6 Febbraio - MARIA ZAMBRANO: il pensiero al femminile.

Oggi 6 Febbraio (1793 - Carlo Goldoni; 1869 - Carlo Cattaneo; 1918 - Gustav Klimt; 1954 - Friedrich Meinecke; 1992 - David Maria (al secolo Giuseppe) Turoldo) nel 1991, muore una grande filosofa spagnola, che ha cercato di misurarsi fino in fondo con la sfida del pensiero al femminile, Maria Zambrano.
Fonte:
CulturaCattolica.it
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"Solo nella penombra, tra le ombre, annida la liberazione anche per il sole: la liberazione dal suo proprio regno che con il suo potere imprigiona anche lui."

Allieva di Ortega y Gasset e di Xavier Zubiri, MARIA ZAMBRANO (Vélez-Malaga, 1904 - Madrid 1991), interprete molto attenta e sensibile dell'opera di Miguel de Unamuno e della poesia di Antonio Machado, fu tra le prime donne spagnole ad intraprendere le carriera universitaria in un contesto in cui "una filosofa, nella Spagna degli anni Trenta, era quasi `una donna barbuta', un'eresia, una curiosità da circo".

La sua caratteristica più affascinante consiste in uno sforzo intellettuale e viscerale insieme di dar voce a ciò che resta silente, di celebrare l'oscurità, l'altro lato dell'esistenza, quello esiliato, muto, nascosto ma profondamente `sentito', che solo libera dalla tendenza assolutizzante ed impone l'umiltà, compagna necessaria di ogni cammino di conoscenza.

La filosofia fu il suo prioritario impegno e la sua irrinunciabile passione: una sfida costante al pensiero oggettivante che tende a negare l'anima stessa da cui trae origine. Non amò quindi mai alcun `sistema filosofico', che vedeva come "castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto".
Aspirò sempre ad una verità al di fuori di criteri e stereotipi, fedele nell'intento di attuare una "filosofia vivente", disposta a confrontarsi con l'essere umano nella sua interezza, ad esplorare "il logos che scorre nelle viscere".

"Il pensiero, a quanto sembra, tende a farsi sangue. Per questo pensare è cosa tanto grave. O forse è che il sangue deve rispondere al pensiero... come se l'atto più puro, libero, disinteressato compiuto dall'uomo dovesse essere pagato, o quanto meno legittimato, da quella `materia' preziosa tra tutte, essenza della vita, vita stessa che scorre nascosta".
Il suo scrivere è caratterizzato da una vena poetica, spesso ironica, da cui emerge una figura trasgressiva ed originale, profondamente vitale nella sua riflessività.

La sua vita ha conosciuto varie e profonde crisi, di cui troviamo testimonianza nel saggio autobiografico "Delirio e destino".
Prima vi fu la "malattia creativa" (1928-29), che per lunghi mesi la costrinse all'isolamento ed all'immobilità oltre, naturalmente, all'interruzione degli studi. Fu, forse, la risposta del suo essere all'impatto con un mondo accademico in cui l'egemonia del discorso maschile non ammetteva apertura.
Poi vi fu l'esilio, durato quarant'anni, per sfuggire al regime franchista: aveva partecipato alla guerra civile e nel gennaio 1939 era nella colonna di profughi che abbandonava la Spagna ormai in mano all'esercito franchista.
Infatti, all'avvento del franchismo al potere, per lei si apre un lunghissimo periodo di peregrinazioni che la porteranno in Cile, in Messico, a Parigi, ove, in momenti diversi, conosce Sartre, Camus ed Emile Cioran, a Cuba e a Portorico.
Nel 1953 si trasferisce a Roma con la sorella; qui stringe significativi rapporti con Alberto Moravia, Carlo Emilio Gadda, Elena Croce, Elemire Zolla e Cristina Campo.
Lasciata Roma, si sposta nel Giura francese e poi a Ginevra, finché, dai primi Anni '80 sino alla morte, risiede a Madrid.

La Zambrano coniugò costantemente l'attività di insegnamento a quella della scrittura, pubblicando numerose opere che la fecero via via apprezzare da un numero sempre maggiore di estimatori e che le fruttarono pure ambiti riconoscimenti (sarà la prima donna a ottenere, nel 1989, il premio della letteratura in lingua castigliana "Miguel de Cervantes").
Maria Zambrano visse l'esilio come esperienza limite, come "oggetto di rivelazione, che è come dire di scandalo" per chi è potuto restare "nella propria casa, nella propria geografia, nella propria storia".

Sperimentò l'abisso della perdita del senso, lo spaesamento, l'estraneità a se stessi che prelude all'apertura ad un ignoto prima inconcepibile.
Tornò sempre al suo compito di testimoniare, con il suo essere donna che pensa e scrive, le infinite potenzialità della vita che restano nell'ombra, nel desiderio inespresso, al di sotto della coscienza. "Il pensiero filosofico ci permette di osare sentire quello che sentiremmo in ogni caso ma senza osare, e che resterebbe per questo sospeso a metà nascita, come quasi sempre succede al nostro sentire. E' per questo che la vita di tanta gente non va oltre il conato, un conato di vita. E questo è grave, perché la vita deve essere piena in qualche modo, in questo conato di essere che siamo"

Poi vi fu la inevitabile e dolorosa divergenza da Ortega y Gasset: nel saggio "Per un sapere dell'anima", l'autrice affermò come, per essere realmente `vivente', la filosofia debba rompere con un atteggiamento di unilaterale egemonia della mente per farsi carico dell'essere umano nella sua interezza, riconoscendo non solo l'anima ma anche il corpo quale fonte di creatività e trascendenza, quale luogo pulsante che media il contatto con le forze sacre della materia vivente, con "i residui della matrice originaria da cui l'uomo si è strappato per vivere come un essere indipendente".

Ciò le costò un'accusa di "mancanza di obiettività" da parte di quello che fino ad allora era stato per lei maestro e riferimento. Prese gradualmente corpo l'intuizione di quella che in "Filosofia y Poesia", (1939), l'autrice chiamò "ragione poetica", ovvero un metodo di pensiero che, ispirato alla poesia ed alla mistica, apriva un mondo di conoscenza alternativo a quello della filosofia occidentale.
"E tutti questi mondi, prima ancora che di leggi, di ragioni o di altre cose pratiche, hanno bisogno della poesia, che sa capire le cose schiave, ascoltare la loro voce e avvicinare la loro immagine fuggevole".

Ad una presunta oggettività neutra e distaccata, predicata dall'epistemologia dei suoi tempi, ella contrappose un'apertura fiduciosa al reale, una posizione filosofica che era ad un tempo una scelta di vita, "uno stile di vedere la vita e quindi di viverla, un modo di star piantato nell'esistenza", e ancora "un modo di stare nel mondo ammirati, senza pretendere di ridurlo a niente".

Il tema centrale della riflessione filosofica della Zambrano verte intorno alla necessità di `coniunctio' tra il mondo femminile e quello maschile, tra mente che crea e anima che sente e vive. Il suo atteggiamento intellettuale, così come tutta la sua vita, rincorre il sogno di un'unione di opposti, capace di realizzare "il prodigio di vivere tra i due, conseguendo il nous senza perdere l'anima; addentrandosi per quanto è possibile nella libertà senza annientare né umiliare la vita delle viscere".

Si tratta di un'impresa divina, che all'umano è concesso tentare se si astiene dalla presunzione ed impara la misericordia: "questo è misericordia: che con la nostra speranza e il nostro amore arriviamo a partecipare della creazione, anticipando la verità nei sogni, sognando verità che non sono ancora vere, dando il nostro aiuto perché dal mistero la verità si sprigioni".

La filosofia di Maria Zambrano si ispira quindi a quelle figure di donna che, come Antigone, Eloisa e Diotima, hanno conosciuto la misericordia in quanto "hanno fatto dell'amore una filosofia di vita e della propria vita un'opera filosofica".

In modo estremamente evocativo e poetico, nel saggio "All'ombra del dio sconosciuto", l'autrice ne traccia i personaggi che definisce "aurorali" in quanto, a differenza di tanti eroi maschili, furono donne capaci di quell'offerta consapevole di sé che prelude l'atto creatore. "Prima di raggiungere l'indipendenza bisogna offrirsi, come se qualcosa di quello che la vita è in forma spontanea dovesse essere assimilato e trasformato".
Al sole della coscienza, che spesso scivola nella ragione unilaterale, l'autrice preferisce la figura mitica di Aurora, sorella della notte, promessa di luce che emerge dalle tenebre di cui mantiene in sé intima traccia.
"Si dimenticherà sempre la lacerazione e il patimento dell'Aurora, il suo parto, se non si tiene conto della Notte, se la si vede unicamente come l'annuncio del giorno".

Scrive Maria Teresa Russo: "quello di Maria Zambrano si può, in effetti, definire un "pensiero appassionato', che aspira ad una sintesi tra ragione e cuore, e dunque anche tra poesia e filosofia... Maria Zambrano fa senz'altro filosofia, ma in cerca di una modalità espressiva che concilii in sé il rigore e la passione, per un'adesione più profonda del pensiero alla vita. In lei la filosofia non è mai puro esercizio speculativo, ma esigenza profonda dell'essere alla ricerca di risposte vitali".

Per la pensatrice spagnola, dunque, la filosofia fa un tutt'uno con la vita, significa trovare se stessi, giungere finalmente a possedersi, e la verità di cui essa va alla ricerca non è qualcosa di astratto, ma assume piuttosto i caratteri della concretezza esistenziale.