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Quali sono i contenuti della "pace leninista"?

Autore:
Mattioli, Don Vitaliano
Fonte:
Palestra del Clero, 11- 12 1982
Pubblichiamo la parte centrale di questo interessante ed ancora attuale contributo

Lenin ha il merito di aver trasferito la dottrina di Marx-Engels, debitamente riveduta e corretta per le differenti situazioni geo-politiche, che mirava alla trasformazione sociale dell'Occidente.
Il punto di partenza risiede nella concezione di Stato e di Classe per arrivare a comprendere l'altro binomio: Guerra-Rivo­luzione.
Marx è convinto che la causa delle molteplici forme di sfrut­tamento industriale dell'Europa occidentale del suo tempo fosse da localizzarsi nell'economia. Il resto: la religione, la filosofia, la politica, la società, sono tutte sovrastrutture in funzione di un maggiore sfruttamento economico. Lo stesso Stato è in funzione della produzione.
"La produzione economica ed i rapporti sociali da essa costi­tuiti determinano tanto il sorgere quanto lo scomparire dello Stato e del diritto. Né l'uno né l'altro fenomeno sono un elemento es­senziale della società umana; essi esistono solo in determinate condizioni economiche, quando cioè i mezzi di produzione sono a disposizione esclusiva di una minoranza di individui che usa o abusa di questo privilegio allo scopo di sfruttare la stragrande mag­gioranza" (1).
Questa minoranza di individui di cui parla Marx costituisce la cosiddetta "classe privilegiata" la quale, avendo in mano i mez­zi di produzione, sottomette e sfrutta gli Altri per ricavarne il mag­gior vantaggio e per impedire che la situazione si possa ribaltare. Questi "Altri" costituiscono la seconda classe, quella degli sfrutta­ti, in eterno antagonismo e rivalità con la precedente.
Tale situazione del XIX secolo non costituisce una parentesi nera nella plurisecolare vicenda umana ma ne è una "costante sto­rica". Questa sarebbe la grande scoperta di Marx-Engels. Nella sto­ria ci sono stati sempre sfruttatori e sfruttati: padroni - schiavi, feudatari - servi della gleba, capitalisti - proletari. Sono cambiate le denominazioni ed i metodi di sfruttamento; ma il contenuto stori­co è rimasto invariato (2).
"La classe dominante, una volta in sella, non ha mai manca­to di consolidare il proprio dominio a spese della classe che la­vora e di trasformare la direzione della società in sfruttamento delle masse... La società si divide in una classe che sfrutta e in una classe che è sfruttata, in una classe che domina ed in una che è oppressa" (3).
"Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l'esistenza delle classi nella società moderna e la loro lot­ta reciproca... Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l'esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta di classe con­duce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che que­sta dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all'abo­lizione di tutte le classi e ad una società senza classi" (4).
"Per meglio mantenere la sua situazione di prestigio la classe dominante ha dato vita allo Stato come mezzo di potere per con­tinuare indisturbata lo sfruttamento. Lo Stato non è altro che una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'altra, nella repubblica democratica non meno che in quella monarchica... E' un male ereditato che il pro­letariato, dopo la sua lotta vittoriosa per la supremazia di classe, dovrà sfrondar via al più presto possibile, fino al tempo in cui una nuova generazione, allevata in nuove e libere condizioni sociali, sa­rà in grado di buttare nel mucchio dei rifiuti tutto l'inutile ingom­bro dello Stato" (5).
Per attuare il bene della società, riaffermare la giustizia, libe­rare gli oppressi non è assolutamente sufficiente il cambiamento delle varie forme di governo o l'alternativa tra un tipo di Stato e l'altro. Questa è una copertura della classe sfruttatrice per meglio mantenere la sua posizione dominante. E' indispensabile una solu­zione più radicale: non il passaggio da una forma di Stato ad un'altra ma l'abrogazione dello Stato in quanto tale perché strumen­to della classe capitalista contro il proletariato. Per impedire che tale situazione si ripeta è necessario estirpare la radice stessa del male: la borghesia ed il capitale.
I vecchi clichè europei vengono trasformati. Non più uno Sta­to contro un altro (posizione di guerra e di dominio) ma lotta del proletariato di tutto il mondo, indipendentemente dalla nazione al­la quale appartiene, contro il nemico comune: la classe capitalista borghese (tensione rivoluzionaria). Solo quando la classe borghese sarà soppiantata ed annientata dal proletariato non ci saranno più lamenti e gemiti; solo quando lo Stato capitalista avrà lasciato finalmente il posto alla società comunista avremo una situazione di giustizia e di felicità; solo quando non si parlerà più di guerra ma di rivoluzione si potrà avere la vera pace sulla terra.
"Scopo immediato dei comunisti è il rovesciamento del pote­re della borghesia, la conquista del potere politico, da parte del pro­letariato... Il proletariato userà il suo dominio politico per strap­pare alla borghesia grado a grado tutto il capitale" (6).
"Lo Stato cadrà inevitabilmente. La società che organizza la produzione in una forma diversa sulla base dell'associazione libe­ra ed uguale dei produttori porrà l'intero meccanismo statale là dove esso apparterrà allora: nel museo delle antichità" (7).
Marx ed Engels in un primo momento credevano nel valore della guerra; erano cioè convinti che la guerra fosse parte inte­grante della strategia rivoluzionaria: mediante la guerra sarebbe stato più facile unificare e radicalizzare le rivoluzioni europee (8).
Tuttavia la storia non diede loro ragione: le guerre ci furono ma non portarono alla rivoluzione (tranne che in Francia). Fu que­sto uno dei principali motivi per cui Marx ed Engels rividero la loro dottrina sulla guerra internazionale abbandonando l'idea che fosse utile alla rivoluzione; anzi si accorsero che era nociva in quanto risultava favorevole alle classi dominanti ed indeboliva i vari mo­vimenti rivoluzionari ormai in fase di crescita (9).
Scopo dunque di Marx ed Engels non era tanto la guerra quan­to la rivoluzione. La prima era in funzione della seconda. Quando invece questo nesso positivo non fu più avvertito, allora diventaro­no pacifisti ma solo per essere meglio rivoluzionari. Il vero scopo era quello di "operare per la liberazione del proletariato dell'Eu­ropa occidentale, subordinando ogni altro obiettivo a questo sco­po" (10).
Quest'unico obiettivo era la rivoluzione per la liberazione. Lenin non esiterà a firmare un trattato di sconfitta (Brest-Litovsk, 3 mar­zo 1918) pur di avere un clima di pace per far maturare la rivolu­zione appena avviata.
Dunque Marx ed Engels consideravano la politica essenzial­mente come lotta di classe all'interno di Stati rappresentanti la classe dominante.
Il modo con cui loro guardano la guerra è molto differente da quello dei politici. Per lo statista la guerra è una questione tra due o più Stati; per il marxismo è un'occasione o un impedimento per attuare la rivoluzione proletaria; la guerra diventa una "funzione". Ed è nello stesso tempo il residuo di una società borghese e capitalista. La guerra non può scomparire se non con la fine delle società classiste, con il trionfo del comunismo.
Marx si è definito "apologeta della pace ad ogni costo" (11). Ma questo "non significa che il marxismo è pacifismo, ed ogni guer­ra deve essere pesata sulla bilancia della lotta di classe" (12).
Sarebbe più esatto definire Marx anti-belligerante rivoluzio­nario. Come la guerra è subordinata all'attuazione della rivoluzione, così la pace. Ho detto prima come Lenin ha attuato tale principio. L'ultimo Marx preferisce la pace alla guerra non perché sia pacifista ma perché l'esperienza storica gli ha insegnato che per attuare la rivoluzione mondiale, per la rivoluzione del proletariato è più opportuno il clima di pace. Quindi la pace, ma solo perché av­vantaggia la rivoluzione.
Ed è su questa linea che si muovono i vari congressi socialisti dell'Internazionale dal 1889. Si matura la strategia che unisce la pace e la rivoluzione. Si conia la frase: pace armata. Nel 1891, quan­do per la prima volta i socialisti riuniti in congresso si chiameran­no "partito socialista internazionale", identificarono tale nuovo par­tito come il solo vero partito della pace" (13). Lo stesso concetto era già stato avviato al precedente congresso di Parigi in cui si dichiarò che la pace è condizione prima e indispensabile di ogni emancipa­zione operaia e della rivoluzione che la permette (14).

Nel 1883 moriva Marx; nel 1895 lo seguiva Engels. L'Occiden­te era rimasto sordo ai loro sforzi rivoluzionari ma non ai giusti aneliti dei lavoratori. Si andò così accentuando la differenza tra l'Europa, che stava trasformandosi verso una linea più moderna e la Russia nella quale vigeva ancora un sistema feudale. Le nuove idee socialiste continuarono ad affermarsi attraverso le Interna­zionali.
Se in Europa c'era più "spazio" per l'emancipazione operaia, in Russia si erano costituiti diversi movimenti clandestini che non stavano per niente a guardare (15). Ma nonostante questi tentativi per destabilizzare l'ordine costituito (lo zar Alessandro II fu assassi­nato nel 1881) e l'infiltrazione delle idee marxiste per attuare la rivoluzione (quella del 1905 fu stroncata al suo sorgere), anche in Russia probabilmente le cose non avrebbero preso la piega stori­ca se non ci fosse stato Lenin come punto di coordinamento e di riferimento (16).
Nel 1889, quando Lenin fece la sua scelta, in Russia giravano da circa vent'anni diversi proclami rivoluzionari, tra i quali il più famoso è passato alla storia col titolo di Catechismo del rivolu­zionario, la cui paternità viene spartita tra Bakunin e Necaev (17).
Il rivoluzionario viene descritto come individuo in cui "tutto è monopolizzato da un unico pensiero e da un'unica passione: la rivoluzione" (n. 1). "Conosce un'unica scienza: la scienza della di­struzione. Per questa, ma soltanto per questa ragione, studierà mec­canica, fisica, chimica, e magari medicina. Ma giorno e notte stu­dierà la scienza degli esseri umani, le loro caratteristiche e le loro condizioni di vita, e i fenomeni dell'attuale ordinamento sociale, avendo di mira sempre lo stesso fine: la via più rapida e più sicu­ra per distruggere l'intero corrotto ordinamento" (n. 3). "Il ri­voluzionario è un uomo consacrato alla causa, spietato verso lo Stato e verso le classi superiori" (n. 5). "La natura del vero ri­voluzionario esclude ogni sentimentalismo, romanticismo... In ogni momento e luogo il rivoluzionario dovrà obbedire, non già ai pro­pri impulsi personali, ma esclusivamente a quelli che servono la causa della rivoluzione" (n. 7). Tanto peggio per lui se ha genito­ri, amici o amanti: egli cesserà dall'essere un rivoluzionario qualo­ra tali rapporti siano per lui motivo di turbamento" (n. 13).
Tale documento fu abbracciato da Lenin ed esercitò un pro­fondo influsso sui suo pensiero. "Al pari di Necaev, Lenin aveva di mira più la distruzione - totale, terribile, universale e spietata - che non la creazione di un nuovo mondo; e, come Necaev, era de­ciso a far sì che i poteri dello stato cadessero nelle mani del pro­letariato industriale, guidato da un manipolo di decisi rivoluzio­nari, mentre tutte le altre classi avrebbero dovuto essere abolite" (18).
Lo sforzo di Lenin fu quello di impiantare in Russia la rivoluzione di Marx (con le dovute rettifiche nella enucleazione) valoriz­zando quelle scintille che già erano state accese dai moti prece­denti. Tuttavia, e questo fu il suo valore, per realizzare il grande progetto ebbe l'intuizione che era assolutamente indispensabile la costituzione di un partito organizzato considerando non sufficien­te la semplice alleanza tra contadini ed operai.
"Il partito doveva essere lo strumento della rivoluzione" (19).
Lenin "decise di muovere guerra alla guerra. Lenin non era pacifista. La sua risposta alla guerra era la rivoluzione…, e lanciò lo slogan trasformare la guerra imperialistica in una guerra civile" (20).
Lenin, come Marx ed Engels era convinto della ineluttabilità della rivoluzione, e non della evoluzione, per abbattere lo Stato borghese. A lui non toccò tanto il compito di teorizzare sulla rivo­luzione quanto piuttosto di attuarla. Del resto era più consono alla sua indole.
"Anche la democrazia è uno Stato, e anch'essa quindi scompa­re quando scompare lo Stato. Solo la rivoluzione può sopprimere lo Stato borghese. Lo Stato in generale, cioè la democrazia più com­pleta, non può che estinguersi" (21).
"La necessità di educare sistematicamente le masse in questa idea della rivoluzione violenta, è alla base di tutta la dottrina di Marx ed Engels... La sostituzione dello Stato proletario allo Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta" (22).
Per questo si è premunito di illustrare, fin dal 1899, "il com­pito reale del partito socialista rivoluzionario: Nessuna partecipa­zione alla preparazione di piani di riorganizzazione sociale, nessun contatto predicatorio con i capitalisti e il loro servitorame sul mi­glioramento della situazione economica degli operai, nessuna orga­nizzazione di complotti, ma l'organizzazione della lotta di classe del proletariato e della direttiva di questa lotta, il cui scopo ultimo è la conquista del potere politico da parte del proletariato e l'orga­nizzazione della società socialista... Non può esistere un solido Partito socialista senza una teoria rivoluzionaria" (23).
E' nel contesto della teoria rivoluzionaria che Lenin espone il suo pensiero sul rapporto guerra e rivoluzione. Lenin distingue guerra e guerra; un conto è la guerra 'imperialista' ed un altro è quella 'rivoluzionaria'. La prima è legata al concetto di Stato ed alla tendenza-sopraffazione di una nazione sul­l'altra. La seconda invece è costituita dalla coalizione del proleta­riato internazionale contro ogni classe dirigente, contro ogni Stato.

Qualche citazione: "Uno dei mezzi per gabbare la classe ope­raia è il pacifismo e la predicazione astratta della pace. In regime capitalistico, particolarmente nella fase imperialistica, le guerre sono inevitabili. D'altra parte i socialdemocratici non possono ne­gare il carattere positivo delle guerre rivoluzionarie e cioè, non delle guerre imperialiste, ma di quelle che si fecero, per esempio, dal 1789 al 1871 per abolire l'oppressione nazionale... oppure di quel­le che sono possibili per la difesa delle conquiste del proletariato nella lotta contro la borghesia... In particolare, l'idea che la cosid­detta pace democratica sia possibile senza una serie di rivoluzio­ni è profondamente errata" (24).
"Il marxismo non è pacifismo. Lottare per la più rapida ces­sazione della guerra è necessario. Ma solo con l'appello alla lotta rivoluzionaria, la rivendicazione della pace acquista un significato proletario. Senza una serie di rivoluzioni, la cosiddetta pace demo­cratica è un'utopia piccolo-borghese..." (25).
Come c'è guerra e guerra così esiste violenza e violenza.
"Parlare dunque di violenza in generale, senza l'analisi delle condizioni che distinguono la violenza reazionaria dalla violenza rivoluzionaria, significa essere un piccolo-borghese che rinnega la rivoluzione... La stessa cosa si può dire della violenza contro le na­zioni... Se un tedesco o un francese, dicono: ho il diritto e il do­vere, come socialista, di difendere la patria se il nemico invade il mio paese, questo non è il ragionamento di un socialista, di un internazionalista, di un proletario rivoluzionario, ma di un piccolo-borghese nazionalista. Perché in questo ragionamento scompare la lotta rivoluzionaria di classe degli operai contro il capitale..., scom­pare cioè l'internazionalismo… Il francese, il tedesco o l'italiano che dice: il socialismo si oppone alla violenza contro le nazioni, perciò io mi difendo quando il nemico ha invaso il mio paese, tradisce il socialismo e l'internazionalismo. Perché costui vede solo il suo 'paese'... Il socialista, il proletario rivoluzionario, l'internazionalista ragiona diversamente: il carattere della guerra (reazionaria o rivoluzionaria) dipende non da chi ha attaccato e dal paese occupa­to dal 'nemico', ma dalla classe che conduce la guerra, dalla politica di cui la guerra è la continuazione. Se la guerra è una guerra reazio­naria imperialista, cioè condotta da due gruppi mondiali della borghe­sia imperialista violentatrice, rapinatrice, reazionaria, ogni borghe­sia diviene complice del saccheggio, e il mio compito di rappresentan­te del proletariato reazionario è di preparare la rivoluzione prole­taria mondiale come unica salvezza dagli orrori della guerra mondiale. Non dal punto di vista del mio pae­se io devo ragionare (giacché questo è il ragionamento del piccolo-borghese nazionalista meschino e ottuso) ma dal punto di vista della mia partecipazione alla preparazione, alla propaganda, all'ac­celeramento della rivoluzione proletaria mondiale" (26).
Questa citazione è drammatica: prima viene il partito, l'inte­resse della rivoluzione, l'instaurazione della dittatura del proleta­riato, e dopo, solo dopo, l'interesse della propria patria, l'amore alla propria nazione.
Un'altra riflessione emerge. Non esiste un valore etico ogget­tivo: la guerra è sempre buona o sempre malvagia; ma solo un valore utilitaristico: la guerra, la violenza sono buone solo se in funzione della rivoluzione. E' la rivoluzione che si erge come nor­ma suprema dell'agire umano.
Questo principio fu sacralizzato dal Programma dei comunisti:
"La classe operaia non può giungere alla sua liberazione che mediante la rivoluzione, cioè abbattendo la potenza capitalistica, distruggendo lo Stato borghese. Ogni rivoluzione è violenza; quel­la di ottobre fu violenza degli operai, contadini e soldati contro la borghesia, ma una simile violenza, contro coloro che opprimono milioni e milioni di lavoratori, non è cosa cattiva, ma cosa sacra" (27).

Lenin si prese il compito di organizzare la rivoluzione. Aveva messo a fuoco gli ultimi preparativi; aveva dato le ultime istru­zioni con le tesi di aprile (28). Era riuscito a destituire il potere e ad impiantare i soviet; tuttavia la rivoluzione, simile ad un bambino appena nato, aveva bisogno di ossigeno. Lenin non poteva condur­re la guerra rivoluzionaria senza porre termine a quella imperialista. Fu costretto a trattare la pace affinché il "bambino" appe­na nato non fosse soffocato fin dal primo sorgere (29).
"Nella prima guerra mondiale la Russia, avendo dovuto so­stenere sacrifici che superavano le perdite di qualsiasi altra parte belligerante, non era più in grado di continuare la guerra. L'econo­mia del paese era in uno stato di sfacelo, l'esercito aveva di fatto perduto la sua capacità combattiva. Ma non fu solo questo ad im­porre la necessità della pace. La pace occorreva per consolidare le conquiste della rivoluzione proletaria, per consolidare un regime sociale nuovo, giusto" (30).
Così si ebbe la firma del trattato di Brest-Litovsk il 3 marzo 1918. Dal 1918 al 1921 in Russia fu impiantato il cosiddetto comu­nismo di guerra. Si tratta di uno dei periodi più neri della storia sovietica insieme a quello delle grandi purghe staliniane (1936-38).
"Per sei mesi il regime visse alla giornata. Poi l'addensarsi del­la tempesta della guerra civile e del collasso economico spinse il governo, nell'estate del 1918, a quella politica più drastica che suc­cessivamente fu battezzata col nome ambiguo di "comunismo di guerra" (31). Terribili furono la fame, le sofferenze, l'aumento della violenza (32).
Fu questo anche l'inizio dei campi di concentramento (Gulag): "Nell'aprile 1919, furono istituiti campi di lavoro per i condannati a questa forma di punizione dalla Ceka o dai tribunali ordinari... I più duri di questi campi, noti come "campi di con­centramento", furono riservati a chi aveva svolto attività contro­rivoluzionaria durante la guerra civile, e doveva essere assegnato a lavori particolarmente gravosi" (33).
Non più confortevoli sono i risultati di questa pace leninista se poniamo attenzione agli interventi di Lenin ed al suo epistolario.
Al IX Congresso del Partito Comunista (marzo 1920) così di­chiarò: "Ad ogni nostro passo in favore della pace dobbiamo, senza disarmare affatto il nostro esercito, tendere tutte le nostre forze per essere interamente pronti alla guerra" (34).
Significativa è anche la presa di posizione sulla pena di mor­te. Nelle bozze per il nuovo codice penale che il commissario per la giustizia D.I.Kurskij stava preparando, era inserito il seguente paragrafo: "5. Fino al ripristino di condizioni che garantiscano la sicurezza del potere sovietico da attacchi controrivoluzionari, ai tribunali della rivoluzione viene consentito il diritto di comminare come massima pena la condanna a morte per i delitti che rientrano sotto i par. 58, 59, 60, 61, 62 e 63". Nel correggere questa bozza, Lenin non si accontentò di comminare la pena di morte solo per i già citati par. ma ne aggiunse anche altri: 64, 65, 66, 67, 68, 69. Il ter­ribile par. 58, quello per i reati politici, era il più ampio: chiunque in base a questo famigerato par. 58 poteva essere imprigionato e condannato, come purtroppo la storia dimostra. Non soddisfatto, il 17 mag­gio 1922, Lenin il 17 maggio 1922 manda una lettera al Commissario per la Giustizia:
"Compagno Kurskij, ad integrazione del nostro colloquio vi invio l'abbozzo di un paragrafo supplementare (il 58 riveduto - N.d.A.) per il codice penale... L'idea fondamentale è chiara: porre in aperto risalto una tesi di principio giusta sui piano politico, motivante l'essenza e la giustificazione del terrore, la sua necessità, i suoi limiti. Il tribunale non deve eliminare il terrore; bisogna giu­stificarlo e legittimarlo sul piano dei princìpi, chiaramente, senza falsità e senza abbellimenti" (35).
Per comprendere meglio i contenuti della pace leninista è utile scorrere l'epistolario di questo periodo per captare il vero significato che Lenin intendeva dare a questa espressione.
"Compito del proletariato è di lottare per l'emancipazione sociali­sta del lavoro dal giogo della borghesia... Il secondo errore (nella Comune di Parigi) fu l'eccessiva magnanimità del proletariato: avreb­be dovuto sterminare i suoi nemici, e si sforzò invece di agire moralmente su di essi" (Gli insegnamenti della Comune di Parigi, 23 marzo 1908, in Opere, vol. XIII, p. 449).
"E' inutile lanciare un bel programma di pii desideri di pace se non si promuove nello stesso tempo e innanzi tutto la predicazione dell'organizzazione illegale e della guerra civile del proletariato contro la borghesia" (Ad Alessandra Kollontai, dic. 1914, Opere, vol. XXXV, p. 116).
"Noi non possiamo essere per la parola d'ordine della pace, poiché la consideriamo arciconfusa, pacifiste, piccolo-borghese, di aiuto ai governi e di ostacolo alla lotta rivoluzionaria" (ib., lug.1915, p. 129).
"E' necessario presentare subito, con rapidità esemplare, un proget­to di legge in forza del quale le pene per i reati di corruzioni (concussione, corruzione, gratifiche...) debbono essere non inferiori a dieci anni di carcere, anzi, di più, a dieci anni di lavori forzati" (A Kurski, 8 maggio 1918, Opere, vol. XXXV, p. 249).
"A Nizni evidentemente si prepara una rivolta di guardie bianche. Bisogna tendere tutte le forze, costituire un triunvirato, instaurare subito il terrore di massa, fucilare e portar via centinaia di prostitute, le quali ubriacano i soldati, gli ex-ufficiali, ecc. Neanche un minuto di indugio. Bisogna agire con la massima energia: perquisizioni in massa. Fucilazione per chi è in possesso di armi" (Al Soviet dei deputati di Nizni-Novgorod, 9 agosto 1918, Opere, vol. XXXV, p. 249).
"Bisogna reprimere con la massima energia, rapidità e implacabilità la rivolta dei kulak" (Al Comitato esecutivo del Governatorato di Penza, 10 agosto 1918, Opere, XXXV, p. 249).
"Approvo l'energica repressione dei kulak e delle guardie bianche del distretto. Occorre battere il ferro finché è caldo e senza perde­re un minuto... Impiccare i kulaki istigatori... Telegrafate esecuzione" (Ai Comitato esecutivo di Livny, 20 agosto 1918, Opere, XXXV, p. 252).
"Sono certo che la repressione dei cechi e delle guardie bianche di Kazan, nonché dei vampiri kulak loro sostenitori, sarà esemplare, implacabile" (Allo Stato Maggiore della V Armata, 7 settembre 1918, opere, XXXV, p. 254).
"Il ritardo nella repressione della rivolta è semplicemente scandaloso. Oggi ho letto lo notizia che la repressione segna il passo. Bisogna prendere le misure più energiche ed estirpare la lentezza… Dobbiamo mandare altre forze complementari dei cekisti? Telegrafate con maggior copia di particolari. Temporeggiare di fronte alla rivolta intollerabile" (Al Consiglio Militare Rivoluzionario del Fronte Me­ridionale, 9 maggio 1919, Opere, XXXV, p. 275).
"Non lasciatevi sfuggire il momento della vittoria su Grigoriev. Decretate ed attuate il completo disarmo della popolazione, fucilate inesorabilmente sul posto per ogni fucile nascosto" (Al Consiglio dei Commissari del Popolo dell'Ucraina, 26 maggio 1919, Opere, XXXV, p. 279).
"Mi congratulo per le vittorie. Bisogna prendere misure speciali: primo, per impedire che gli operai degli Urali portino via armi, affinché non si sviluppi fra di loro la tendenza esiziale di agire alla partigiana" (Al Consiglio Militare Rivoluzionario del Fronte Orientale, 19 luglio 1919, Opere, XXXV, p. 290).
Questa è la pace che la rivoluzione doveva portare con la cessazio­ne della guerra dopo il trattato di Brest-Litovsk (3 marzo 1918).
"La guerra civile del 1918-21 rappresenta per il paese - devastato non solo dalle scorrerie degli eserciti rossi e bianchi, ma anche dalle bande anarchiche (la guerriglia verde), dal terrore indiscriminato, dalle malattie e dalla fame - una prova assai più crudele della guerra zarista del 1914-17" (Enciclopedia Europea, v. URSS, vol. XI, p. 621).

1) H. Kelsen La teoria comunista del diritto, Milano 1981, p. 3.
2) Cfr. F. ENGELS, Antiduhring. Ed. Riuniti, Roma 1971, pp. 99-114, 171.
3) Ib. p. 159.
4) Lettera di K. Marx a 3. Weydemeyer, 5 marzo 1852, Opere Complete, Ed. Riuniti, Roma 1972, vol. XXXIX, p. 537.
5) K. MARX, La guerra civile in Francia, Prefazione di F. Enge1s, Rinascita, Roma 1947, p. 23.
6) K. MARX - F. ENGELS, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino 1950, p. 147 e 157.
7) F. ENGELS, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Newton Compton, Roma 1974. p. 204. Cfr. K. Marx, Critica del Programma di Gotha, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 57-66.
8) Cfr. AA. VV., Storia del marxismo, Einaudi, Torino 1978, vol. I, p. 277.
9) Cfr. la lettera di Engels a Lafargue, 24 marzo 1889 in Mew, vol. XXXVII, p. 171 e di Marx a Paul e Laura Lafargue, 5 marzo 1870, in Opere Complete, cit. vol. XLIII, p. 710
10) Lettera di Engels a E. Bernstein, 22-25 febbraio 1882, in Mew, vol. XXXV, p. 279.
11) Marx al Consiglio generale dell'Associazione internazionale dei lavoratori, 13 agosto 1867.
12) AA. VV., in Storia del marxismo, o.c., vol. Il, p. 898.
13) Cfr. Rapport du Congrès international ouvrier socialiste (Bruxelles 16-23 agosto 1891), Bruxelles 1893. p. 64-65.
14) Cfr. la mozione del Congresso internazionale operaio socialista di Pa­rigi, 14-21 luglio 1889, in Les Congrès internationaux. Ordres du jour et réso­lutions, a cura del Bsi, Gand 1902, p. 77.
15) Per l'esame di questi movimenti che hanno portato all'uccisione dello zar Alessandro Il, Cfr. A. B. ULAM, In nome del popolo, Garzanti, Milano 1978.
16) Vladimir Ilic Ulianov Lenin (1870-1924) perse il padre all'età di sedici anni. Questo avvenimento fu seguito (1887) da uno ancora più drammatico: la condanna del fratello Alessandro per cospirazione e tentato regicidio.
17) Cfr. R. PAYNE, Lenin, Della Volpe, Milano 1967, vol. I, pp. 25-30.
18) Ib., p. 31.
19) I. DEUTSCHER, Stalin, Longanesi, Milano 1965, p. 97.
20) Ib., p. 198.
21) LENIN, Stato e Rivoluzione, in Opere, Ed. Riuniti, vol. XXV, p. 376.
22) Ib., p. 378 s.
23) LENIN, Il nostro programma, in Opere, vol. IV, p. 212. E' interessante notare come Lenin non voleva le riforme zariste perché la loro attuazione gli avrebbe impedito la realizzazione della rivoluzione.
24) Intervento di Lenin alla Conferenza delle sezioni estere del POSDR,
25) Il socialismo e la guerra, in Opere, vol. XXI, p. 289 e 301.
26) LENIN, La rivoluzione proletaria ed il rinnegato Kautsky, in Opere, vol. XXVIII, pp. 290-292.
27) N. I. BUCHARIN, Il programma dei comunisti (bolschevichi), Ed. Avanti. Milano 1920, p. 21.
28) Aprile 1917, note come il Programma dei Bolscevichi; cfr. il testo in Opere, vol. XXIV, pp. 11-15.
29) Per l'evoluzione degli avvenimenti, cfr. J. REED, Dieci giorni che scon­volsero il mondo, Rizzoli, Milano 1980; N. STJCITANOV, Cronache della rivolu­zione russa. Ed. Riuniti, Roma 1967, vol. 2. Per una puntualizzazione: C. Hill, Lenin e la ri­voluzione russa, Einaudi, Torino 1974; R. Medvedev, La rivoluzione d'ottobre era ineluttabile?, Ed. Riuniti, Roma 1976; I. Deutscher, La rivoluzione incompiuta, Rizzoli, Milano 1980.
30) V. TRUKHANOVSKI, Il decreto sulla pace, Ed. Napoleone, Roma 1977, p. 14.
31) E. H. CARR, La rivoluzione russa, da Lenin a Stalin, Einaudi, Torino 1980.
32) Cfr. O. KERENSKIJ, I morti non parlano, Ed. Paoline, Roma 1977.
33) E. H. CARR, La rivoluzione russa, o.c., p. 32; cfr. anche la magistrale Opera Arcipelago GULAG di A. SOLZENICYN, vol. 3. A p. 19 del II vol. l'Autore scrive che i GULAG sono iniziati tra l'agosto ed il settembre 1918. Alla fine degli anni venti erano internate, secondo le statistiche ufficiali, 49.736 persone. L'Autore sostiene che le cifre ufficiali sono inferiori al­la realtà. Nell'ottobre 1923 gl'internati nei campi di concentramento e prigioni punitive erano 133.125. V.H. Chamberlin definisce questa fase: periodo del terrore, in Storia della rivoluzione russa, Einaudi, Torino 1966, p. 482 s.
34) LENIN, in Opere, vol. XXX, p. 410.
35) LENIN, in Opere, vol. XXXIII, p. 325. Cfr. M. S. VOSLENSKY, o.c., pp. 41-51.

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