8 dicembre: Immacolata Concezione
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Anno 1617: l’università di Granata (seguita da quelle spagnole e italiane) è la prima ad emettere il “votus sanguinis”, il giuramento, cioè, di difendere l’Immacolata Concezione fino all’effusione del sangue.
Questo evento rappresenta forse, il culmine della lunga vicenda storica che accompagnò la proclamazione del dogma dell’Immacolata, da parte di Pio IX, l’8 dicembre del 1854. Una vicenda per certi aspetti affascinante perché vide “battersi” in un confronto serrato il “sensus fidei” del popolo e la riflessione prudente del magistero. La tradizione ebbe la meglio anzi, fu essa a dare maggior garanzie di solidità a questo dogma tanto discusso da teologi e biblisti.
Non vogliamo qui addentrarci nell’interessante e faticoso dibattito che, avviato da Agostino con una sua famosa - quanto ambigua - espressione: “Non consegniamo Maria al diavolo per la condizione della sua nascita (questa era l’accusa), ma perché (e questa è la risposta) la condizione della nascita viene tolta dalla grazia della rinascita”, si concluse (per modo di dire) con la bolla Ineffabilis Deus di Pio IX: “la dottrina, la quale ritiene che la beatissima vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente ed in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere umano, sia stata preservata da ogni macchia della colpa originale, è rivelata da Dio e perciò da credersi fermamente e costantemente da tutti i fedeli.” Vogliamo soffermarci invece sul prezioso “sentire” della tradizione che ha creduto prima ancora di “vedere” i fondamenti scritturistici e teologici e ha saputo arricchire il futuro dogma di simboli e rimandi preziosi.
Il Barocco spagnolo è certamente un interprete autorevole di questa tradizione viva della fede popolare: chi non conosce almeno una delle 25 tele di Murillo sulla Immacolata Concezione?
Prima ancora di Murillo, Velasquez e Zurbarán diedero voce e forma al movimento promozionale del dogma mariano di quanti praticavano il cosiddetto “voto del sangue”.
Dei tre, forse il meno noto, ma non meno ricco di fede è l’artista, conterraneo e contemporaneo di Murillo, Zurbarán.
Francisco Zurbarán per il suo “naturalismo tenebrista” venne chiamato il “Caravaggio spagnolo”. Nato a Fuentes de Cantos, Estremadura, il 7 settembre del 1598, si recò sedicenne a lavorare presso un pittore Sivigliano di nome Pedro Diaz de Villanueva. Non ebbe tuttavia veri maestri, la sua formazione avvenne in maniera del tutto autonoma. Fu, oltre che ammiratore, grande amico di Velasquez, suo coetaneo. Dal 1617 Francisco si trova a capo di una fiorente bottega a Llerena, qui dipinse le ventuno tele per il convento di San Pablo el Real a Siviglia che gli procurarono una certa notorietà. In un’epoca in cui i grandi ordini religiosi solevano glorificare la loro storia con cicli di pitture, Zurbarán ricevette le ordinazioni più importanti e acquistò fama di grande pittore; fu soprannominato il “pittore dei frati” a causa dei numerosi ritratti di monaci in tutti gli ambiti della loro vita pratica e spirituale presenti nella sua produzione artistica. Chiamato a Siviglia nel 1629 per voto unanime della municipalità in forza del successo e della fama, Zurbarán divenne in breve l’interprete di una spiritualità austera e drammatica lavorando principalmente per i potenti ordini monastici dei certosini, trinitari, gesuiti, geronimiti e francescani. Sono di questi anni le Storie di San Bonaventura per il Collegio Francescano, la Visione della Gerusalemme celeste e l’Apparizione di San Pietro crocifisso a San Pietro Nolasco.
Provato dalla sofferenza - vedovo due volte vide morire di peste la maggior parte dei suoi numerosi figli - negli ultimi anni della sua vita entrò in una cristi profonda. Dal quinto decennio del secolo, infatti, l’attività di Zurbarán sembrò flettersi in un clima devozionale mutato e dipendere dalla crescente fama di Murillo. Influenzato certamente dalle opere di quest’ultimo la sua arte si fece più delicata e intima, incline allo sfumato e alla pennellata morbida, ma perse un poco del suo vigore iniziale. In quel periodo l’artista accettò molte commissioni provenienti dai conventi dell’America latina (dove giungerà anche la Cena in Emmaus, firmata e datata 1639, Città del Messico, Museo Nazionale, qui esposta) ripetendo sovente gli schemi iconografici delle opere precedenti. Tra queste andò irrimediabilmente perduto, perché rovinato durante un festino di bordo, un ciclo di tele sulla Vergine Maria.
Farcisco muore a Madrid il 27 agosto 1664 lascia, dei nove figli nati da tre matrimoni, solo due figlie.
Di questo artista, profondamente immedesimato nelle pratiche dell’ascetica e della mistica vogliamo contemplare una delle sue sull’Immacolata Concezione, quella che si trova oggi nel Museo Diocesano di Sigüenza (Siviglia).
Secondo le regole dettate dal Pacheco, la Vergine Immacolata doveva essere dipinta come una giovinetta di dodici, tredici anni, avere i capelli rossi sciolti sulle spalle, una tunica rosa con manto azzurro, la corona di dodici stelle sul capo e una falce di luna sotto i suoi piedi. Zurbarán così l’aveva dipinta attorno al 1630 in una tela conservata ora al Museo del Prado.
La tela di Sigüenza, che non reca data, ma pare essere di quello stesso periodo, presenta alcune varianti rispetto a questo canone.
Nell’ampio cielo notturno la Vergine giovanissima e bianco vestita risplende sospesa a mezz’aria come una celeste apparizione. “Signore, la tua grazia è nel cielo” cantava l’antico salmista! (Sal. 36, 6) Quella grazia che è nel cielo, quella grazia che “vale più della vita” (Sal. 63, 4) è presente nella Vergine di Nazaret, salutata dall’Angelo come la “piena di grazia”.
Maria è la donna del principio e della fine.
In una delle molteplici versioni dell’Immacolata Zurbarán ha dipinto, sotto la luna posta ai piedi della Vergine, l’antico serpente con il pomo tra le fauci. Come Eva uscì pura dal costato di Adamo, così Maria uscì intatta dalle mani di Dio: redenta in anticipo in vista dei meriti di Gesù Cristo, in vista della sua missione di Madre del Redentore, ella ricevette per prima tutto ciò che a noi sarebbe venuto dalla passione, morte e risurrezione di Cristo. Ora, come la donna dell’apocalisse, veglia nel deserto dei secoli fino a che il corpo di Cristo, la Chiesa, non venga pienamente alla luce raggiungendo la sua perfetta maturità in Cristo.
Il volto dipinto dal pittore di Fuentes nella tela di Sigüenza è quello di una bimbetta. Zurburàn più tardi, in un’altra sua Virgen niña, realizzerà il volto di Maria prendendo a modello quello della figlioletta Manuela che all’epoca aveva sette anni. Il successo di questo ritratto sarà tale da influenzare le successive opere sull’Immacolata, in particolare le versioni dello stesso Murillo.
Nella tela di Sigüenza i capelli rossi, prescritti da Pacheco, si sono fatti scuri e incorniciano un volto candido di incomparabile bellezza.
Maria è la sposa del Cantico dei Cantici, nera ma bella, che si leva terribile come un vessillo spiegato, salda come torre d’avorio e leggiadra come una colomba. Fissando questa fanciulla orante, il cui sguardo pietoso accarezza il profilo della città che si stende sotto ai suoi piedi, l’osservatore si sente ricolmare di sentimenti di pace e soavità e l’animo è mosso a desiderare l’innocenza perduta.
Le virtù di Maria sono narrate dagli attributi abilmente confusi tra cielo e nubi. Maria è la Porta del cielo per ogni credente; è la stella mattutina alla quale guarda colui che si è smarrito nelle tenebre del proprio cuore; è lo specchio senza macchia dell’Amore di Dio; è la scala di Giacobbe che rende familiari uomini e angeli. Lei - del resto- degli angeli è Regina. Tra le nubi se ne scorgono a decine: l’attorniano, le gonfiano il manto di seta: sono i putti. Sono anch’essi il segno di quell’innocenza perduta che vive nel cuore dell’uomo come perenne nostalgia. Alcuni di questi putti - semi nascosti dal manto di Maria, scrutano l’orizzonte terreste.
Siviglia giace addormentata, vive nelle tenebre e non lo sa, la vita della sua gente è esposta alle procelle della storia, ma ignora quanto sia vicino il porto di salvezza. È una città precisa, ma che scolora sotto l’ispirazione dell’artista animato dalla fede: l’intero panorama è una parabola del potente patrocinio di Maria aperto ad ogni uomo, ad ogni città. È lei il porto della Salute è lei il Perpetuo soccorso ai naviganti della Storia. Avvolti nell’oscurità si scorgono la fonte su un selciato a forma di croce, il pozzo, il cedro, il cipresso, la palma, la città murata, la torre: sono tutti simboli che descrivono le virtù di Maria, che la incastonano dentro la sapienza antica dell’unica Parola che salva.
Ella che ha saputo attendere con vigilante fedeltà l’atteso dalle genti, incarna l’attesa di tutta l’umanità. Lei che si preparava nel silenzio del cuore all’avvento del Messia era la preparata da Dio nella notte dei tempi, scelta non all’ultimo momento o per caso, ma quale “termine fisso d’eterno consiglio”.