Tilde Manzotti, Una rosa sfogliata per amore

Autore:
Fra Simone Garavaglia
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Non è raro che la sofferenza divenga uno strumento di santificazione: un’oblazione costante attraverso cui si intraprende un cammino di immedesimazione a Cristo. Quella della laica domenicana e Serva di Dio Tilde Manzotti, in corso di beatificazione, è una storia in cui un cuore progressivamente infiammato da Cristo e, al contempo, un desiderio spassionato di offrire tutta sé stessa per un bene superiore, si intrecciano in un crescendo talvolta esemplare. Tracciando alcuni tratti della spiritualità di Tilde Manzotti non si può prescindere da un approccio contraddistinto dalla gradualità. È in tal modo infatti che l’iniziale desiderio di una libertà soprannaturale - accompagnato da un vuoto d’amore, non ben determinabile e talvolta ribelle -, si è evoluto nella consapevolezza che una risposta umana a tale bisogno sia insufficiente, per poi sfociare in una graduale conformazione al Cristo sofferente, oggetto della sua esigenza di Assoluto. Ciò attraverso la trasformazione di tutta la sua esistenza in obbedienza a Dio e amore verso il prossimo.

Tilde Manzotti

La sofferenza agli occhi del mondo è una battaglia, in cui si vince o si perde, e così fu anche per Tilde sino alla sua totale conversione. Quando, però, è proprio alla luce dell’esperienza della sofferenza che quel “li amò sino alla fine” (Gv 13,1) acquista un significato radicale, allora è la svolta. Tilde sperimentò questo mutamento di prospettiva nel momento in cui, lasciando in disparte quelle labili “certezze” umane, sconvolte sovente dalla sofferenza, l’azione della grazia iniziò a produrre frutti meravigliosi e, forse, inaspettati. Ecco che, allora, tutto viene trasformato in amore; il dolore, la malattia, finanche la morte divengono uno strumento di divinizzazione della propria umanità, attraverso cui conformarsi a Cristo, essere Figli nel figlio, “eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Rm 8,17). Non è iperbolico vedere nel dolore, vissuto cristianamente, un mezzo prediletto che deifica l’uomo (è la cosiddetta theosis che, come rilevano i Padri, si chiarisce non già sul piano ontologico ma nell’ottica di una intima comunione tra l’uomo e Dio, la cui condizione pare ravvisabile proprio nel Mistero dell’Incarnazione). La partecipazione alle sofferenze del Cristo diviene la modalità attraverso cui trasformare il dolore in sacrificio d’amore per Dio e per il prossimo; esso diviene allora non un itinerario di morte, ma di gloria e fecondità.

Nell’itinerario spirituale di Tilde Manzotti si scorge a chiare lettere la dinamica della Passione; dall’oblazione cruenta della Croce ne deriva che perfino l’esperienza del dolore, o della morte, diviene esperienza del Cristo risorto. Allora, si potrebbe obiettare, colui che crede non “sente” la sofferenza? È una domanda mal posta se espressa in questi termini, poiché l’approccio non deve essere la pretesa di un annullamento del dolore fisico, anzi, al contrario, l’incapacità della sofferenza di incidere sulla fiducia nell’amore di Dio. Ciò è quanto risulta chiaro nella vicenda di Tilde; dall’essere lottatrice solitaria e sconfortata dinanzi al persistere della malattia, inizia a maturare un desiderio d’amore in cui la sua anima tumultuosa potesse trovare riposo ed al contempo uno slancio verso un Assoluto apparentemente indecifrabile. Così giunge ad un incontro, le cui dinamiche segnarono indelebilmente la parabola umana e spirituale di Tilde.

A Covigliaio, nell’estate 1938 incontrò Fra Antonio Lupi, al tempo novizio domenicano. La fede del giovane frate contagiò Tilde e, di lì a poco, la prospettiva con cui guardare alla sua vita mutò, in modo irreversibile. Si può ben dire che la disposizione dell’anima di Tilde fu sempre duttile dinanzi all’azione della Grazia; in lei, anche inconsciamente, fu sempre viva, sin dall’inizio, l’apertura all’incontro con Dio. Attraverso il creato infatti, già dall’esperienza al sanatorio di Prasomaso, rimaneva meravigliata, poiché in esso scorgeva dei barlumi di soprannaturale, di trascendente. “Quando mi incantavo a guardare le foglie o i pioppi cercavo inconsciamente il Signore”: il creato diveniva uno strumento fruibile dalla creatura per contemplare il Creatore. In Tilde, in altri termini, nonostante la malinconia, la lontananza, il dolore fisico, l’aridità, non smise mai di risuonare un canto profondo di affidamento al Signore: “Sitivit in Te anima mea”! È una sete di Verità, una costante tensione verso la perfezione.
È in questo progressivo radicamento nell’Amore di Dio che allora si può intuire il senso del sacrificio di Tilde. Non bisogna pensare tuttavia che il desiderio di “amare infinitamente” sia stato soltanto un libero sfogo alla propria “natura di fuoco”; esso si sostanzia invece in un processo che vede Tilde non quale amante, ma amata. Prima di tutto essa ha percepito che quella malattia fosse una via attraverso cui Dio, che è Amore, le dimostrasse di amarla. Ecco, allora, che talune espressioni, quali ad esempio “graziosissima malattia”, ti ringrazio del dolore che mi mandi” oppure “dammi Signore il martirio del corpo e del cuore”, sebbene paiano a prima vista quasi ossimoriche, non debbono affatto stupire se lette nella prospettiva sopra espressa. A tal proposito, in una delle prime lettere indirizzata all’amica Saffo si inizia a scorgere quella disillusione affettiva che, in un terreno già ben dissodato, comportò dapprima la crisi di coscienza ed in seguito una costante conformazione al Cristo sofferente. Si legge: “Ama si vis amari, ma non ti sembra che nella vita sia facile amare e spesso difficile ‘amari’?”: Tilde inizia a percepire che in una vita cristianamente vissuta riveste una primaria e previa importanza il “cercare” rispetto al “donare”. Un donatore che prima non sia stato cercatore, non può donare nulla. Per poter amare abbiamo bisogno di essere colmi di un amore ricevuto, che ci pervade e ci spinge a fare di tale amore l’oggetto eminente di ogni nostra azione. Tilde ha sperimentato questo attraverso la sua malattia, nella ferita della quale ha iniziato a sentirsi amata ineffabilmente dal Padre; di qui la trasformazione di ogni istante di sofferenza in amore, ed in particolare nella forma più alta di esso che si possa ritrovare nell’uomo, ossia il sacrificio. Aspetto, quest’ultimo, che sperimentava ogni giorno in quello slancio sconfinato e travolgente verso la donazione totale che le conferiva l’Eucaristia.

È alla luce di tali considerazioni che paiono spiegarsi il voto di abbandono e, in seguito, di vittima, pronunciati, da Tilde nelle mani del suo padre spirituale, domenicano, p. Stefano Lenzetti. Con quale veemenza risuonano allora le parole del diario di Tilde sul punto. Il 30 ottobre 1938 scrive: “Io mi offro oggi a Te Vittima in olocausto di amore e sacrificio. Sia da ora in poi un nulla per gli altri e gli altri siano un nulla per me. Tu, il Tuo Amore, la Tua gloria siano tutto per me […] bruciami sempre più del Tuo Amore. Perché quest’Amore trionfi in me e nelle anime io mi offro, o Signore; […] Accetta, Signore Gesù Dio Mio, la mia offerta; lavorami con le tue mani a fuoco e sangue. In Te mi abbandono. […] Gesù Crocifisso mi insegni la via dell’amore”. Tilde condivide con il suo caro confidente fr. Antonio Lupi un’insaziabile “sete d’anime”, entrambi offrono sé stessi, due olocausti: l’una nella sofferenza, l’altro nella vita religiosa, entrambi vivendo un progressivo abbandono alla volontà di Dio.
Un simile itinerario di donazione, in un amore ricercato e poi offerto a tal punto da donare sé stessi, cosa può comunicare oggi? Partire dalla giovinezza e dalla dolce ed infuocata modalità di maturazione nell’Amore di Tilde potrebbero fornire una chiave di lettura plausibile. Nell’esortazione apostolica post-sinodale Christus Vivit, con una terminologia quanto mai suggestiva, i giovani vengono definiti “l’adesso di Dio”, quasi a rimarcare la loro preziosità nella Chiesa, la sfolgorante capacità di sognare, una sana inquietudine all’interno della quale si nascondono le ali della libertà, il senso di meraviglia dinanzi alle novità: tutti elementi essenziali per una vita in Cristo e massimamente presenti nella giovinezza. Eppure, nonostante la potenzialità di tali tesori, nonostante le amicizie instaurate ed il sentirsi parte di un “gruppo” - spesso a seguito di un’annientante standardizzazione -, si percepisce un senso particolare di “vuoto”; specifico, sì, ma indecifrabile.


Fra Simone Garavaglia