18 giugno - UMBERTO PESSINA: la strage di sacerdoti nel quadrilatero rosso (Bologna, Modena, Reggio Emilia, Ravenna).
Autore: Silvio Restelli. Curatore: Mangiarotti don Gabriele.Sacerdote cattolico italiano UMBERTO PESSINA (1902 – Correggio, 18 giugno 1946) fu ucciso da un colpo d'arma da fuoco il 18 giugno 1946 nella sua parrocchia a San Martino Piccolo, frazione di Correggio.
Nell'arco di POCO PIÙ DI UN ANNO, DALLA LIBERAZIONE AL 18 GIUGNO 1946, cadono in Emila-Romagna, uccisi dai partigiani comunisti, SEDICI SACERDOTI.
Un sacrificio che si va ad aggiungere a quello altissimo già sopportato dal clero nel corso del conflitto, in cui perirono altri trentacinque religiosi in gran parte per mano nazifascista.
Nel caso dei sacerdoti, le uccisioni si concentrano esclusivamente NELLE PROVINCE A PIÙ FORTE RADICAMENTO COMUNISTA: BOLOGNA, MODENA, REGGIO EMILIA E RAVENNA.
Ad essere colpiti sono semplici parroci di campagna che abitano per lo più in canoniche isolate. Nella quasi totalità è difficile individuare un movente plausibile alla loro soppressione SE NON IL FEROCE ODIO RELIGIOSO che fa del sacerdote un naturale, anzi un privilegiato, bersaglio politico da colpire.
Nella figura del sacerdote come rappresentante della Chiesa gli estremisti vedono il compendio simbolico dell'ordine politico e sociale da abbattere.
Non importa che il clero abbia nella stragrande maggioranza simpatizzato per la Resistenza, offrendo appoggi e rifugio sicuro alle formazioni partigiane.
Non importa che MOLTI SACERDOTI ABBIANO DIRETTAMENTE MILITATO TRA LE FILE DALLE RESISTENZA E CHE DECINE DI LORO SIANO STATI UCCISI NELLE RAPPRESAGLIE.
Non importa neppure che anche MOLTE DELLE VITTIME ABBIANO DATO UN CONTRIBUTO IN VIVERI E DENARO ALLA CAUSA DELLA RESISTENZA O SVOLTO ASSISTENZA AI PERSEGUITATI dai tedeschi e dai fascisti in campi di concentramento.
Il prete è un nemico, e come tale viene visto con sospetto e con diffidenza, quando non con vero e proprio odio. BASTA IL RICORDO DI QUALCHE LONTANA SIMPATIA FASCISTA OD UNA SEMPLICE VOCE, MAGARI PROPALATA AD ARTE, DI AVER INTRATTENUTO RAPPORTI CON I TEDESCHI, OD UNA PREDICA IN CHIESA DI TONO ANTICOMUNISTA, E SCATTA LA CONDANNA A MORTE. Nella determinazione a colpire i sacerdoti rivive poi l'antico e fortissimo sentimento anticlericale diffuso nelle campagne emiliane e già sperimentato nella violenza iconoclasta della "settimana rossa" del primo anteguerra; ed inoltre, almeno in alcuni casi, nella spinta ad uccidere si intrecciano motivi più o meno sordidi d'interesse personale di qualche bracciante od affittuario dei benefici parrocchiali, essendo la figura del prete non di rado collegata a quella del padrone "sfruttatore".
A) IL CASO DON PESSINA
A più di mezzo secolo di distanza, l'omicidio di don UMBERTO PESSINA, parroco di San Martino Piccolo di Correggio, continua a riservare sorprese e colpi di scena, quasi fosse un dramma diviso in atti in ciascuno dei quali il cerchio delle responsabilità si confonde e si allarga senza però arrivare ad una verità inoppugnabile e definitiva.
I clamorosi sviluppi del caso, che si sono registrati recentemente sull'onda delle polemiche sul "chi sa parli", offrono comunque uno spaccato fedele del clima di violenza che avvolgeva le campagne emiliane di quel tempo e degli stretti legami che esistevano tra i vertici del Pci di allora e gli autori dei delitti.
Il primo atto del dramma si apre con l'uccisione del sacerdote la notte del 18 giugno 1946. Verso le 22 Don Umberto Pessina esce dalla canonica per recarsi in una casa vicina dove deve provare delle tonache per chierichetti. Non fa in tempo che a percorrere pochi passi: un colpo di pistola sparato da distanza ravvicinata lo raggiunge mortalmente.
È L'ENNESIMO OMICIDIO di un SACERDOTE nella diocesi di Reggio, ed anche in questo caso è evidente il movente politico.
Il vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, che da appena quaranta giorni è entrato in diocesi proveniente da Cesena, reagisce con forza, ed esponendosi in prima persona, a differenza degli altri presuli emiliano-romagnoli che di fronte agli assassini dei propri sacerdoti preferiscono evitare prese di posizione troppo nette, forse per non inasprire ulteriormente gli animi.
Quattro giorni dopo l'assassinio di don Pessina, ultimo degli otto sacerdoti reggiani uccisi dai comunisti prima e dopo la Liberazione, in occasione della festa del Corpus Domini, nella cattedrale di Reggio dice solennemente:
"Abbiamo fulminata la scomunica agli assassini (di don Pessina ndr), riservandone a noi personalmente l'assoluzione eventuale; e gli assassini sono tanto i mandanti quanto gli esecutori materiali.
Abbiamo inflitto l'interdetto alla parrocchia di S. Martino di Correggio ed abbiamo proibite tutte le processioni nei tre vicariati di Correggio, San Martino in Rio e di Canolo. Domandiamo pronta e piena giustizia di questo delitto orrendo e sacrilego.
Abbiamo fiducia nelle autorità della provincia. Ma si sappia da tutti che non ci fermeremo, ma andremo fino in fondo per fare luce su questi delitti che tengono in un incubo di terrore le nostre popolazioni. Aspettiamo quanti giorni ci vorranno perchè sia scoperto il bandolo di questo esecrando delitto, poi, se eventualmente non ci si riuscisse, faremo palese all'Episcopato cattolico del mondo le condizioni di terrore in cui si trovano i nostri paesi. Se poi si pensasse di uccidere anche il Vescovo, sappiate che il Vescovo sarà ucciso perchè voleva, a qualunque costo, andare fino in fondo a questo orribile delitto, affinché cessino per sempre le condizioni terroristiche di questa nostra povera vita per causa di pochi facinorosi".
È una denuncia aperta ed insieme una dichiarazione di volontà di andare fino in fondo sull'omicidio di don Pessina. Ed il Vescovo Socche manterrà, per tutta la vicenda, un atteggiamento fermo e deciso.
Dopo alcuni mesi di indagini inconcludenti, proprio per sollecitazione del vescovo, nel dicembre 1946 viene inviato a Reggio Emilia il capitano dei carabinieri Pasquale Vesce con l'espresso incarico di fare luce sul delitto.
"Per prima cosa - si sente dire Vesce dal proprio comandante - vai dal Vescovo e fatti dire tutto quello che sa". E nell'incontro tra Vesce e Socche che si svolge di lì a poco viene fatto per la prima volta il nome del mandante del delitto.
Socche riferisce il nome di una donna che "qualche giorno prima del delitto, trovandosi nell'anticamera del Sindaco di Correggio Nicolini, aveva avuto distintamente la voce alterata di costui dire a qualcuno presente nell'ufficio 'QUEL PRETE VA FATTO FUORI'".
Un indizio labile, e comunque nullo sotto il profilo processuale, anche perchè la donna si era confidata con il presule premettendo che, nel timore di rappresaglie, non avrebbe confermato le sue parole nel corso di un interrogatorio.
Da questo colloquio è stata fatta principalmente derivare la tesi del complotto ai danni di Nicolini, ma vale ed a maggior ragione anche il contrario: se Socche e Vesce avessero organizzato davvero una combine, non avrebbero certo rivelato, come hanno fatto ed in modo così esplicito, il contenuto del loro incontro.
I primi tempi delle indagini di Vesce sono comunque estremamente difficili in mancanza di testimoni disponibili a collaborare con la giustizia oltre che per il clima di timore ed omertà diffuso in quella zona, non meno che nelle altre campagne emiliane.
Per mesi Vesce cerca indagando su altri delitti commessi in quei luoghi e nello stesso periodo, un "rampino" che gli consenta di risalire ai responsabili dell'uccisione del sacerdote. Ed infine lo trova seguendo le tracce del delitto del capitano di artiglieria Ferdinando Mirotti, ucciso a Campagnola il 20 agosto 1946.
Uno dei presunti responsabili dell'omicidio di Mirotti, certo Antenore Valla, fa capire al capitano dei carabinieri di sapere qualcosa anche sul delitto di don Pessina ed infine rivela di aver ricevuto in casa di Antonio Prodi la confidenza che lui, insieme ad Elio Ferretti, avevano eliminato il parroco di San Martino Piccolo dietro ordine di Germano Nicolini, sindaco di Correggio, soprannominato "Il Diavolo". Nicolini ha fatto la Resistenza come ufficiale dell'esercito meritandosi una medaglia d'argento al valore.
È giovane e gode di ascendente presso i suoi anche se in realtà è un comunista abbastanza anomalo. Appartiene infatti ad una famiglia benestante, ha studiato, è cattolico praticante. Si iscrive al PCI solo dopo la Liberazione e l'anno successivo sarà eletto sindaco.
Quando Antonio Prodi confermerà la testimonianza resa da Valla - anche se in seguito darà versioni abbastanza contrastanti con la prima -, Nicolini respingerà ogni accusa sdegnosamente e da allora fino ad oggi continuerà a protestare la propria innocenza gridando alla congiura ordita ai suoi danni da monsignor Socche e dal capitano Vesce, a cui ha aggiunto più di recente anche il suo ex partito.
Il possibile movente diretto è in effetti abbastanza oscuro: tra i tanti che vengono presi in considerazione, due paiono trovare maggiore credito.
Il primo riguarda una partita di cavalli abbandonati dai tedeschi in ritirata prima di attraversare il Po. Quei cavalli vengono presi in consegna da Nicolini che provvede a venderli - avendone però a suo dire ricevuta l'autorizzazione - a 19 persone tutte di San Martino Piccolo due giorni prima dell'uccisione del parroco.
L'altra vicenda è relativa all'assunzione di una sessantina di mondariso di Correggio promossa da don Pessina insieme ad un altro sacerdote don Ezio Neviani, in sfida alla Camera del Lavoro che pretendeva di avere il monopolio del collocamento. Di fatto la grave pena che verrà inflitta a Nicolini terrà conto, oltre che del suo ruolo di mandante, anche dei moventi comuni che lo avrebbero spinto ad uccidere don Pessina.
Prima del processo, agli inizi del 1948, avviene il primo colpo di scena: due ex partigiani comunisti Ero Righi e Cesarino Catellani, prima di espatriare in Jugoslavia, si autoaccusano del delitto depositando presso un notaio di Milano il testo della confessione.
Indicano anche il luogo ove hanno sepolto la pistola con cui era stato ucciso don Pessina. L'arma, dello stesso calibro di quella del delitto, in effetti viene rinvenuta ma una perizia accerta che era stata sepolta da poco tempo e non certo dal 1946.
In conseguenza di ciò, Righi e Catellani verranno in seguito condannati a due anni e mezzo di reclusione per autocalunnia.
Ed ecco il secondo atto del dramma - che si svolge presso la Corte d'Assise di Perugia nel febbraio del 1949 - aprirsi con un altro "coup de theatre".
Antenore Valla, testimone chiave del processo, ritrattando le proprie precedenti dichiarazioni, afferma che al tempo del delitto si trovava nella prigione di Grenoble in Francia per scontare una lieve condanna per espatrio clandestino. Anche questo alibi viene smontato dal capitano Vesce che riesce a dimostrare la manipolazione dei documenti che comprovano la presenza di Valla in carcere in quel periodo.
La difesa degli imputati si manifesta quindi abbastanza maldestra: le prove e gli alibi più o meno contraffatti, invece di contribuire a respingere le accuse aiutano a confermarle. Così come appare singolare il comportamento di Nicolini che si mantiene nella negativa più assoluta: non dice nulla, dichiara di essere all'oscuro di tutto. Eppure Nicolini, ammesso che sia davvero completamente estraneo al fatto, non può non sapere che il PCI sta coprendo qualcuno e non dice la verità. Ma ugualmente tace, accetta che la verità di partito prevalga.
Il suo partito per la verità mostra di fare di tutto per aiutarlo: oltre che al processo lo difende strenuamente sulla stampa, spinge all'autoaccusa Righi e Catellani, quando, tra un processo e l'altro, viene liberato lo accoglie trionfalmente come un eroe nella sua Correggio, tanto da far scrivere a mons. Socche una lettera veemente dal titolo "Apologia dell'assassinio".
Ma è una difesa di facciata, quella del Pci, intesa più che a salvare Nicolini a tenere celati i veri responsabili e soprattutto la trama politica che sta dietro al delitto. E non può essere altro che la fede nel partito a sorreggere il giovane ex sindaco di Correggio e ad accettare il suo sacrificio. Anche perchè occorre dire, come ha ricordato Enzo Biagi che seguì il processo come giornalista, che il processo non si svolse nello stile stalinista della Lubianka, ma fu un procedimento regolare da cui scaturì una condanna basata sugli elementi di fatto e sulle testimonianze che in quel momento erano disponibili. Anche se ora Nicolini - senza portare un solo elemento a suffragio - parla di manipolazione degli atti processuali, sottrazione di prove, ecc...
Il processo si chiude con la condanna di Germano Nicolini, Elio Ferretti ed Antonio Prodi, rispettivamente a 22, 21 e 20 anni di carcere.
Tale sentenza sarà confermata senza modifiche in quattro ulteriori gradi di giudizio. Nicolini sconterà dieci anni effettivi di carcere, gli altri condannati sette.
Una volta uscito dal carcere, Nicolini, a cui la condanna toglie anche i diritti civili, riprende la battaglia nel PCI per vedere riconosciuta la propria innocenza e per avviare la revisione del processo.
Ma il Pci non ne vuole sapere di riaprire un caso che, se ripreso, riserverebbe verità assai imbarazzanti. Fino a quando, nel 1972, di fronte ad un ulteriore diniego del suo partito a seguirlo sulla strada della riapertura del processo e di fronte alla sua esclusione dal Comitato federale, decide di stracciare la tessera del Pci.
Finalmente, accorgendosi di essersi prestato a fungere semplicemente da capro espiatorio per le colpe di qualcun altro, ripudia definitivamente la "morale comunista" che lo ha sorretto fino allora e che richiede "la subordinazione dei propri interessi e delle proprie volontà, il sacrificio costante di sè e delle proprie famiglie in attesa di una ricompensa che sarebbe venuta un giorno quando la 'profezia' si sarebbe avverata".
Occorre arrivare al 1991 per aprire il terzo atto del dramma e fare in modo che la verità, se di verità si tratta, cominci a fare capolino.
Ai primi giorni di settembre William Gaiti, ex partigiano della 77esima Sap, confessa al procuratore della Repubblica di Reggio Elio Bevilacqua, che ha riaperto le indagini sul caso, di essere l'esecutore materiale del delitto: "Eravamo in tre - dichiara a quasi mezzo secolo di distanza dai fatti e spinto, pare, dal figlio - tutti armati, io ero il più giovane, il capo mi aveva detto solo che dovevamo fare un lavoretto. Don Pessina mi aggredì schiacciandomi contro il muro. Mi voltai di scatto, feci fuoco d'istinto".
Una versione che deve essere attentamente valutata poichè nella sommaria deposizione di Gaiti vi sono punti ancora oscuri. Certo è che se la dinamica dei fatti fosse davvero quella cadrebbe l'impalcatura dell'accusa e si potrebbe arrivare ad un nuovo processo per rendere giustizia alle persone ingiustamente condannate.
Anche in questo caso resterebbe però intatta la sostanza e la natura politica del delitto: autori dell'omicidio - a dire di Gaiti con lui quella notte c'erano anche Righi e Ferretti i due che non vennero creduti al processo di Perugia - sarebbero comunisti. La trama politica che fece da sfondo al "lavoretto" non cambierebbe di un millimetro.
Eppure tanto è bastato al Pds per buttarsi lancia in resta contro il "processo alle streghe" e la "macchinazione" di monsignor Socche e di Vesce contro Nicolini, colpevole soltanto di essere "un giovane e determinato sindaco comunista".
Da parte sua Pasquale Vesce, oggi generale in pensione, interpellato, ha ribadito la correttezza delle indagini e la sua convinzione della colpevolezza di Nicolini; mentre la Curia di Reggio ha difeso con vigore la memoria del vescovo Socche definendo "intollerabili calunnie" le insinuazioni su una sua presunta orchestrazione di tutta la vicenda:
"Appare incredibile e paradossale che si tenti di trasformare in persecutrice proprio quella Chiesa che ha subito l'uccisione dei suoi preti, attribuendole addirittura la 'filosofia dell'inquisizione'. La vera macchinazione è l'odierno tentativo di imputare al vescovo monsignor Beniamino Socche la deliberata condanna di un innocente sindaco comunista".
D'altra parte, se fosse vera la teoria della congiura ai danni di Nicolini, il vescovo Socche si sarebbe in realtà prestato ad una manovra di depistaggio del Pci per allontanare il pericolo di vedere scoperta la propria responsabilità nell'organizzazione delle squadre di azione che preparavano la rivoluzione e che intanto toglievano di mezzo gli avversari scomodi. Come don Pessina, appunto.
"Se fosse emersa subito la verità - ha detto Nicolini - avrebbero finito per essere coinvolti anche alcuni dirigenti provinciali del Pci", quelli che utilizzavano come "strumenti" Gaiti ed altri "per tenere in piedi una vera e propria organizzazione paramilitare che non operava certamente solo a San Martino Piccolo".
A poco a poco è anche emerso anche il nome di questa struttura paramilitare direttamente od indirettamente responsabile di questo come di tanti altri delitti di matrice politica nel reggiano: si tratta della Cars (Commissione di assistenza ai reduci e ai soldati). Una vera e propria "Gladio rossa" nel cui culto sono cresciuti tanti extraparlamentari reggiani poi approdati al brigatismo rosso da Alberto Franceschini a Prospero Gallinari.
E che il partito fosse direttamente coinvolto in quelle torbide vicende di violenza politica e dello stesso assassinio di don Pessina, stanno a testimoniarlo le dichiarazioni dell'ottantottenne fondatore del PCI reggiano, Aldo Magnani, che ha ammesso di aver mandato in diverse occasioni delle "ronde" per sorvegliare la canonica del sacerdote sospettato di fare "traffico d'armi" (sic!).
Inoltre Magnani ha confermato che il giorno seguente il delitto tutto il vertice del PCI reggiano era perfettamente a conoscenza del fatto e dei responsabili e decise la strada del silenzio, con il conseguente sacrificio di Nicolini che in quanto all'oscuro di tutto non era in grado di fare i nomi dei mandanti.
Di tutto questo era stato informato anche Togliatti, che alla fine del 1946, compresa la gravità della situazione, decise di trasferire alcuni dirigenti in altre province.
Siamo all'ultimo atto della tragedia? Probabilmente no. E non è escluso che si arrivi ad un nuovo processo per fare luce una volta per tutte su chi armò la mano agli assassini di don Pessina e sulle trame di odio e di violenza che fecero da sfondo a quello come ad altri delitti.
Martirologio
1. Gianni don Domenico, San Vitale in Reno, Bologna, 24 aprile 1945?
2. Terenzani don Carlo, Ventosa, Reggio Emilia 29 aprile 1945?
3. Donati don Enrico, Lorenzatico, Bologna, 13 maggio 1945?
4. Galletti don Tiso, Spezzate Sassatelli, Bologna, 18 maggio 1945?
5. Galassi don Giuseppe, Campanile in Selva, Ravenna, 21 maggio 1945?
6. Preci don Giuseppe, Montalto di Zocca, Modena, 24 maggio 1945?
7. Tarozzi don Giuseppe, Riolo, Modena, 26 maggio 1945?
8. Guicciardi don Giovanni, Mocogno, Modena, 10 giugno 1945?
9. Bortolini don Raffaele, Dosso, Bologna, 20 giugno 1945?
10. Rasori don Giuseppe, San Martino di Casola, Bologna, 2 luglio 1945?
11. Lenzini don Luigi, Crocette, Modena, 21 luglio 1945?
12. Filippi don Achille, Maiola, Bologna, 25 luglio 1945?
13. Dapporto don Teobaldo, Castelfiumanese, Bologna, 14 settembre 1945?
14. Reggiani don Alfonso, Amola di Piano, Bologna, 5 dicembre 1945?
15. Venturelli don Francesco, Fossoli, Carpi, 16 gennaio 1946?
16. Pessina don Umberto, San Martino Piccolo, Reggio Emilia, 18 giugno 1946.
Pubblichiamo anche il Libretto commemorativo pubblicato dal nipote Graziano Pessina.