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8 Luglio - GIOVANNI PAPINi, grande scrittore italiano, ignorato dalla critica e dall'editoria dominanti.

Autore: Restelli Silvio. Curatore: Mangiarotti don Gabriele

Il senso della sua attualità è ben espresso da Mircea Eliade in questa sua riflessione.
"Confesso d'aver letto ciascuno dei 30 volumi di Papini almeno tre volte (e lo confesso pur sapendo che certi idioti di spirito torneranno a gridare al mio "papinismo"). Continuo ad amare tutto quanto Papini, così com'è.
Credo che non vi sia miglior elogio che si possa fare a uno scrittore che quello di confessare d'amarlo interamente anche se da lui ci separano le idee, il temperamento e i princìpi religiosi o morali. Dietro quei 30 volumi c'è un uomo maledettamente vivo e integro. Le migliaia di libri che ha letto non l'hanno cambiato. Le idee che ha promosso e abbandonato una dopo l'altra non l'hanno inaridito. La vastità della sua opera non è riuscita a bloccarlo, a paralizzarlo, a consegnarlo completamente alla storia morta. Nessuno nel nostro secolo, neppure André Gide, ha affrontato tante esperienze e lottato su tanti fronti. E mentre Gide non poteva mai astenersi da quel concetto di malintesa "gratuità", Papini si immedesimava tutto in quello che faceva al momento. Amava e odiava con passione, con ogni fibra del suo corpo, a riprova di una vitalità e di uno spessore spirituale rari.

Oggi che un'intera classe di uomini pratica il compromesso per paura di esporsi, l'esempio di Papini può ridiventare attuale. È un uomo che non si vergogna dei suoi errori. Un vero segno del genio. Solo gli sterili e i mediocri si preoccupano della perfetta coerenza dei propri pensieri, e sono ossessionati dalla paura di sbagliare. Papini ha sbagliato, si è furiosamente contraddetto e compromesso. Eppure della sua opera è rimasto più di ogni "opera" perfettamente delineata, messa a punto e corretta dalla prima all'ultima pagina". (Mircea Eliade) (da L'isola di Euthanasius, Scritti letterari)


Giovanni Papini nacque il 9 Gennaio del 1881 e morì l'8 Luglio del 1956 a Firenze, in una famiglia artigiana, da Luigi Papini, ex garibaldino e repubblicano anticlericale, ed Erminia Cardini, che lo fece battezzare all'insaputa del padre.

Ebbe un'infanzia e un'adolescenza molto solitarie, passate a leggere i libri della biblioteca del nonno prima e di quella pubblica poi.
Si diplomò maestro nel 1899, insegnando per qualche anno, poi diventò bibliotecario. Attirato dalla letteratura, collaborò con le riviste fiorentine La Rivista, Sapientia e Il Giglio. Nel 1903, fondò assieme a Giuseppe Prezzolini, Giovanni Vailati e Mario Calderoni la rivista Leonardo, poi collaborò come redattore capo ne "Il Regno" del nazionalista Enrico Corradini.

Iniziò a pubblicare alcuni racconti e saggi, fra cui "Il crepuscolo dei filosofi" (1905), nel quale criticò i sistemi filosofici di Immanuel Kant, Friedrich Hegel, Arthur Schopenhauer, Auguste Comte, Herbert Spencer e Friedrich Nietzsche, dichiarando infine la morte della filosofia stessa. Nello stesso anno, pubblicò "Il tragico quotidiano" che sancì, assieme a "Il pilota cieco" (1907), la nascita delle cosiddette "novelle metafisiche", un genere letterario che innovò profondamente l'ambito novellistico.

Il distacco progressivo da Prezzolini, più incline a seguire Benedetto Croce, e i disaccordi con gli altri collaboratori segnarono la chiusura del Leonardo nel 1907. Sempre in quell'anno, Papini si sposò con Giacinta Giovagnoli.
Nel 1911, Papini fondò con Giovanni Amendola la rivista "Anima", di tendenza teosofica, che ebbe solo un anno di vita. Nel 1912, pubblicò "Le memorie d'Iddio", l'apice della sua protesta anticristiana e del suo nichilismo, in cui mette in scena un Dio che si augura la morte della fede e dunque la propria fine, pentito com'è di aver creato tanto male nel mondo. L'opera generò molto scalpore e venne ricusata dal Papini in tarda età, tanto da incaricare la figlia Viola a ricercare le copie ancora esistenti e darle alle fiamme.

Il 1º gennaio 1913 creò con Ardengo Soffici la rivista "Lacerba", che uscì a Firenze. Appoggiò per poco il futurismo, che per lui:
«è guerra contro l'accademia, contro l'università, contro lo scolarismo, contro la cultura ufficiale, è liberazione dello spirito dai vecchi legami, dalle forme troppo usate... è forsennato amore dell'Italia e della grandezza d'Italia... è odio smisurato contro la mediocrità, l'imbecillità, la vigliaccheria, l'amore dello status quo e del quieto vivere, delle transazioni e degli accomodamenti...»

Sempre nel 1913 pubblicò "Un uomo finito", un'autobiografia scritta ad appena 30 anni di un giovane "nato con la malattia della grandezza", che si butta sullo studio per creare un'opera che possa superare Dante Alighieri e William Shakespeare in importanza. Sopravviene di tanto in tanto nel romanzo la delusione per l'impossibilità di raggiungere l'obbiettivo troppo ambizioso.

Si batté per l'intervento italiano nella Prima guerra mondiale. Celebre il suo articolo "Amiamo la guerra", apparso su "Lacerba" in cui afferma:
«Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C'è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un'infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita.»

Il 22 maggio 1915, chiuse la rivista pochi giorni prima dell'entrata in guerra, dimostrandosi però ampiamente pentito del suo interventismo e dichiarando "di sentirmi quasi complice, benché inerme, di quella forsennata devastazione". Nello stesso anno, pubblicò le prose poetiche "Cento pagine di poesia", "Buffonate" e "Maschilità".

Nel 1916, con le sue "Stroncature" polemizzò con Boccaccio, Shakespeare e Goethe, ma anche con Croce, Gentile, Benelli (definito "ciabatta smessa del dannunzianesimo") e col "passerotto agevolino" Guido Mazzoni. Del 1917 sono i versi misticheggianti di "Opera prima".

Dopo anni di profondi travagli spirituali, nel 1921 annunciò la sua conversione religiosa pubblicando la "Storia di Cristo", che si rivelò essere un successo editoriale non solo in Italia: basato sulla testimonianza dei Vangeli canonici e anche di quelli apocrifi, narra della vita di Gesù per invocarne la grazia verso l'umanità corrotta.

Suscitò invece accese polemiche il "Dizionario dell'omo salvatico" (1923), scritto in collaborazione con Domenico Giuliotti, in cui gli autori si scagliano contro gli ebrei, i protestanti, le donne, il laicismo e la democrazia. Pubblicò poi "Pane e vino"(1926), "Sant'Agostino" (1929), "Gog" (1931) e "Dante vivo" (1933).

Aderì al fascismo e nel 1935 rifiutò l'offerta della cattedra di letteratura italiana all'Università di Bologna. Nel 1937, pubblicò il primo (poi rimasto unico) volume della "Storia della letteratura italiana" con la dedica Al Duce, amico della poesia e dei poeti. Poco dopo ricevette la nomina ad accademico d'Italia e la direzione dell'Istituto di studi sul Rinascimento e della rivista La Rinascita. Fu firmatario del "Manifesto della razza" nel 1938.

Nel 1943, si fece terziario francescano nel convento della Verna. Dopo la Seconda guerra mondiale, emarginato di fatto dal mondo della cultura ed appoggiato dai soli cattolici tradizionalisti, pubblicò le "Lettere agli uomini di Celestino VI" (1946), la "Vita di Michelangelo" (1949), "Il libro nero" (1951), "Il diavolo" (1953), "La loggia dei busti" e "La spia del mondo" (entrambi 1955).

Collaborò anche al Corriere della Sera, pubblicandovi articoli quindicinali pubblicati postumi nel 1971 col titolo "Schegge". Debilitato dalla malattia e pressoché cieco negli ultimi anni di vita, lavorò con l'aiuto della nipote al "Giudizio universale", un progetto giovanile pubblicato postumo nel 1957. Vennero pubblicati dopo la sua morte anche "La felicità dell'infelice"(1956), "La seconda nascita" (1958, in cui Papini ripercorre le sue vicissitudini fino alla conversione), "il Diario" (1962) e "Rapporto sugli uomini" (1977).
Scrittore controverso, il primo che cercò di sottrarlo all'oblio fu Jorge Luis Borges, ritenendo che Papini fosse stato "immeritatamente dimenticato"