16 dicembre - Esce IL LIBRETTO ROSSO DI MAO, inizio della Rivoluzione culturale.

Nella Repubblica Popolare Cinese, le GUARDIE ROSSE erano gli studenti delle scuole superiori e delle università, protagonisti fondamentali del primo periodo (1966-1968) della RIVOLUZIONE CULTURALE.
Le Guardie Rosse che inneggiano a Mao Tse-tung, impugnando il Libretto rosso, sono l'icona più nota della Rivoluzione Culturale e della Cina maoista.

Le loro attività sono strettamente collegate agli eventi della Rivoluzione Culturale, un periodo caotico difficile da decifrare, come spiega il sinologo John K. Fairbank (Storia della Cina contemporanea, 1985), che propone una suddivisione in quattro fasi:
1. fino all'estate 1966 - tensione all'interno del partito fra i radicali di "sinistra" e i moderati di "destra". Mao allontana alcuni vertici.
2. dall'agosto 1966 alla fine del 1966 - sollevamento delle Guardie Rosse e campagna contro gli intellettuali
3. da gennaio 1967 all'estate del 1968 - presa del potere: le Guardie Rosse occupano le istituzioni, lo stato non funziona. Le "unioni a tre" volute da Mao falliscono e le lotte di fazione degenerano.
4. dall'estate 1968 all'aprile 1969 - smobilitazione delle Guardie Rosse, controllo da parte dei militari e ricostruzione del partito. Il IX Congresso (aprile 1969) conclude la Rivoluzione Culturale.

Numero delle vittime
Per quanto riguarda l'intero periodo della Rivoluzione Culturale (1966-1976), già negli anni '70 si parlava di 400.000 morti (Enzo Biagi, Cina). Il sinologo Roberts riferisce il numero analogo di 500.000 (Storia della Cina). Fairbank (Storia della Cina contemporanea) parla di 5 milioni di persone perseguitate, includendo quindi coloro che hanno subito torture o danni fisici o psicologici più o meno permanenti.
Secondo Jung Chang e Jon Halliday (Mao. La storia sconosciuta) i morti sarebbero 3 milioni, mentre secondo Roderick MacFarquhar e Michael Schoenhals (Mao's Last Revolution), solo nelle campagne (meno coinvolte delle città) vi sarebbero stati 1,5 milioni di morti e 36 milioni di persone perseguitate.
Secondo Rudolph Joseph Rummel sono oltre 7,7 milioni. Altre fonti (fra cui la Lega Anticomunista di Taiwan) forniscono cifre probabilmente esagerate di 15 o 20 milioni di morti.

Ecco le 23 regole enunciate durante uno dei raduni in piazza Tienanmen e pubblicate nell'ottobre 1966 su un giornale delle Guardie Rosse.
1. Tutti i borghesi devono svolgere lavoro manuale
2. I cinema, teatri, librerie e locali pubblici devono essere ornati con ritratti di Mao Zedong
3. Le citazioni di Mao Zedong devono essere ben visibili in tutti i luoghi, all'interno e all'esterno
4. Le vecchie usanze devono essere abolite
5. Le imprese commerciali devono essere riorganizzate in modo da servire i contadini, gli operai e i soldati
6. Contro gli oppositori bisogna comportarsi con la forza
7. I ristoranti di lusso devono essere chiusi
8. Gli interessi economici privati devono essere subordinati agli interessi dello stato
9. La politica deve avere il primo posto in ogni cosa
10. Gli slogans in onore di Mao Zedong devono essere scritti a lettere rosse
11. Le denominazioni revisioniste devono scomparire
12. In tutte le strade devono essere installati altoparlanti per trasmettere direttive
13. Lo studio del pensiero di Mao Zedong deve incominciare fin da bambini
14. Gli intellettuali devono andare a lavorare nelle campagne
15. L'interesse delle banche deve essere abolito
16. I pasti devono essere consumati tutti insieme e bisogna tornare alle usanze delle prime Comuni popolari del 1958
17. Devono scomparire i profumi, gli oggetti preziosi, i cosmetici, i vestiti e le scarpe che non siano di tipo proletario
18. I vagoni di lusso dei treni devono essere aboliti
19. Non si devono pubblicare fotografie delle cosiddette belle ragazze
20. Le masse devono impegnarsi a cambiare il nome di vie e di edifici
21. La vecchia arte che rappresenta canne di bambù e temi non politici deve scomparire
22. Non si può tollerare che vi siano quadri dirigenti in disaccordo con il pensiero di Mao Zedong
23. Bisogna bruciare i libri in contrasto con il pensiero di Mao Zedong

In Italia in quegli anni nasce il movimento degli studenti che assume il marxismo leninismo-maoismo come teoria guida. In particolare alla Statale di Milano il Movimento Studentesco di MARIO CAPANNA (tesi di laurea su Mao e sulla rivoluzione culturale cinese) ABBRACCIÒ ACRITICAMENTE LA CAUSA DELLE GUARDIE ROSSE, SENZA AVER MAI CHIESTO SCUSA DEL COLOSSALE ABBAGLIO E PRESO ATTO DELLA VIOLENZA POLITICA INAUDITA SCATENATA.

Occorre sottolineare (di fronte all’illusione di prendere le distanze da Stalin che era tipico di questo movimento) un passaggio logico e storico che gli intellettuali italiani hanno cercato disperatamente di evitare: dimostrare la assoluta continuità tra Lenin e Stalin.

Ecco perché usiamo un bel articolo di Paolo De Marchi su "Studi Cattolici" del 1991, che contiene suggerimenti di lettura molto utili.
"Mio figlio diciottenne - che sta leggendo, stupefatto, "L'eskimo in redazione" di Michele Brambilla, pubblicato dalle edizioni Ares - mi domandava l'altro giorno se fosse davvero possibile, negli anni Settanta, orientarsi con qualche sicurezza in mezzo al dilagante conformismo di sinistra, (il pensiero diffuso dominante allora assumeva questa forma) e rendersi conto di come stessero davvero le cose. La mia risposta è stata decisamente affermativa; bastava, gli ho detto, vedere come la pensavano i partiti comunisti italiano e sovietico e - sulla base di questa bussola - dirigersi nella direzione diametralmente opposta.

Alla base delle azioni e della cultura comunista, in altri termini, è sempre stata la FAMOSA "DOPPIEZZA", lucidamente teorizzata da Lenin ("SI DEVE APPOGGIARE TUTTO CIÒ CHE AIUTA AD AVANZARE, SENZA FARSI NOIOSI SCRUPOLI MORALI"; E ANCORA: "BISOGNA RICORRERE A TUTTE LE ASTUZIE, AI METODI ILLEGALI, ALLE RETICENZE, ALL'OCCULTAMENTO DELLA VERITÀ").

Dal dopoguerra in avanti, invero, non c'è stato praticamente alcun argomento o nodo importante - politico, economico o morale - in cui il partito comunista italiano non si sia schierato pesantemente dalla parte sbagliata (culto di Stalin, Patto Atlantico, ingresso nella Nato, guerra di Corea, cosiddetta "legge-truffa", carri armati in Ungheria, Vietnam e Cambogia, Mao e Castro, invasione della Cecoslovacchia, Etiopia, Angola e Mozambico, Nicaragua, "opposti estremismi", missili americani in Europa o a Comiso in particolare, divorzio e aborto, tanto per citare a caso): salvo fare marcia indietro, in ritardo e spesso obtorto collo.

Qualcuno aveva capito, ma a livello pubblico, parlar male del comunismo voleva dire l'emarginazione, l'impopolarità, il compatimento, soprattutto se ci si permetteva di portar delle prove; nel qual caso scattava l'immediata censura o, peggio ancora, l'autocensura, che stendeva attorno alla voce discorde una cortina di silenzio.

Uno dei pochi studiosi italiani che rischiarono la faccia - e furono rigorosamente ostracizzati - è stato certamente EUGENIO CORTI, i cui numerosi interventi sul comunismo sono ora opportunamente ripubblicati in volume (L'esperimento comunista, Edizione Ares, Milano 1991, pp. 304, L. 28.000).
Si tratta di un libro di grande rilevanza per parecchi motivi: anzitutto per dimostrare ai giovani di oggi - e per ricordare ai ciechi di allora - che anche vent'anni fa c'era chi aveva gli occhi per vedere, e che era possibile difendere la verità delle cose con dignità e con conoscenza di causa.

C'è poi un secondo motivo per cui è importante la pubblicazione di questi studi. Tutti conoscono Corti narratore: "I più non ritornano" è stato riedito da Mursia l'anno scorso, e "Il cavallo rosso" (VII edizione, nel 1991) costituisce sicuramente il romanzo italiano di più ampio respiro degli ultimi cinquant'anni (e secondo noi di tutto il Novecento).

Ma il Corti studioso attento e informatissimo del fenomeno comunista è noto a pochi, proprio per la situazione di emarginazione in cui la "cultura" dominante lo aveva collocato, non dandogli alcuno spazio nelle sedi di più larga diffusione (va ricordato che alcuni fra i più ampi di questi scritti trovarono ospitalità proprio sulle colonne di Studi Cattolici, che da ciò trae motivo di legittimo orgoglio).

I saggi di Corti vengono ora giustamente riproposti nella loro veste originaria, e solo qualche sobria nota di oggi (OLTRE A UN BREVE STUDIO RIASSUNTIVO SUL NUMERO DELLE VITTIME IN CINA) serve a collocarli nell'adeguata prospettiva storica, e a confermare - senza peraltro alcun atteggiamento di trionfalistica rivincita - la loro validità. In essi il fenomeno comunista viene esaminato sia dal punto di vista teorico sia nelle sue drammatiche realizzazioni pratiche: gli orrori del "socialismo reale" sono qui descritti sulla base di una documentazione inoppugnabile e impressionante. Ritornano così alla nostra memoria - e speriamo che si incidano a fuoco nella mente dei più giovani - alcune delle più immani tragedie del nostro tempo: dallo sterminio dei Kulaki alla rivoluzione culturale cinese, dal dramma vietnamita ai massacri in Cambogia, in una serie di analisi approfondite e terrificanti, condotte sempre - ed è la caratteristica di questi scritti - con una pietas intensa, non disgiunta tuttavia da una doverosa, vibrante indignazione.

Ma questo non si poteva dire, allora; e studiosi come Solgenitsin e - appunto - Eugenio Corti erano trattati da visionari; finalmente oggi anche il mito di Lenin - del Lenin "tradito" dal cattivo Stalin - comincia a essere preso ufficialmente a picconate (come nel monumentale studio di Richard Pipes sulla Rivoluzione russa, uscito recentemente in America, nel quale si conferma, documenti alla mano, che appunto Lenin è il vero responsabile e il consapevole iniziatore delle spaventose tragedie dei regimi comunisti: fu Lenin, per esempio - e non Stalin - ad affermare che "poco importa che muoiano degli innocenti, se la loro morte è necessaria per salvare la rivoluzione").

Per approfondire si possono leggere anche i seguenti articoli

Corti sui morti del comunismo.

Del Noce su Hitler e Lenin

Orwell come profeta dell'anticonsumismo.