L’ideologia è morta. Anzi, no
«Io odio la tirannia, la considero la sorgente di tutti i mali del genere umano». Se avesse ragione Rousseau, il male sarebbe colpa della società: addio al concetto di peccato originale. Ne parla l'intellettuale francese Alain Finkielkraut, invitato dal Centro Culturale di Milano- Autore:
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«Pur vivendo nel nostro mondo post-marxista e post-totalitario ho l’impressione, leggendo i giornali, di scontrarmi con l’ideologia» dice Alain Finkielkraut. Una presenza sottile, subliminale, della quale non ci accorgiamo, ma che ci condiziona a fondo. Nell’Occidente che ha rimosso l’idea di peccato originale, secondo il pensatore francese domina ancora incontrastata l’idea che un “delitto originale” presieda a tutte le nostre relazioni sociali. Di fronte a Saddam Hussein e all’11 settembre, di fronte al sionismo ma anche all’antisemitismo abbiamo un unico pensiero (che è il vero “pensiero unico” del nostro tempo): chercher le tyran. C’è sempre un “Hitler” pronto a diventare il capro espiatorio collettivo, e ad assolvere tutti dalle proprie responsabilità personali. Marx è morto insomma, ma Rousseau, il suo precettore, è vivo e vegeto e lotta insieme a noi.
Sala congressi della Fondazione Cariplo piena il 20 gennaio (2003 n.d.r) scorso a Milano per ascoltare Alain Finkielkraut, 53 anni, uno degli intellettuali più originali e più liberi del panorama europeo, invitato dal Centro culturale di Milano. «Un uomo che fa davvero il suo lavoro - come ha detto Rodolfo Casadei nel presentarlo -, capace di dimostrarsi leale verso la natura della ragione umana».
L’origine del male
Finkielkraut, intervistato in pubblico da Casadei, parla a tutto campo dell’attualità, ma ricorda che le grandi svolte sono sempre metafisiche. Ecco allora che tira fuori da un libro del 700 una frasetta di Jean Jacques Rousseau che ci tiene in scacco da tre secoli: «Io odio la tirannia, la considero la sorgente di tutti i mali del genere umano». È un modo - commenta - per dare al male un’origine non più naturale, ma storica. Il male, cioè, non è più colpa dell’uomo, bensì della società: «Rousseau ha collocato l’origine di tutte le perversioni, di tutti i delitti, nel fenomeno del dominio, nell’oppressione». Non c’è crollo del Muro che tenga, non c’è pessimismo di Hobbes che valga: l’uomo, per Rousseau, è una creatura pura, naturalmente “per bene”: la sorgente di ogni crimine è sempre fuori di lui. «Questo principio - dice Finkielkraut - ha alimentato certamente il marxismo, ma oggi è in grado di sopravvivergli».
L’altra caratteristica dell’ideologia che ci domina inavvertitamente è quella di spaccare il mondo in due, tra buoni e cattivi. Perché le vittime del tiranno sono “non imputabili” moralmente: «Nella storia, da un lato, ci sono coloro che agiscono, e che sono responsabili dei loro atti; dall’altro, coloro che reagiscono, innocenti per principio. Essi godono dell’immunità del prefisso “re-”», dice Finkielkraut, giocando sulla radice di quattro parole francesi che suonano quasi come in italiano: réaction, résistence, rébellion, révolte. «La sociologia oggi dominante non esce da questa distribuzione rousseauiana dei ruoli. Essa, con argomenti anche molto solidi, spiega le azioni umane attraverso il loro contesto, le circostanze». Ma con un’importante distinzione: i “perdenti” sono giustificati dalla condizione storica, i “tiranni” no.
Logica deformante
Ecco allora che avvenimenti come l’11 settembre o l’antisemitismo che riesplode in Europa vengono letti secondo una logica deformante. Fienkielkraut fa l’esempio delle Torri gemelle: «Un evento atroce, che ha lasciato tutti noi a bocca aperta, stupefatti. Si è trattato di qualcosa di irriducibile a ogni tentativo di spiegazione. Ma l’orrore non è durato che qualche giorno. Molto in fretta i commentatori hanno iniziato a dire che gli Stati Uniti erano vittima della propria superpotenza, che in qualche modo erano colpevoli di quanto era accaduto». L’ideologia - dice Finkielkraut - assorbe, cioè, il delitto reale nel delitto originale, «e in questo modo possiamo, ribaltando la situazione, fare delle vittime i colpevoli».
Un altro esempio è il riesplodere dell’antisemitismo in Francia: quando si scatena la violenza degli immigrati nelle periferie urbane - fa notare Finkielkraut -, se ne parla in termini sociologici e a tutto si dà una spiegazione. Ma quando i responsabili sono bande che possono essere qualificate come “razziste o fasciste”, si usa il linguaggio dell’indignazione morale. Il risultato è che non si capisce ciò che cova sotto la cenere: «I grandi giornali e le grandi istituzioni hanno rifiutato di prendere in considerazione l’ondata antisemita perché non poteva essere messa in conto a coloro che sono di principio accusabili dei loro atti, ma veniva al contrario da persone che reagiscono, che sono al tempo stesso delle vittime». Se a essere antisemiti, insomma, sono gli arabi, la loro non è una colpa perché sono poveri e sfruttati: «Il prefisso “re-” - dice Finkielkraut - è il prefisso dell’immunità».
L’antidoto
L’ideologia è l’incapacità di contare al di là del numero due. Se il mondo è fatto solo di “nazisti”, da un lato, e di “vittime”, dall’altro, paradossalmente, una volta assegnato il posto dei perseguitati ai palestinesi, «ecco che gli ebrei d’Israele, o i sionisti, finiscono per essere accusati di occupare esattamente il posto dei nazisti».
Qual è l’antidoto? Per Finkielkraut il difetto sta nell’idea di ragione: o essa pretende di dominare la realtà - e allora diventa ideologia - oppure resta in una posizione di maggiore apertura, impara a rispettare l’alterità del “dato”, di ciò che accade, e sa riconoscere i propri limiti. Finkielkraut invoca lo scrittore Robert Musil, ricordando il suo ironico “principio di ragione insufficiente”, che metteva un po’ di sabbia nel potente meccanismo della razionalità occidentale formalizzato da Libniz e portato al suo vertice da Hegel: «Leibniz, ricapitolando una grande tradizione metafisica, dice: “Nihil est sine ratione”, niente esiste al di fuori della ragione. Non si producono, cioè, avvenimenti, se non quelli che hanno valide ragioni per accadere. Il protagonista del libro di Musil L’uomo senza qualità, Ulrich, si chiede se non sia vero piuttosto il contrario, cioè che non si producono che fatti che non hanno ragioni sufficienti». Questa di Musil - dice Finkielkraut - è una splendida messa in guardia contro l’ideologia: «Quale che sia il suo orientamento politico, essa infatti consiste sempre nel voler sottomettere la realtà al “principio di ragione” senza lasciare niente al caso».
Serva del potere
Ridurre il reale a ciò che oggi siamo in grado di comprendere è la massima forma di irrazionalismo, che avvelena non solo la politica, ma anche la scienza, ridotta a serva del potere (scientia propter potentiam), con tutti i rischi, ecologici ed eugenetici del caso. E fa male anche alla giustizia: «Che siamo atei o credenti - dice Finkielkraut -, dovremmo essere d’accordo su questo: l’uomo non deve credersi Dio». Un tribunale penale internazionale che pretende di giudicare i crimini senza alcun limite di competenza territoriale né di tempo, «diventa una sorta di istanza divina». Le conseguenze rischiano di essere molto gravi. Per questo la più grande arte dell’uomo non può essere la giustizia, ma la politica: «Al diritto che si crede divino bisogna opporre una politica per l’umanità. Tra la proclamazione dei Diritti umani e una politica a favore dell’umanità, io scelgo quest’ultima».
Per Finkielkraut, solo un figlio ci potrà salvare. Consiglia di rileggere Hannah Arendt, che ha fatto della nascita il paradigma ontologico dell’evento, dell’avvenimento che spacca la misura della nostra ragione (qualcuno forse ricorda il libretto Il senso della nascita di Testori e Giussani?). La Arendt, riprendendo in chiave laica la formula biblica «un bambino per noi è nato», ne ha fatto il simbolo stesso del miracolo che sostiene ogni giorno l’esistenza. «Ma oggi - conclude Finkielkraut - avvertiamo che l’utopia ipermoderna sta avendo di gran lunga la meglio sui miracoli». Che la scienza si stia dando da fare per gestire proprio la nascita, per sottrarla alle pericolose incertezze della sessualità, forse non è un caso.