Frate Marco tra Vienna e i Turchi
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Nel cuore degli europei dorme un desiderio che nessuna distrazione riesce a domare del tutto. Anche se l'ormai famigerato Preambolo della Costituzione europea si avvia a vedere la luce privo di un serio riferimento al Dio rivelato da Cristo, e anche se presto la questione verrà dimenticata o travolta da nuovi interrogativi ancor più incalzanti.
Ma il fatto resta. Cioè resta il fatto che nell'intimo di tantissimi, tra i 700 milioni di abitanti "europei", la domanda sia stata posta, e la domanda fosse: c'è ancora posto?
Dalla cortina di silenzio che ronza da settimane dentro le alte sfere dell'intellighenzia dell'Europa laicista, direi di sì; c'è ancora posto per porre la questione. Ovvero la domanda, che contemporaneamente ognuno rivolge a se stesso, circa lo spazio da tributare al desiderio d'infinito, nello stretto e serrato mosaico d'impegni che stringe la cassaforma delle nostre vite, oggi.
La cultura europea degli ultimi venticinque anni ha fallito nel suo intento perché non è stata in grado di dare un nome preciso a quel desiderio preciso, a quella voglia di qualcosa di più che agita, e si agita, sì, persino nel grigio operoso delle metropoli continentali contemporanee. Mentre, nel contempo, un uomo, un europeo, polacco, nel momento stesso in cui acconsentiva a vedere il nome di quella forza che dal centro dell'animo ci fa vivere la vita, quell'uomo accettava di pronunciare e annunciare agli altri europei (e non solo: 101 viaggi in tutto il mondo) quel nome: la vita porta il nome, e il volto, di Gesù Cristo.
Questa non è, storicisticamente, soltanto la radice della storia europea: è il suo destino. Cioè un senso, che la sociologia, la politica, l'economia, le altre discipline umane percepiscono in vario modo, attraverso i loro linguaggi e mediante i loro strumenti: è come un vago ronzio di fondo che non lascia tranquilli, che non fa tornare i conti, che inficia la geometrica nettezza dei progetti architettati senza tener conto di lei.
E la storia europea, infine, non è conosciuta. Non è stata ascoltata né da quanti avrebbero dovuto raccontarla né da quelli che avrebbero voluto ascoltarla. Prendo ad esempio la storia di frate Marco d'Aviano, poiché beatificato lo scorso 27 aprile, ci offre di nuovo il suo volto: non l'avevamo mai visto. Ignoravamo quella luce nei suoi scuri occhi di friulano, ignoravamo la commozione delle folle (tedeschi, austriaci, italiani…) che hanno pregato con lui, ignoravamo i miracoli, gli imperatori convertiti, le battaglie coi musulmani e i segni pieni d'umiltà.
Oggi possiamo ascoltare, raccontare a noi stessi per poi raccontarlo a quanti attorno a noi hanno sete, un capitolo pieno d'amore, uno dei tanti nella storia cristiana d'Europa. Leggiamo almeno Beato Marco d'Aviano di Arturo Basso (Edizioni Messaggero Padova, 2003) e il romanzo di Carlo Sgorlon Il taumaturgo e l'imperatore (Mondadori, 2003). Entrando in un'epoca di crisi e di contraddizione, quale fu la fine del seicento, usciremo dalle futili polemiche su quel dettato costituzionale comunitario che, dal momento che nasce mutilo e acefalo, nasce senza vita: lettera morta.
Ma molti segni luminosi ci fanno pensare che altri piccoli figli spirituali di frate Marco, in modi diversi e in ambiti differenti, stanno raccogliendo il suo antico invito a servire la vita nella verità.