Maria nel teatro 2 - Da Claudel a Diego Fabbri

Autore:
Tarallo, Antonio
Fonte:
CulturaCattolica.it
Vai a "Culto di Maria"

“Dietro le quinte di Maria”/ Seconda puntata

Eccoci ritornati in sala, dopo una breve pausa dal precedente atto…pardon, volevo dire puntata! Qualcuno ancora indugia sotto il porticato del teatro. Sta commentando l’ultima scena: la “Donna de Paradiso” di Jacopone da Todi ancora riecheggia nella memoria. Ma ora, facciamo un piccolo salto di qualche secolo, ed ecco riaprirsi il sipario. Luci sulla scena. Entra in scena una ragazza, Violaine, una giovane di fede profonda e gioiosa. Abbraccia, con impeto, Pierre de Craon, costruttore di cattedrali. A coglierla di sorpresa è la sorella, Mara. Pierre è lebbroso e il suo bacio contamina la giovane che è costretta a cedere il fidanzato Giacomo a Mara e ad allontanarsi da casa. Mara e Giacomo hanno una figlia che muore e nel momento del dolore Mara torna da Violaine, ormai cieca e ridotta allo stremo. Sa che può domandare tutto a Dio. Il piccolo cadavere nelle braccia di Violaine rivive e Mara, gelosa, spinge sotto un carro la sorella che muore. Storia interessante, ben scritta. Non c’è che dire!
Ma Maria? Dov’è Maria in tutto questo? Questa vicenda, a una prima lettura, potrebbe sembrare poco inerente alla Madre di Gesù, è vero! Invece – e non è un caso che questo testo del poeta Paul Claudel, abbia per titolo L’annuncio a Maria (1912) – condensa, per metafora, la missione della Madonna. Ogni essere umano vive nel mondo per volontà di Dio che ha affidato ad ognuno un compito specifico ma che concorre all'armonia del Creato. L'annuncio dell'angelo fu il segno concreto della Sua chiamata, della Sua missione nel mondo che avrebbe non solo sconvolto la sua vita ma cambiato radicalmente le sorti dell'umanità intera. Così avviene per la protagonista Violaine che diviene strumento di Vita, di Nuova Vita. E’ la stessa Nuova Vita che Maria darà al Mondo. La vittoria del Bene sul Male, la Luce sulle tenebre.
Negli anni ’50 comparve nel panorama teatrale italiano un testo che fece scandalo forse per aver precorso troppo i tempi del Concilio Vaticano II, tanto da essere denunciato al Santo Uffizio per offesa alla religione. Si tratta del Processo a Gesù (1955) di Diego Fabbri. Scrittore assai prolifico nelle tematiche religiose – prendendo spunto da un incontro tenutosi a Gerusalemme (1933) di alcuni giuristi anglosassoni riunitisi per un “neoprocesso” a Cristo – volle imbattersi drammaturgicamente nelle “carte processuali” dell’Imputato, con tanto di testimoni. Fra quest’ultimi non poteva mancare Maria di Nazareth che viene chiamata a testimoniare, ovviamente, a favore del figlio. Lo scrittore emiliano illustrando il personaggio, evidenzia la sua “doppia natura”: umana e divina. Questa viene analizzata – con sottigliezza psicologica – in un nodo fondamentale della vita di Maria in relazione a Gesù, un nodo che non ci è mai stato spiegato del tutto e che, quindi, rientra in quel Mistero che i testi evangelici sintetizzano in poche, pochissime parole: “E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc. 2,51-52). E’ il Mistero della Sua vita prima dei trent’anni, quando lascerà poi la casa per farsi portatore del Messaggio Cristiano, anzi per fare sé stesso Messaggio Cristiano nel mondo. Fabbri, in un breve monologo che concede all’attrice che impersona Maria, tocca questo argomento con intensa umanità, ma – al contempo – con “ottica divina”. E’ davvero affascinante come la sua scrittura possa entrare con facilità negli animi degli spettatori, sfiorando le corde più profonde della donna Maria. Ne parla con semplicità, con la semplicità del cuore di una madre. Ma ora, mi sembra giusto rimanere in silenzio, per un attimo. Si accende un riflettore sulle sue parole, fuoriescono con tutta la loro sonorità illuminante…eccezionale! “Perché, vedete, quel che forse si stenta a capire, a credere è che nonostante quei segni meravigliosi (…), lui, per me, continuava ad essere un figlio vero, reale, proprio come può essere l’unico figlio di una madre qualunque. Io ve lo voglio proprio confidare: nonostante quei segni eccezionali, ci fu un momento in cui pensai che Gesù fosse un figlio come tutti. Ero in questo stato di materna soddisfazione, quando Gesù, un giorno, interrompendo un lavoro, mi dice: «Mamma, tessi una tunica nuova per me. Presto dovrò partire, e mi piace fare il viaggio con una nuova tunica rossa». Il tremore che mi diedero quelle poche, semplici parole fu più forte di quello che provai — fanciulla — alle parole e alla vista dell’Angelo Annunciatore. Non ebbi fiato per rispondere. Perché avevo capito. Capito tutto. Partiva. E quel giorno, quando si chiuse alle spalle la porta di casa, e sparì sotto, nel sentiero che scendeva, io piansi”.
Un pianto che incontreremo in un’altra scena evangelica, in un altro testo teatrale che – come il Processo – destò non poco sconcerto alla sua uscita nel 1969. Si tratta di Maria sotto la Croce, monologo scritto da Dario Fo e recitato da sua moglie, Franca Rame. Questo testo fa parte della ormai famosa opera teatrale “Mistero Buffo”, un insieme di monologhi che descrivono alcuni episodi ispirati ai racconti popolari sulla vita di Gesù e ai vangeli apocrifi. Maria sotto la Croce, è un intenso monologo in cui troviamo Maria nel suo struggimento per la visione del figlio sulla Croce, tanto da spingerla a prendere una scala per portarlo via con sé, evitargli la sofferenza “non meritata”. Denso di umanità, scritto in un linguaggio “inventato”
(il “grammelot”, una variegata miscela di lingue locali padane), vive di una sonorità tutta particolare che trasmette una “musicale” drammaticità esasperata. Maria, santa nel dolore, diventa una fiera popolana che vuole riappropriarsi del figlio: “Sfida” le tre donne (Giovanna, Amelia e Veronica) che cercano di preservarla dall’immagine della Croce, “sfida” un soldato che vorrebbe scaraventarla giù dalla scala su cui è salita, per poi provare addirittura a corromperlo per ottenere una tenaglia per “stciodàl, purtal a ca’ cun mi (per schiodarlo, per portarlo a casa con me)” e in ultimo – ed è questa la grande originalità e drammaticità dell’opera – “sfida” l’angelo Gabriele. Un’invettiva che potrebbe sembrare blasfema, oserei dire, ma a una attenta lettura rende ancora più umano quel dolore provato da Maria. Sentiamo: “Ti no’ t’è abituat, Gabriel…che in d’ol paradiso no’ ghai nì rumor, nì lplàngi, né guère, nì presòn, nì òmeni impicàdi, nì done violàde! No’ ghè nì fam, nì carestia….” Perfetta e più che cristiana, direi, descrizione del Paradiso!
E ora, è più che doveroso uno sguardo al contemporaneo. Anima errante di Roberto Cavosi (2013). La protagonista della storia è Sara, una donna di Seveso, felicemente sposata che aspetta un figlio. Si trova a vivere un dramma nazionale che diverrà personale: nel 1976 un guasto alla ciminiera di una fabbrica chimica a Seveso causa la fuoriuscita di una nube di diossina. Quella nube cambierà la sua vita. La donna, in stato di gravidanza non sa cosa fare. Nessuno, all’epoca, conosceva esattamente quali fossero le conseguenze della diossina per il feto, né c'erano analisi in grado di capire le reali condizioni fisiche del bambino. In Anima errante la protagonista coglie il senso della vita attraverso un'accettazione subliminale della morte, in una identificazione con la stessa Beata Vergine che le appare mostrandole il calvario sul Golgota e la induce a riflettere sulla sofferenza delle madri che vedono i propri figli morire. Sempre nel 2013 Maria approda sul palcoscenico anche come musical.
Eccomi sono qui, di Francesco Miceli (Autore e Regista), Michele Albano (Co-autore) Corrado Sillitti (Compositore) e le coreografie di Nadia Mancuso. La storia, semplice, è quella di Maria che si dipana nel Vangelo. Quasi cinquanta le persone coinvolte in questa produzione, dove la musica rock e quella classica si fondono per dare vita a uno spettacolo del tutto particolare.
Con questo musical, si chiude il sipario di queste due puntate dedicate al “teatro di Maria”. Con note e danze, con la musica. E, allora, ci piace immaginarla danzare, danzare…danzare in Galilea, o su un palcoscenico, o – come fa ogni giorno – nelle nostre vite. Viene in mente, così, la poetica e bella immagine che Don Tonino Bello ha dato di Lei: “Che Maria fosse esperta di danza sta a dircelo una parola-spia, presente nel suo vocabolario: 'esultare'. Viene dal latino ex-saltare, che significa appunto: saltellare qua e là. Sicché, quando lei esclama: «il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore», ci fa sospettare che il Magnificat deve averlo cantato danzando”.
E mentre Lei danza, forse già qualche altro autore, “spiandola” dal segreto dell’anima, starà prendendo spunto per qualche altro testo teatrale.
Lasciamo, a questo punto, il sipario…semiaperto! Non lo chiudiamo del tutto. Sempre pronto a riaprirsi…