
Il male compare a livello di pura possibilità già nell'auto-originazione divina: scegliendo di esistere Dio sceglie il bene, e scarta il male (non esistere); Dio esclude per sempre la possibilità del male che gli si presenta; Dio vince per sempre il male. Ma questo male possibile è come un'ombra in Dio, nel senso che è una possibilità sopita pronta ad essere ridestata (Pareyson usa l'espressione efficace ma ambigua di "male in Dio", rischiando di far credere in un Dio demonizzato).
Sarà l'uomo, liberamente, a cogliere questa possibilità, a ribellarsi a Dio, a realizzare realmente il male, finora solo possibile; e con la caduta dell'uomo fallisce la creazione, subentrano la storia e la morte, il male si insedia nel cuore della realtà. Il male si accumula sempre più, travolgendo il mondo, e l'umanità intera ne è responsabile, è solidale nel peccato. Ma il male può essere vinto.
Da parte dell'uomo, l'unica opposizione al male è data dalla sofferenza: che non è solo punizione per il peccato commesso, ma diviene strumento di espiazione, al di là della logica retributiva per cui ogni uomo dovrebbe soffrire solo per le colpe individuali e determinate commesse da lui stesso.
Invece nessuno è innocente, e ciascuno deve soffrire per lavare la colpa dell'umanità intera. Ma l'uomo da solo non potrebbe compensare il male commesso ed accumulato con la sofferenza patita; occorre che addirittura Dio si faccia carico del male destato dall'uomo, assuma su di sè il peccato, divenga sofferente, si faccia mortale e patisca sulla croce; e qui, al culmine del sacrificio divino, il Cristo grida, chiede ragione al Padre, e ottiene solo silenzio: Dio abbandonato da Dio , Dio contro Dio. E' qui che la sofferenza, di per sè negativa, viene completamente ribaltata e diventa strumento per fare il bene, per riscattare il male, per tornare all'essere.
E' la sofferenza di Dio stesso, è la passione di Cristo a rendere sopportabile la sofferenza umana, altrimenti disperata e vana. Così, il solo modo per dare ragione del male e della tragedia umana (e divina) è nel cristianesimo (altre filosofie negano il male; altre religioni negano non solo il male ma l'intera realtà, che sarebbe illusoria); e il cristianesimo trova una vera risposta positiva al problema del male, e pure un autentico rapporto con Dio, solo attraverso la cristologia , e non tramite una metafisica oggettivante.
Il cristianesimo indicato da Pareyson è quello arricchito dalle meditazioni di Pascal e Kierkegaard e dalla sensibilità di Dostoevskij; è un cristianesimo attuale e problematico, che deve capire i problemi dell'uomo moderno per dare loro la risposta più convincente; è un cristianesimo della sofferenza, ma non masochistico o lamentoso, in contrapposizione a certo spiritualismo annacquato; è un cristianesimo consapevole della tragicità dell'esistenza, in contrapposizione a certo facile ed ingenuo ottimismo; è un cristianesimo che si rende conto della scelta sofferta e continua che richiede la testimonianza di fede, in contrapposizione ai molti cristiani nominali per abitudine; è un cristianesimo dialettico, non nel senso hegeliano, per cui ci sarebbe sempre una sintesi pronta a dissolvere lo scontro dei contrari, ma nel senso del dualismo pascaliano, per cui permane la tensione dei contrari, ciascuno dei quali è veritativo solo se accostato al proprio opposto (così la sofferenza e il sacrificio di Cristo sono inseparabili dalla redenzione e dalla resurrezione); è un cristianesimo non fatalistico, e quindi necessitaristico, ma consapevole della libertà di Dio e dell'uomo, e delle conseguenze che derivano dalle libere scelte (Dio ha vinto il male per sempre, l'uomo ha scelto il male); è un cristianesimo che si oppone con forza al tentativo di essere secolarizzato e ridotto ad una morale e ad una espressione storica.
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Questo pensiero tragico si oppone alla teodicea, sistema filosofico tradizionale che cerca di conciliare l'onnipotenza di Dio con la sua infinita bontà, tramite la concezione del male come semplice privazione dell'essere; la teodicea ha un duro avversario in quell'ateismo che arriva a negare Dio in forza dell'esistenza del male, un male reale, che sarebbe incompatibile con l'esistenza di Dio.
Ma il fatto è che l'esistenza di Dio non è incompatibile con quella del male, anzi ne è imprescindibile: il male reale esiste in quanto rivolta contro Dio; e il Dio-libertà e non necessario, il Dio vivente, prevede la possibilità (scartata da lui, accolta dall'uomo) della trasgressione e quindi del male.
Allora, combinando i termini "esistenza di Dio" ed "esistenza del male" nelle varie possibilità, otteniamo quattro tipiche correnti di pensiero:
- nel cristianesimo esiste Dio ed esiste il male;
- nella teodicea esiste Dio ma non esiste il male (reale);
- nel nichilismo classico esiste il male ma non esiste Dio (termini che come visto sopra sono in realtà inseparabili);
- infine, c'e' la possibilità dell'inesistenza tanto di Dio quanto del male. Quest'ultima è la via del nichilismo consolatorio, dell'ateismo confortevole: non più tragicità, non più sofferenza, non più negatività. Resta da vedere quanto questa visione del mondo possa realmente essere compatibile con l'esperienza concreta dell'uomo.
A meno di invocare l'illusorietà del dolore e infine della realtà stessa, come in molte religioni orientali; o di degradare il peccato a semplice senso di colpa, come nello psicologismo; o di sostituire la responsabilità con la necessità del fato, come nel paganesimo; o di dissolvere la tragicità in un disincantato naturalismo secondo cui la morte e il dolore sono eventi semplicemente naturali e necessari. Non così nel cristianesimo, il quale non nega la realtà tragica, ma la accetta, e le offre una soluzione grazie alla salvezza in Cristo; e non rifiuta la sofferenza, ma la assume, senza evitarla, e senza tentare di annullarla in una rassegnazione stoica in fondo più facile della sopportazione e della accettazione della propria condizione di peccatori sofferenti.