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14 Novembre - HEGEL: CONCLUSIONE DELLA MODERNITÀ E INIZIO DELLA CONTEMPORANEITÀ EUROPEA

Fonte:
CulturaCattolica.it
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda, 27 agosto 1770 – Berlino, 14 novembre 1831) è stato un filosofo tedesco, considerato uno dei rappresentanti più significativi dell’idealismo sviluppatosi in Germania.

La filosofia antica e quella medioevale affermano che la realtà (la “verità”) è conoscibile dal pensiero (o “certezza”) dell’uomo, e, propriamente, dal pensiero epistemico - filosofico; ma affermano anche, senz’altro, che la realtà è esterna al pensiero e indipendente da esso: affermazione immediata dell’identità di certezza e verità.

La filosofia moderna, fino a Kant compreso, continua a tener fermo il principio che la realtà vera e propria esiste esternamente e indipendentemente da! pensiero, ma a cominciare da Cartesio mette in rilievo che il contenuto del pensiero, ossia tutto ciò che il pensiero pensa - e quindi !’intera realtà che ci sta dinanzi, che sperimentiamo e in cui viviamo - è, appunto, un pensato, cioè Idea, rappresentazione umana (l’“essere oggettivo” di Cartesio, il “fenomeno” di Kant).

Il contenuto del pensiero, pertanto, non è la realtà vera e propria che esiste esternamente e indipendentemente dal pensiero (la realtà in altre parole che corrisponde all’”essere formale” di Cartesio e alla “cosa in sé” di Kant).
Il pensiero moderno preidealistico afferma cioè l’opposizione di certezza e verità.

Il razionalismo ritiene che per mostrare la concordanza tra le rappresentazioni del pensiero e la realtà in se stessa occorra un procedimento argomentativo, una mediazione che unisca il pensiero alla realtà in sé.
E, nel razionalismo, è la metafisica a costituire tale mediazione.

Nell’empirismo, invece, questa funzione della metafisica vien meno; e sebbene nemmeno Hume sostenga che la totalità del reale coincida con l’esperienza, tuttavia con Hume l’empirismo perviene allo scetticismo più completo relativamente al mondo corporeo esterno (res extensa), all’anima spirituale (res cogitans) e a Dio, i contenuti, rispettivamente, della “cosmologia”, della “psicologia” e della “teologia razionale”, cioè delle tre parti in cui si suddivide tradizionalmente la metafisica in quanto scienza delle regioni preminenti della realtà.

Anche se si tratta di una approssimazione che va accompagnata da tutta una serie di riserve, si può dire che la filosofia moderna, con Hume, ritorna al suo punto di partenza, cioè al cogito cartesiano, oltre il quale il razionalismo si era voluto avventurare.
Il punto di partenza dell’episteme diventa il punto di arrivo. Con Kant lo scetticismo relativo alla conoscenza delle cose in se stesse riceve l’espressione più consapevole e più perentoria; ma è altrettanto consapevole e perentoria l’affermazione dell’episteme nell’ambito della soggettività trascendentale: l’episteme è la “critica della ragione”, ossia è la coscienza che la ragione ha dei propri limiti.

L’episteme è quindi, nelle sue fondamenta, la consapevolezza che la “cosa in sé”, ossia ciò che esiste esternamente e indipendentemente dalla conoscenza umana, è destinata a restare inconoscibile perché qualsiasi presunta conoscenza di essa non potrebbe portarsi al di fuori del conoscere e cogliere la cosa come è in se stessa.
Non solo si deve dire, come già Cartesio diceva, che il mondo che sperimentiamo è rappresentazione (e non “cosa in sé”), ma si deve dire anche che la rappresentazione non può in alcun modo uscire da se stessa, che il conoscere non può in alcun modo uscire da sé per quanto esso si sviluppi e si approfondisca, e che quindi le cose in sé sono assolutamente inconoscibili e la metafisica - la quale vuol essere appunto la conoscenza delle cose in sé - è impossibile come scienza. Il contenuto della conoscenza umana può essere soltanto “fenomeno”, realtà che appare a noi.
(“Fenomenismo” è il termine col quale viene indicata questa tesi.)

Da tutto questo appare con chiarezza che l’affermazione kantiana dell’inconoscibilità delle cose in sé ha senso soltanto in relazione al riconoscimento dell’esistenza delle cose in sé: se quest’ultime non esistessero, non si potrebbe nemmeno affermare che esse sono inconoscibili.

Ma anche per Kant - come per Cartesio e Aristotele - è fuori discussione che esternamente e indipendentemente dalla conoscenza umana esiste il regno delle cose in sé, dalle quali in ultima analisi dipende il destino dell’uomo. Anche il fenomenismo kantiano è dunque un realismo - ossia è affermazione che la res, la cosa, è indipendente ed esterna rispetto al conoscere. (Severino, Filosofia moderna, pp.341-43)
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(L’identità mediata di “certezza” e “verità”, pp. 348-350)
Mediante la negazione della cosa in sé, l’idealismo giunge ad affermare daccapo che la “certezza” è identica alla “verità”.

Affermazione mediata dell’identità di certezza e verità.
Tra il realismo della filosofia premoderna e l’idealismo c’è dunque, insieme, concordanza e discordanza.
Col realismo antico e medioevale l’idealismo ha infatti in comune la tesi che il contenuto del pensiero, ossia della “certezza”, è la realtà in se stessa, ossia la “verità”, e non un insieme di rappresentazioni semplicemente soggettive, fenomeniche, semplici “idee” della realtà o cosa in sé.
Infatti è in relazione alle cose in sé che - si è visto - il fenomeno è qualcosa di semplicemente soggettivo (nella terminologia cartesiana: è semplicemente un “essere oggettivo”); così come è in relazione alla realtà che qualcosa può essere inteso come un’immagine, più o meno fedele, di essa.

Ma quando, con l’idealismo, l’episteme si rende conto che il concetto di “cosa in sé” è contraddittorio e che nell’intero precedente sviluppo del pensiero filosofico l’affermazione delIa cosa in sé si risolve sempre in un unico gigantesco presupposto, allora, col toglimento della cosa in sé, il fenomeno (cioè la realtà che appare all’interno della coscienza epistemica) non è più qualcosa di semplicemente soggettivo (non è più “certezza” opposta alla “verità”), ma è la stessa realtà in se stessa, che appare.
Daccapo, nell’idealismo, il contenuto del pensiero è l’ essere - e non l’immagine soggettiva e quindi alterante dell’essere.

Se quindi per il criticismo kantiano l’essenza dell’essere è di rimanere nascosta all’uomo (la cosa in sé è inconoscibiie), per l’idealismo, all’opposto, l’essenza dell’essere è di rivelarsi nella coscienza umana.
In questo senso Hegel può far sua l’affermazione di Goethe che la natura non ha corteccia, cioè non si nasconde dietro un velo che non consente di rivelarne il mistero.
Se (e poiché) al di là di ciò che appare nel pensiero non c’è nulla - perché se si volesse dire che c’è qualcosa (ad esempio Dio, la natura, la cosa in sé), questo qualcosa sarebbe pur sempre un che di pensato e dunque non starebbe al di là del pensiero -, allora ciò che appare nel pensiero è la vera realtà, il vero essere.

Con la negazione dell’esistenza della cosa in sé, l’idealismo giunge quindi alla negazione della tesi kantiana dell’inconoscibilità della cosa in sé.
Il criticismo può infatti affermare questa loro inconoscibilità, solo in quanto presuppone la loro esistenza; ma una volta che tale esistenza risulta impossibile, viene anche a cadere l’affermazione dell’inconoscibilità delle cose in sé (un’affermazione, peraltro, che è a sua volta conseguenza inevitabile della persuasione che la realtà vera e propria esista al di là del pensiero).

Ma proprio perché al di là del contenuto del pensiero non c’è nulla, l’identità idealistica di certezza e verità è essenzialmente diversa dall’identità realistica tra questi due termini: l’identità mediata è essenzialmente diversa dall’identità immediata, sostenuta dall’antico realismo.
Per il quale, il contenuto del pensiero è sì l’essere, ma poi questo essere è inteso come assolutamente indipendente, esterno e indifferente rispetto al pensiero. Rendendosi conto che al di là del pensiero non c’è nulla, l’idealismo mette insieme in rilievo che nessuna realtà può essere esterna, indipendente e indifferente rispetto al pensiero (epistemico).

L’idealismo opera pertanto una sorta di ritorno all’antica maniera di intendere il rapporto tra l’essere e il pensiero, ritorno che però è anche l’estremo allontanamento da essa.
Nell’idealismo, infatti, l’identità di certezza e verità non è immediata, come nell’antico realismo, ma è mediata dalla negazione assoluta di ogni realtà trascendente il pensiero, e quindi dalla negazione assoluta che la realtà pensata sia soltanto un’immagine soggettiva e fenomenica della realtà in se stessa (=negazione dell’opposizione di certezza e verità).

Si può, dunque, a ragion veduta affermare che la storia della filosofia è incarnazione in senso storico delle categorie della logica: ed è quindi evidente che vi sia identità tra filosofia e storia della filosofia.
Infatti, se la filosofia studia le strutture della realtà, la storia della filosofia, dal canto suo, studia anch'essa tali strutture ma dispiegate nel tempo, nel senso che ogni epoca storica ha maturato una sua filosofia.
Ed è proprio per questo motivo che, dopo la maturazione della filosofia hegeliana, a scuola si è cominciata a studiare la storia della filosofia: le stesse categorie logiche le vediamo incarnate nella storia del pensiero, cosicché ogni momento deve essere superato ed è solo quello finale che conferisce senso compiuto a tutti i momenti ad esso precedenti.

Allo stesso modo, ogni dottrina filosofica davvero grande, da un certo punto di vista, è perfetta per la sua epoca, ma, sotto un altro profilo, risulta inadeguata se inserita nella complessità del tutto. Sarà infatti l'ultimo momento a recuperare tutti gli altri e a superarli dialetticamente, con la conseguenza che in esso tutte le filosofie precedenti, oltre ad essere superate, vengono anche inverate, ovvero trovano la loro più compiuta espressione, proprio come i finiti la trovano nell'infinito.
Ed Hegel quando parla di ultimo momento della storia della filosofia ha in mente il suo stesso sistema filosofico: ed è, del resto, di forte sapore romantico l'idea che la storia sia progresso ma che, al tempo stesso, ogni età abbia un suo valore autonomo (a differenza di quel che credevano gli illuministi) e che però, per avere un valore compiuto e perfetto, debba essere inserita nel tutto.
Detto sinteticamente, ogni fase storica ha un suo valore autonomo, ma è solo se inserita nella totalità degli eventi che si riveste di un valore compiuto e perfetto. Ne consegue che ogni momento storico non è mai di per sè pienamente perfetto e, ciononostante, è la massima espressione che si potesse avere a quell'epoca: ogni filosofo è dunque espressione di un mondo e ogni grande filosofia non è altro che un determinato mondo che riflette su se stesso servendosi di un filosofo.

Concretamente, il mondo greco ha riflettuto su se stesso servendosi del filosofo Platone e la sua riflessione si è avviata solo al tramonto di quel mondo.
Con la prima metà dell'Ottocento si è giunti al culmine della storia e della storia del pensiero ed Hegel non è nient'altro che la sua epoca che sta riflettendo su se stessa tramite di lui.
Ritenendo di essere il pensatore supremo della sua epoca e dell'umanità intera, Hegel sembra macchiarsi di presunzione, ma in realtà è la sua stessa concezione filosofica che lo porta a tali conclusioni: infatti, l'epoca in cui egli vive è il punto d'arrivo della storia d'allora e, poiché il vero è l'intero, Hegel si trova a riflettere sulla realtà superiore a tutte le altre, cosicché non può non essere il pensatore supremo, sommo strumento dello spirito assoluto.

È stato, tra l'altro, notato che nei toni hegeliani aleggia un senso di vecchiaia del mondo, coglibile, più che nei concetti della sua filosofia, in certe immagini allusive che campeggiano nei suoi testi. L'immagine stessa della filosofia come una sorta di luce fortissima che però risplende al tramonto sembra suggerire l'idea che il mondo è agli sgoccioli.
La stessa concezione della storia prevede che il sole dello spirito, come il sole fisico, proceda da est a ovest: giunto ad occidente, esso ha il suo momento di maggior splendore, ma è comunque al tramonto.
Del resto, le metafore biologiche (qual è quella del sole) suggeriscono che, alla maturità e alla vecchiaia segua la morte, cosicchè la filosofia hegeliana non può non essere venata da un senso di inquietudine: ed è basandosi su questi presupposti che si può provare a capire se, nella prospettiva hegeliana, la storia e la filosofia possano avere un avvenire.

In effetti, l'idea che la storia debba finire è marcata in Hegel, ma la si ritrova anche in Marx, il quale è convinto che, abolite le classi sociali e lo stato, finisce ciò che comunemente intendiamo per storia.
Tuttavia, vi è un passo in cui Hegel guarda al futuro ed è quasi profetico: meditando sul corso della storia che muove da oriente ad occidente, egli ipotizza che la storia possa continuare il suo corso spostandosi ulteriormente verso ovest, verso le pianure americane e russe.
Hegel, però, non approfondisce il discorso e, anzi, lo si trova una volta sola nei suoi scritti enciclopedici. Hegel guarda, dunque, alla sua epoca come all'apice della storia, ma non dice mai esplicitamente che dopo di essa non vi sarà più nulla (sebbene talvolta lo lasci intendere) e, anzi, profetizza nel passo appena citato che la storia si sposterà verso l'America e la Russia; come mai convive in Hegel questo duplice atteggiamento, per cui il presente è il culmine della storia ma, contemporaneamente, potrebbe esserci un futuro?

Forse Hegel si concentra interamente sul passato e sul presente perchè la ragione, per sua natura, non può guardare al futuro, poichè il suo compito è appunto quello di trovare se stessa in quel che c'è e in quel che c'è stato; del futuro non si può occupare proprio perché non può cogliere se stessa in ciò che non c'è ancora; e tuttavia non può negarlo poiché, se da un lato la filosofia e la storia hanno raggiunto il culmine, sarebbe assurdo e in contraddizione con i dettami della dialettica non riconoscere che anche l'epoca in cui vive Hegel debba essere capovolta e superata.
Sembra dunque che Hegel, pur riconoscendo la possibilità di una storia nel futuro, non intende occuparsene poichè la riflessione matura solo dopo che la realtà si è fatta. Se poi, per definizione, si può parlare solo del passato e dei suoi effetti sul presente, Hegel è costretto a considerare come provvisoriamente definitiva la situazione che c'è al suo tempo, ovvero deve per forza vedere nello stato prussiano la tappa finale dello stato moderno e nella sua filosofia il punto d'arrivo della storia del pensiero. Per Hegel filosofo la storia finisce nel presente, ma poi, a livello extra-filosofico, egli può ipotizzare che in futuro vi sia qualcosa che comunque non potrà mai essere oggetto della sua filosofia.

Dall'hegelismo nasceranno due correnti, la Destra e la Sinistra hegeliane: la Sinistra coglierà nella filosofia di Hegel il continuo cambiamento dialettico della realtà, leggendo in chiave progressista e spesso rivoluzionaria il motto 'tutto ciò che è razionale è reale'.
La Destra, invece, guarderà con maggior simpatia al motto 'tutto ciò che è reale è razionale', dandone una lettura fortemente conservatrice e ostile a cambiamenti di ogni sorta. La scissione tra Destra e Sinistra nacque, ancor prima che sul versante politico, su quello religioso: la Destra, legata ai valori della religione e della Chiesa, tenterà di fondare una scolastica hegeliana, ovvero un tentativo di apologizzare la religione cristiana attraverso i concetti dell'hegelismo. Hegel aveva infatti insistito sul fatto che i contenuti della sua filosofia e quelli della religione cristiana coincidessero; e tuttavia aveva sottolineato la superiorità della filosofia sulla religione ed è su questo che si basa la Sinistra hegeliana, convinta che ormai la religione fosse stata definitivamente superata dalla filosofia.

Per approfondire vedi il documento seguente.

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