Agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
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«Ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto. Lo è innanzitutto nel senso che cerchiamo così di portare avanti le nostre speranze, più piccole o più grandi: risolvere questo o quell’altro compito per l’ulteriore cammino della nostra vita è importante; col nostro impegno dare un contributo affinché il mondo diventi un po’ più luminoso e umano e così si aprano le porte verso il futuro. Ma l’impegno quotidiano per la prosecuzione della nostra vita e per il futuro dell’insieme ci stanca o si muta in fanatismo, se non ci illumina la luce di quella grande speranza che non può essere distrutta neppure da insuccessi nel piccolo o dal fallimento in vicende di portata storica. Se non possiamo sperare più di quanto è effettivamente raggiungibile di volta in volta e di quanto di sperabile le autorità politiche ed economiche ci offrono, la nostra vita si riduce ben presto ad essere priva di speranza. E’ importante sapere: io posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita e per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più nulla da sperare. Solo la grande speranza - certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite dal potere indistruttibile dell’Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e un’importanza, solo una tale speranza può in quel caso dare ancora il coraggio di operare e di proseguire» [SS. n. 35].

Dopo tanti tentativi della modernità falliti anche l’autocritica ci porta a dire che non possiamo “costruire” il regno di Dio con le nostre forze, né solo con le pur preziose scoperte scientifiche, né solo con la cultura, né solo con la politica, né solo con l’economia - ciò che costruiamo rimane sempre regno dell’uomo con tutti i limiti che sono propri della natura umana e il nostro io originariamente tende all’infinito. IL regno, la sovranità di Dio è un dono, e proprio per questo è grande e bello e costituisce la risposta a quella speranza che Dio stesso ha posto come tensione in ogni cuore. Solo questa speranza donata è una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un po’ o tanto faticoso e può essere vissuto a accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Non possiamo “meritare” il cielo con le nostre opere. Esso è sempre più di quello che meritiamo, così come l’essere amati senza misura, fino al perdono non è mai una cosa “meritata”, ma sempre in dono. E tuttavia, con tutta la nostra consapevolezza del “plusvalore” del cielo, rimane anche sempre vero che il nostro agire non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia. Possiamo aprire noi stessi e il mondo all’ingresso continuo di Dio: della verità, dell’amore, del bene con la sola forza della verità dell’amore, del bene. E’ quanto hanno fatto i santi che, “collaboratori di Dio”, hanno contribuito alla salvezza, alla redenzione del mondo in forza della quale ci è stata donata la speranza, una speranza veramente affidabile. ((1 Cor 3,9; 1 Ts 3,2).
Possiamo liberare la nostra vita e quindi il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro. Possiamo scoprire e tenere pulite le fonti della creazione e così, insieme con la creazione che ci precede come dono, fare ciò che è giusto secondo le sue intrinseche esigenze e la sua finalità: è questa la vera impostazione etico- morale. E ciò conserva un senso anche se, per quel che appare, non abbiamo successo o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili. Così, per un verso, dal nostro operare scaturisce speranza per noi e per gli altri; allo stesso tempo, però, è la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che, nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro agire.


Come l’agire, anche la sofferenza fa parte dell’esistenza umana ed è luogo di apprendimento della speranza
La sofferenza deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall’altra, dalla massa di colpa dell’uomo e del Maligno che, nel corso della storia, si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell’amore che rientrano nelle esigenze fondamentali dell’esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana. Nella lotta contro il dolore fisico si è riesciti a fare grandi progressi; la sofferenza degli innocenti e anche le sofferenze psichiche sono, però, piuttosto aumentate nel corso degli ultimi decenni. Sì, dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità - semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, del Maligno, della colpa che - lo vediamo - è continuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio da cui viene solo il bene: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo in tutto uguale a noi tranne che nel peccato e soffre in essa, è tentato. Noi sappiamo che questo Dio c’è e che perciò questo potere che “toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29) e, vittorioso su Satana, libera dal negativo malefico è presente nel mondo e tutti vi possono accedere. Con la fede nell’esistenza di questo potere accessibile nella preghiera e nell’azione, è emersa la speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di un cammino continuo di speranza e non ancora di compimento; speranza, fiducia che ci dà il coraggio di metterci dalla parte del bene anche là dove la cosa sembra senza speranza, nella consapevolezza che, stando allo svolgimento della storia così come appare all’esterno, il potere della colpa e del Maligno rimane anche nel futuro una presenza terribile che richiede continuamente “redenzione”, “guarigione”, “liberazione”, “salvezza” che, secondo la fede cristiana confermata dall’esperienza storica, non è un dato di fatto ma sempre un avvenimento di grazia.
Possiamo e quindi dobbiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo cadere nella illusione di eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l’oscura sensazione disperata della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione inevitabile e in essa maturare, trovare senso mediante l’unione con la Persona di Gesù Cristo, che nella sua fase terrena ha sofferto con infinito amore e Risorto ci sta accanto, ci aiuta perché non soccombiamo nella disperazione. Il Papa riporta alcune frasi di una lettera del martire vietnamita Paolo Le - Bao - Thin (+ 1857), nelle quali diventa evidente questa trasformazione della sofferenza mediante la forza della speranza che proviene dalla fede, l’equivalente della speranza. “Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna è la sua misericordia. Questo carcere è davvero un’immagine dell’inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni si aggiunge infine angoscia e tristezza. Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna è la sua misericordia. In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me…Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiavano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini e i Serafini? Ecco, la tua croce è calpestata ai piedi dei pagani! Dov’è la tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell’ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore. Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza sia manifestata la tua forza davanti alle genti…Fratelli carissimi, nell’ udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna è la sua misericordia…Vi scrivo tutto questo, perché la vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta, getto l’ancora fino al trono di Dio: speranza viva, che è nel mio cuore”. Il Papa osserva che questa è una lettera dall’“inferno”. Si palesa tutto l’orrore di un campo di concentramento, in cui ai tormenti da parte dei tiranni s’aggiunge lo scatenamento del male nelle stesse vittime che, in questo modo, diventano pure esse strumenti della crudeltà degli aguzzini. La sofferenza e i tormenti restano terribili e quasi insopportabili. E’ sorta, tuttavia, la stella di quella speranza affidabile, l’ancora del cuore che giunge fino al trono di Dio, in virtù della quale si può affrontare anche un presente faticoso che può essere vissuto ed accettato in vista di una meta sicura. Non viene scatenato il male nell’uomo, ma vince la luce: la sofferenza - senza cessare di essere sofferenza - diventa nonostante tutto canto di lode.

La misura dell’umanità si determina essenzialmente dal rapporto con la sofferenza e il sofferente
Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com - passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele, disperata e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d’altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell’altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l’altro che soffre significa, infatti assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un Altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore e quindi della speranza.

Elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso
Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente. Ne siamo capaci? E’ l’altro sufficientemente importante, perché per lui io diventi una persona che soffre? E’ per me la verità tanto importante da ripagare la sofferenza? E’ così grande la promessa dell’amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede cristiana, nella storia dell’umanità, spetta proprio questo merito di aver suscitato nell’uomo in maniera nuova e a una profondità nuova la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità. La fede cristiana ci ha mostrato che verità, giustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma realtà di grandissima densità. Ci ha mostrato, infatti, che Dio - la Verità e l’Amore in persona - ha voluto soffrire per noi e con noi. Dio non può patire, ma può compatire. L’uomo, ogni uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l’uomo, in modo reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù che si lasciò uccidere per liberarci, redimerci dalla sofferenza e farci sperare. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove abbiamo sempre bisogno anche delle nostre piccole e grandi speranze - di una visita benevola, della guarigione da ferite interne ed esterne, della risoluzione positiva di una crisi, della liberazione da elementi malefici e così via. Nelle prove minori questi tipi di speranza possono anche essere sufficienti. Ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare - giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità - sapendo che proprio così viviamo la vita, la speranza. Occorre ripetercelo: la capacità di soffrire dipende dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla quale costruiamo. I santi poterono percorrere il grande cammino dell’essere - uomo nel modo in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perché erano ricolmi della grande speranza che dà la possibilità di affrontare anche un presente faticoso, di accettarlo, viverlo in vista di una meta di cui siamo sicuri.
Il Papa parla di una forma di devozione, qualche volta con delle esagerazioni anche malsane, nella quale si “offrono” le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso. Ma che cos vuol dire “offrire”? Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all’economia del bene, dell’amore tra gli uomini. E il Papa si chiede: “Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi”.