31 Gennaio - DON BOSCO , sacerdote, santo, educatore e... padre della patria.

Oggi 31 gennaio ricordiamo un personaggio veramente eccezionale: di umili origini, visse con tanta autenticità l'amore per i giovani poveri del suo tempo che seppe costruire opere tanto grandi da rimanere come segni di realtà libere in Italia e nel mondo: san Giovanni Bosco, (Castelnuovo d'Asti, 16 agosto 1815 – Torino, 31 gennaio 1888).

Lasciamo la parola ad Antonio Sicari nel suo RITRATTI DI SANTI ed. Jaca Book

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Don Bosco nasce (16 agosto 1815) quando ancora non sono passati trent'anni dalla Rivoluzione francese, l'anno stesso in cui, con il congresso di Vienna, tramonta il mito napoleonico (1815). Già in tutto il secolo precedente (il cosiddetto «secolo dei lumi») la fede ha subito attacchi e irrisioni con una programmata offensiva condotta in nome di una ragione divinizzata che pretende di lottare contro tutto ciò che chiama «superstizione».
Nel secolo XIX l'attacco è ormai mescolato, in modo spesso assai intricato, con le questioni sociali e con le questioni nazionali.
Non è possibile, nemmeno lontanamente, descrivere il tempo di don Bosco: tempo di prima industrializzazione, di moti risorgimentali, di restaurazioni e di rivoluzioni; in ogni caso di turbamenti per noi inimmaginabili. Per facilitare soprattutto i più giovani, possiamo accostate il nome di don Bosco a quello dei suoi contemporanei più prestigiosi.
Quando muore Hegel, il filosofo dell'idealismo, don Bosco ha 16 anni. Comte - che vorrà fondare la nuova religione dell'umanità - ha 17 anni più del nostro Santo. Feuerbach ha invece 11 anni di più, Darwin 6 anni, Marx 5 di meno, Dostoevskij 6 anni, Tolstoj 13.
In Italia quando don Bosco nasce, Foscolo ha 37 anni, Manzoni ha 30 anni, Leopardi 17, Mazzini 10, Garibaldi 8.
Pio IX, Leone XIII, Vittorio Emanuele II, Cavour, Rattazzi, Cri­spi, Rosmini gli sono amici.
Lo stesso anno in cui don Bosco muore, nella stessa città, a Torino, Nietzsche viene definitivamente colto da follia.
Molti di questi nomi don Bosco non li ha neppure conosciuti....
………..
Abbiamo seguito intanto don Bosco fino agli inizi degli anni '60: manca ancora un quarto di secolo alla sua morte. Per allora avrà inoltre curato la pubblicazione di 204 volumetti di una «Biblioteca della gioventù italiana» (con testi latini e greci), avrà aperto i primi cinque collegi, fondato una congregazione femminile, avrà costruito il Santuario di Maria Ausiliatrice e la chiesa del Sacro Cuore a Roma, avrà fondato 64 case salesiane in sei nazioni e missioni in America Latina, e avrà 768 salesiani. Avrà compiuto viaggi apostolici trionfali in Francia e Spagna, paesi in cui tutti vorranno conoscere «l’uomo della fede» (titolo con cui è universalmente noto).

In Francia resterà quattro mesi, nel 1883, viaggiando dovunque.
Quando giunge a Parigi, Le Figaro scrive che davanti alla sua casa «file di carrozze stazionano tutto il giorno già da una settimana». Il Cardinale Lavigerie Io chiama «il San Vincenzo de' Paoli dell'Italia».

Un particolare significativo: nel 1883 la tipografia di don Bosco era quella meglio attrezzata di Torino.
Nel 1884 alla «Esposizione nazionale dell'Industria, della Scienza e dell'Arte», don Bosco ebbe a disposizione una galleria speciale sul cui ingresso si leggeva a caratteri cubitali la scritta:

DON BOSCO: FABBRICA DI CARTA, TIPOGRAFIA, LEGATORIA E LIBRERIA SALESIANA

Fu il primo prete espositore in una Esposizione nazionale dedicata al lavoro.
Dice lo storico che chi leggeva la scritta, prima rideva, pensando di trovare dentro il solito bazar di robe da sacrestia, poi entrava e restava allibito di poter assistere dal vivo all’intera catena di lavoro. Non era mai avvenuto a nessuno di poter assistere a tutto il processo con cui dagli stracci per fare la carta si arriva all’uscita del volume, illustrato con centinaia di incisioni e ben rilegato. Un giornale di Reggio Emilia scrisse che la galleria di don Bosco era una del le poche sempre affollate.

Quest'attività impressionante pone veramente la domanda sul significato storico dell'opera di don Bosco.

Oggi chiunque può permettersi, senza rischio, qualunque banalità e qualunque brutale giudizio quando parla di cose e persone di Chiesa, tanto molti cristiani accettano tutto e condividono tutto: hanno paura di essere trionfalistici; ogni critica e ogni deprezzamento della loro storia va loro bene. A volte si fustigano anche da soli, tanta è la voglia di apparire moderni. Caso mai, se si esagera, sorridono un po’.
Dagli oratori salesiani, in questi 125 anni di storia della nostra nazione, sono usciti, formati in tutti i sensi, milioni di italiani. Ma milioni di uomini appaiono «patetici» alle idee di qualcuno, dato che San Giovanni Bosco non aveva posizioni politiche avanzate ne’ intel­ligenti analisi sociali progressiste.
Semplicemente vedeva il bisogno e interveniva. Ma interveni­va su uomini concreti, quelli che la storia la fanno tutti i giorni anche se sembrano «patetici» di fronte alle grandi sintesi storiche dei pro­fessori.

In un promemoria che lo stesso don Bosco scrisse a Francesco Crispi si legge:
«Dal registro consta che non meno di centomila giovinetti, assistiti, raccolti, educati con questo sistema, imparavano la musica, chi le scienze letterarie, chi arte e mestieri, e sono divenuti virtuosi arti­giani, commessi di negozio, padroni di bottega, maestri insegnanti, laboriosi impiegati e non pochi coprono onorifici gradi nella milizia. Molti anche, forniti dalla natura di un non ordinario ingegno, poterono percorrere i corsi universitari e si laurearono in lettere, in mate­matiche, medicina, leggi, ingegneri, notai, farmacisti e simili».

Davanti a don Bosco qualcuno storce il naso perché in politica - in una situazione politica complessa e violenta - preferì astenersi; da un lato (gli bastava, come diceva, “la politica del Pater noster”), e dall'altro scelse il principio apparentemente facile di stare col Papa.

Nell'epoca in cui tutti - anche gli anticlericali - gridavano: “Vi­va Pio IX”, perché speravano in un Papa liberale, don Bosco insegnava ai suoi ragazzi che bisognava invece gridare “viva il papa”
Egli era, secondo la sua espressione, attaccato al pontefice “più che il polipo allo scoglio”.
Interrogato sulla questione romana, perché prendesse posizione, don Bosco rispondeva:
«lo sono col Papa, sono cattolico, obbedisco il Papa ciecamente. Se il Papa dicesse ai piemontesi: Venite a Roma, allora io pure direi: Andate. Se il Papa dice che l’andata dei piemontesi a Roma è un furto, allora io dico lo stesso. Se vogliamo essere cattolici, dobbiamo pensare e credere come pensa il Papa».

Le questioni e i personaggi in questione, allora non erano mitizzati come lo sono oggi nei nostri libri dì storia: apparivano come erano con tutta la loro ambiguità, meschinità. D'altra parte ancora, l'o­pera di quei preti che allora si schierarono politicamente «col popolo, per l'unità» resta nella storia assolutamente irrilevante.

D'altra parte ancora, don Bosco fu l'uomo di cui tutti, Chiesa e Stato, re e pontefice, ministri e cardinali, sapevano di potersi servire quando bisognava assolutamente trovare un accordo.
Quando bisognò risolvere la questione delle diocesi italiane dopo l'unificazione (sessanta diocesi erano senza vescovo), le lunghe trat­tative ebbero don Bosco come intermediario.

Un altro episodio significativo: fu proprio il ministro Rattazzi che spiegò spontaneamente a don Bosco come fondare una congrega­zione religiosa, nonostante la soppressione degli ordini religiosi da lui stesso decretata (la famosa legge Rattazzi del 1855).
«Rattazzi - disse don Bosco - volle con me combinare vari articoli della nostra Regola, riguardanti il modo dì comportarci rispetto al Codice Civile e allo Stato»
.
In pratica gli insegnò abilmente a fare una congregazione che al suo interno fosse governata dalle normali leggi ecclesiastiche e che al suo esterno - rispetto allo Stato - fosse governata secondo le leggi civili che regolano le diverse associazioni di mutuo soccorso o altro genere. L'intuizione geniale di «creare una società religiosa che davanti allo Stato fosse una società civile» gliela diede Rattazzi stesso.
L'idea sorprese perfino i Vescovi. Nasceva dall'affetto che Rattazzi, anticlericale convinto, aveva per don Bosco.

Ancora, davanti a don Bosco si storce il naso perché egli non contestò l'assetto sociale del suo tempo e le divisioni in classi, ma aiutò i poveri restando dentro quel sistema. Cioè: chiedendo l'elemosina ai ricchi. Anche questa critica significa ragionare solo con i principi e non con i fatti. Certo, mentre don Bosco fondava il suo secondo oratorio, Marx scriveva il Manifesto. Don Bosco aveva un suo giudizio abbastanza preciso sulla situazione, anche se non rifletteva scientificamente sulla vastità internazionale del fenomeno pauperista e dei rivolgimenti che si preparavano.
Ma egli rifiutò di fare il «prete sociale» e il politico perché sentì che la sua vocazione era l'intervento immediato, l'amore che subito si rimbocca le maniche e sì mette al lavoro.
C'è chi è chiamato a battersi contro le cause dell'ingiustizia e chi è chiamato a battersi subito contro i suoi effetti. Ad ognuno la sua vocazione: tutte sono importanti, quella di chi riflette e prepara analisi e progetti e quella di chi intanto deve amare, deve accogliere, deve salvare perché i poveri non possono attendere le grandi analisi e i grandi progetti.
«Lasciamo agli altri ordini religiosi più formati di noi, diceva, le denunce, l'azione politica. Noi andiamo diritti ai poveri».

D'altra parte, perfino Pertini scrisse di aver imparato nelle scuole salesiane «un amore senza limiti per tutti gli oppressi e i miseri: la mirabile vita del vostro Santo mi ha iniziato a questo amore».
Ed è interessante ancora sapere che alcuni dei primi contratti d’apprendistato fatti in Italia - con vere e rivoluzionarie novità sociali - sono scritti e firmati da don Bosco.

Un ultimo aspetto non era stato finora mai rimproverato a don Bosco: la sua capacità educativa.
Oggi c'è anche chi accusa don Bosco d'aver avuto una pedagogia «funebre», «regressiva», «un disegno pedagogico quasi ossessivo».
Nel 1920 un celebre pedagogista anticlericale e non credente ma onesto, Giuseppe Lombardo Radice, scriveva ai suoi:
«Don Bosco era un grande che dovreste cercare di conoscere. Nell’ambito della Chiesa…egli seppe creare un imponente movimento di educazione, ridando alla Chiesa il contatto con le masse che essa era venuta perdendo. Per noi che siamo fuori della Chiesa e da ogni Chiesa, egli è pure un eroe, l'eroe dell'educazione preventiva e della scuola-famiglia. I suoi prosecutori possono essere orgogliosi».
E ancora:
«Don Bosco? Il segreto è in un idea! Le nostre scuole: molte idee. Molte idee può averle anche un imbecille, prete o non prete, maestro o non maestro. Un’idea è difficile; un’idea vuol dire un'anima»
Dopo sessant’anni, quelli che contestano don Bosco hanno evidentemente «moltissime idee».

Nel 1877 don Bosco diede alle stampe un breve fascicolo intitolato: Il sistema preventivo dell’educazione della gioventù.
Anzitutto la prima prevenzione era la persona stessa dell'educatore, la sua assoluta dedizione.
«Ho promesso a Dio che fino l'ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani - diceva don Bosco. Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono anche disposto a dare la vita»
«Fate conto che quanto io sono, sono tutto per voi, giorno e notte mattina e sera, in qualunque momento»
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La prevenzione comincia a questo livello di dedizione totale del­ educatore, dedizione che don Bosco intendeva nei termini più concreti possibili, fino a esigere che anche i direttori delle sue case stessero in mezzo ai ragazzi in tutti i momenti, anche ricreativi: dovevano essere visibili, percepibili, incontrabili, familiari.
Allora, in un regime educativo fondato sull'autoritarismo, era una vera e propria rivoluzione, un'impostazione capovolta.
La disciplina non doveva essere ottenuta col castigo, ma con la persuasione e non aveva bisogno di «schieramenti»: non aveva cioè come ideale la fila ben ordinata, ma l'assembramento intorno all'educatore.

Il corrispondente di un giornale francese (Pèlerin) nel 1883 scrisse in un suo articolo:
«Noi abbiamo visto questo sistema in azione. A Torino gli studenti formano un grosso collegio, in cui non si conoscono file, ma da un luogo all'altro si va a mo' di famiglia. Ogni gruppo circonda un insegnante, senza chiasso, senza irritazione, senza contrasti. Abbiamo ammirato le facce serene di quei ragazzi né ci potevamo trattenere dall'esclamare: qui c'è il dito di Dio!».

L'allegria doveva essere la molla naturale che agganciava il soprannaturale: «Devi sapere - spiegava il piccolo Domenico Savio a un compagno appena arrivato - che qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri».
L'imposizione doveva essere abolita anche là dove era consacrata dall'uso e dall'importanza della questione: allora non c'era ambiente educativo giovanile in cui non fossero obbligatorie la confessione e la comunione.
Don Bosco confessava e comunicava tutti i ragazzi, ma nessuno era tenuto a farlo. Anzi raccomandava sempre di non annoiarli con gli obblighi. Solo incoraggiarli. Semplicemente gli dimostrava che, senza la pace del cuore, non potevano essere veramente felici, veramente ragazzi.
D'altra parte don Bosco era profondamente convinto che senza familiarità con Dio, senza «religione», non è possibile educare.
«L'educazione, diceva, è cosa del cuore e Dio solo ne è il padrone e non potremo riuscire a niente se Dio non ci dà in mano la chiave di questi cuori». E aggiungeva: «Soltanto il cattolico può con successo applicare un metodo preventivo».

Riusciva a convincere di questo perfino qualche protestante che andava a trovarlo per imparare. Le espressioni che possono sembrare «intolleranti» fanno parte appunto di quell’«idea» totalizzante che fa un vero educatore.

L'idea che don Bosco ha dell’educatore è totale, totale l'idea della sua attività, totale l’idea del bisogno educativo.
Non c'è un aspetto che egli ritenga di dover trascurare o che sia indegno dell'educatore, sia che si tratti di far da mangiare, o di tagliare un abito, o partecipare a un gioco o insegnare un mestiere, o istruire, o far musica, o pregare o predicare, o confessare, o dare l’eucaristia.

Nel 1884, quando il santo era ancora vivente uscì una biografia di don Bosco, scritta da un autore francese. Diceva:
«Fino ad ora i fondatori di Congregazioni e di Ordini religiosi si sono proposti un fine speciale in seno alla Chiesa essi vi hanno praticato la legge che gli economisti moderni chiamano la legge della spartizione del lavoro. Don Bosco sembra aver concepito I’idea di far compiere alla sua umile comunità tutto il lavoro».

Ragione, religione, amorevolezza era il trinomio su cui don Bosco intendeva fondare la sua opera preventiva.

All'educando bisognava offrire tutto intero lo spazio della vita. Soprattutto amorevolezza aveva una connotazione particolare. Si può infatti amare molto e combinare poco.

Scriveva in una sua celebre lettera da Roma, nel 1884:
«Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu sai se io li amo. Tu sai quanto per essi ho sofferto e tollerato nel corso di ben quarant'anni e quanto tollero e soffro anche adesso. Quanti stenti, quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni per dare ad essi pane, case, maestri, e specialmente per procurare la salute delle loro malattie.
Ho fatto quanto ho saputo e potuto per coloro che formano l'affetto di tutta la mia vita... Che cosa ci vuole ancora dunque?»
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E la risposta era: «Che i giovani non solo siano amati ma che essi stessi sappiano di essere amati».

Ai tempi di don Bosco ciò era talmente vero che un suo ragazzo - divenuto adulto - rispondeva a chi lo interrogava: «Noi vivevamo d'affetto».
Questa è la genialità di don Bosco: non basta amare, bisogna far vedere che si ama, renderlo percepibile:
«Un amore che si esterna in parole, atti e perfino nell'espressione degli occhi e del volto».
E questo esige un'ascesi profonda, un coinvolgimento totale o quotidiano.

Nel 1883 andò a trovarlo un pretino lombardo, incuriosito di ciò che sentiva dire di lui. Diventerà Papa Pio XI, colui che proclamerà «Santo» don Bosco.
Dovette aspettare, perché don Bosco aveva radunato i direttori delle sue case e parlava con loro. Intanto il pretino osservava. Quasi cinquant’anni dopo - ormai Papa - raccontava così quel!' incontro:
«C'era gente che veniva da tutte le parti, chi con una difficoltà chi con un'altra. Ed egli in piedi come se fosse una cosa di un momento, sentiva tutto, afferrava tutto, rispondeva a tutto. Un uomo che era attento a tutto quello che accadeva attorno a lui e nello stesso tempo si sarebbe detto che non badava a niente, che il suo pensiero fosse altrove. Ed era veramente così: era altrove, era con Dio. E aveva la paro­la esatta per tutti, così da meravigliare. Questa la vita di santità, di assidua preghiera che don Bosco conduceva tra le occupazioni continue e implacabili».

Ma questa era appunto una capacità educativa - su di sé e sugli altri - divenuta ormai santità.
Negli ultimi mesi si trascinava a fatica: «Dove andiamo, don Bosco?» gli dicevano. Rispondeva: «Andiamo in Paradiso»

Fu proclamato Santo alla chiusura dell’anno della Redenzione, il giorno di Pasqua del 1934.
E fu il primo Santo della storia per il quale, il giorno dopo la canonizzazione, anche la Stato tenne una celebrazione in Campidoglio con discorso del ministro della Pubblica Istruzione.
Era anche questo un riconoscimento di come ormai don Bosco appartenesse a tutti. Fino a oggi.


Per scaricare il file di Antonio Sicari
vedi qui

Per ricostruire il giudizio di Giovanni Bosco sulla Storia italiana possiamo scaricare il suo libretto sulla storia italiana scritta per i suoi giovani.
vedi qui.

Per la voce di Wikipedia vedi qui.

San Giovanni Bosco
Storia d'Italia per i giovani