Memoria e Riconciliazione - 2. Approccio Biblico

Commissione Teologica Internazionale

Memoria e Riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato
Autore:
Commissione Teologica Internazionale
Fonte:
www.vatican.va

2. Approccio Biblico

È possibile sviluppare in vari modi un’indagine sul riconoscimento che Israele fa delle sue colpe nell’Antico Testamento e sul tema della confessione delle colpe così come esso si presenta nelle tradizioni del Nuovo Testamento. (30) La natura teologica della riflessione qui condotta induce a privilegiare un approccio di genere prevalentemente tematico, muovendo dalla domanda seguente: quale retroterra la testimonianza della Sacra Scrittura fornisce all’invito che Giovanni Paolo II fa alla Chiesa a confessare le colpe del passato?

2.1. L’Antico Testamento


Confessioni di peccati e connesse richieste di perdono si trovano in tutta la Bibbia, tanto nelle narrazioni dell’Antico Testamento, quanto nei Salmi, nei Profeti e nei Vangeli, come pure - più sporadicamente - nella Letteratura sapienziale e nelle Lettere del Nuovo Testamento. Data l’abbondanza e la diffusione di queste testimonianze, si pone la questione di come selezionare e catalogare la massa dei testi significativi. Ci si può chiedere circa i testi biblici relativi alla confessione dei peccati: chi sta confessando che cosa (e che genere di colpe) a chi? Porre così la questione aiuta a distinguere due categorie principali di ‘testi di confessione’, ciascuna delle quali comprende diverse sotto-categorie, e precisamente: a) testi di confessione di peccati individuali e b) testi di confessione dei peccati del popolo intero (e di quelli dei suoi antenati). In rapporto alla recente prassi ecclesiale da cui muove la nostra ricerca conviene restringere l’analisi alla seconda categoria.
In essa si possono identificare diverse possibilità, a seconda di chi fa la confessione dei peccati del popolo e di chi è associato o meno alla colpa comune, prescindendo dalla presenza o meno di una coscienza della responsabilità personale (maturata solo progressivamente: cf. Ez 14,12-23; 18,1-32; 33,10-20). In base a questi criteri si possono distinguere i seguenti casi, peraltro piuttosto fluidi:
- Una prima serie di testi rappresenta l’intero popolo (talvolta personificato come un singolo ‘Io’) che, in un particolare momento della sua storia confessa o allude ai suoi peccati contro Dio senza alcun (esplicito) riferimento alle colpe delle generazioni precedenti. (31)
- Un altro gruppo di testi situa la confessione - rivolta a Dio - dei peccati attuali del popolo sulle labbra di uno o più capi (religiosi), che possono o meno includersi esplicitamente nel popolo peccatore per cui pregano. (32)
- Un terzo gruppo di testi presenta il popolo o uno dei suoi capi nell’atto di evocare i peccati degli antenati, senza però far menzione di quelli della generazione presente. (33)
- Più di frequente le confessioni che menzionano le colpe degli antenati le collegano espressamente agli errori della generazione presente. (34)
Dalle testimonianze raccolte risulta che in tutti i casi dove sono menzionati i ‘peccati dei padri’ la confessione è indirizzata unicamente a Dio ed i peccati confessati dal popolo o per il popolo sono quelli commessi direttamente contro di Lui, piuttosto che quelli compiuti (anche) contro altri esseri umani (solo in Nm 21,7 si fa cenno a una parte umana lesa, Mosè). (35) Sorge la questione sul perché gli scrittori biblici non abbiano sentito il bisogno di richieste di perdono rivolte ad interlocutori presenti riguardo a colpe commesse dai padri, nonostante il loro forte senso della solidarietà fra le generazioni nel bene e nel male (si pensi all’idea della ‘personalità corporativa’). Varie ipotesi potrebbero essere avanzate in risposta a questa questione. C’è, anzitutto, il diffuso teocentrismo della Bibbia che dà la precedenza al riconoscimento sia individuale che nazionale delle colpe commesse verso Dio. Per di più, atti di violenza perpetrati da Israele contro altri popoli, che sembrerebbero esigere una richiesta di perdono a quei popoli o ai loro discendenti, sono intesi come l’esecuzione delle direttive divine riguardo ad essi, come ad esempio Gs 2-11 e Dt 7,2 (lo sterminio dei Cananei) o 1 Sam 15 e Dt 25,19 (la distruzione degli Amaleciti). In tali casi il mandato divino implicato parrebbe escludere ogni possibile richiesta di perdono da farsi. (36) Le esperienze subite da Israele di maltrattamenti da parte di altri popoli e l’animosità così suscitata potrebbero anche aver militato contro l’idea di chiedere perdono a questi popoli per il male ad essi arrecato. (37)
Resta comunque rilevante nella testimonianza biblica il senso della solidarietà intergenerazionale nel peccato (e nella grazia), che si esprime nella confessione davanti a Dio dei ‘peccati degli antenati’, tanto che - citando la splendida preghiera di Azaria - Giovanni Paolo II ha potuto affermare: «‘Benedetto sei tu, Signore, Dio dei nostri padri [...] noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da Te, abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti’ (Dn 3,26.29) Così pregavano gli Ebrei dopo l’esilio (cf. anche Bar 2,11-13), facendosi carico delle colpe commesse dai loro padri. La Chiesa imita il loro esempio e chiede perdono per le colpe anche storiche dei suoi figli». (38)

2.2. Il Nuovo Testamento


Un tema fondamentale, connesso con l’idea della colpa e presente ampiamente nel Nuovo Testamento, è quello dell’assoluta santità di Dio. Il Dio di Gesù è il Dio d’Israele (cf. Gv 4,22), invocato come ‘Padre santo’ (Gv 17,11), chiamato ‘il Santo’ in 1 Gv 2,20 (cf. Ap 6,10). La triplice proclamazione di Dio come ‘santo’ di Is 6,3 ritorna in Ap 4,8, mentre 1 Pt 1,16 insiste sul fatto che i cristiani devono essere santi «poiché sta scritto: ‘Voi sarete santi, perché io sono santo’» (cf. Lv 11,44-45; 19,2). Tutto questo riflette la nozione veterotestamentaria dell’assoluta santità di Dio. Tuttavia, per la fede cristiana la santità divina è entrata nella storia nella persona di Gesù di Nazaret: la nozione veterotestamentaria non è stata abbandonata, ma sviluppata, nel senso che la santità di Dio si fa presente nella santità del Figlio incarnato (cf. Mc 1,24; Lc 1,35; 4,34; Gv 6,69; At 3,14; 4,27. 30; Ap 3,7), e la santità del Figlio è partecipata ai ‘Suoi’ (cf. Gv 17,16-19), resi figli nel Figlio (cf. Gal 4,4-6; Rm 8,14-17). Non può esserci però alcuna aspirazione alla filiazione divina in Gesù finché non vi sia amore per il prossimo (cf. Mc 12,29-31; Mt 22,37-38; Lc 10,27-28).
Questo motivo, decisivo nell’insegnamento di Gesù, diviene il ‘comandamento nuovo’ nel Vangelo di Giovanni: i discepoli dovranno amare come Lui ha amato (cf. Gv 13,34-35; 15,12. 17), cioè perfettamente, ‘fino alla fine’ (Gv 13,1). Il cristiano, cioè, è chiamato ad amare e perdonare secondo una misura che trascende ogni misura umana di giustizia e produce una reciprocità fra gli esseri umani che riflette quella fra Gesù e il Padre (cf. Gv 13,34s; 15,1-11; 17,21-26). In quest’ottica, grande rilievo è dato al tema della riconciliazione e del perdono delle offese. Ai suoi discepoli Gesù chiede di essere sempre pronti a perdonare quanti li abbiano offesi, così come Dio stesso offre sempre il suo perdono: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 12. 12-15). Chi è in grado di perdonare al prossimo dimostra di aver compreso il bisogno che personalmente ha del perdono di Dio. Il discepolo è invitato a perdonare «fino a settanta volte sette» chi l’offende, anche se questi non domandasse perdono (cf. Mt 18,21-22).
Gesù insiste sull’atteggiamento richiesto alla persona offesa nei confronti dei suoi offensori: essa è chiamata a fare il primo passo, cancellando l’offesa mediante il perdono offerto «di cuore» (cf. Mt 18,35; Mc 11,25), consapevole di essere essa stessa peccatrice di fronte a Dio, che mai rifiuta il perdono invocato con sincerità. In Mt 5,23-24 Gesù chiede all’offensore di «andare a riconciliarsi col proprio fratello, che ha qualche cosa contro di lui», prima di presentare la sua offerta all’altare: non è gradito a Dio un atto di culto reso da chi non voglia prima riparare il danno causato al proprio prossimo. Ciò che conta è cambiare il proprio cuore e mostrare in maniera adeguata che si vuole realmente la riconciliazione. Il peccatore, comunque, nella coscienza che i suoi peccati feriscono al tempo stesso la sua relazione con Dio e quella col prossimo (cf. Lc 15,21), può aspettarsi il perdono solo da Dio, perché solo Dio è sempre misericordioso e pronto a cancellare i peccati. Questo è anche il significato del sacrificio di Cristo, che una volta per sempre ci ha purificati dai nostri peccati (cf. Eb 9,22; 10,18). Così l’offensore e l’offeso sono riconciliati da Dio nella Sua misericordia che tutti accoglie e perdona.
In questo quadro, che potrebbe ampliarsi mediante l’analisi delle Lettere di Paolo e delle Epistole Cattoliche, non v’è alcun indizio che la Chiesa delle origini abbia rivolto la sua attenzione ai peccati del passato per chiedere perdono. Ciò può spiegarsi con la forte consapevolezza della novità cristiana, che proietta la comunità piuttosto verso il futuro che verso il passato. Si incontra, tuttavia, una più ampia e sottile insistenza che pervade il Nuovo Testamento: nei Vangeli e nelle Lettere l’ambivalenza propria dell’esperienza cristiana è ampiamente riconosciuta. Per Paolo, ad esempio, la comunità cristiana è un popolo escatologico, che vive già la ‘nuova creazione’ (cf. 2 Cor 5,17; Gal 6,15), ma questa esperienza, resa possibile dalla morte e risurrezione di Gesù (cf. Rm 3,21-26; 5,6-11; 8,1-11; 1 Cor 15,54-57), non ci libera dall’inclinazione al peccato presente nel mondo a causa della caduta di Adamo. Come risultato dell’intervento divino nella e attraverso la morte e risurrezione di Gesù vi sono ora due scenari possibili: la storia di Adamo e quella di Cristo. Esse scorrono fianco a fianco ed il credente deve contare sulla morte e risurrezione del Signore Gesù (cf. ad esempio Rm 6,1-11; Gal 3,27-28; Col 3,10; 2 Cor 5,14-15) per esser parte della storia in cui «sovrabbonda la grazia» (cf. Rm 5,12-21).
Una simile rilettura teologica dell’evento pasquale di Cristo mostra come la Chiesa delle origini avesse un’acuta consapevolezza delle possibili mancanze dei battezzati. Si potrebbe dire che l’intero ‘corpus paulinum’ richiami i credenti a un riconoscimento pieno della loro dignità, pur nella viva coscienza della fragilità della loro condizione umana: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). Un analogo motivo può riscontrarsi dalle narrazioni dei Vangeli. Esso emerge incisivamente in Marco, dove le carenze dei discepoli di Gesù sono uno dei temi dominanti del racconto (cf. Mc 4,40-41; 6,36-37.51-52; 8,14-21.31-33; 9,5-6.32-41; 10,32-45; 14,10-11.17-21.27-31.50; 16,8). Sebbene sia comprensibilmente sfumato, lo stesso motivo ritorna in tutti gli Evangelisti. Giuda e Pietro sono rispettivamente il traditore e colui che rinnega il Maestro, anche se Giuda giunge alla disperazione per l’atto compiuto (cf. At 1,15-20), mentre Pietro si pente (cf. Lc 22,61s) e perviene alla triplice professione di amore (cf. Gv 21,15-19). In Matteo, perfino durante l’apparizione finale del Signore risorto, mentre i discepoli lo adorano, «alcuni ancora dubitavano» (Mt 28,17). Il Quarto Vangelo presenta i discepoli come quelli cui è donato un incommensurabile amore, sebbene la loro risposta sia fatta di ignoranza, mancanze, rinnegamento e tradimento (cf. 13,1-38).
Questa costante presentazione dei discepoli chiamati a seguire Gesù, che vacillano nella loro arrendevolezza al peccato, non è semplicemente una rilettura critica della storia delle origini. I racconti sono impostati in modo da rivolgersi a ogni successivo discepolo di Cristo in difficoltà, che guarda al Vangelo come alla propria guida e ispirazione. Peraltro il Nuovo Testamento è pieno di raccomandazioni a comportarsi bene, a vivere un più alto livello di impegno, ad evitare il male (cf. ad esempio Gc 1,5-8.19-21; 2,1-7; 4,1-10; 1 Pt 1,13-25; 2 Pt 2,1-22; Gd 3-13; 1 Gv 1,5-10; 2,1-11.18-27; 4,1-6; 2 Gv 7-11; 3 Gv 9-10). Non c’è però alcun esplicito richiamo indirizzato ai primi cristiani a confessare delle colpe del passato, anche se è certo molto significativo il riconoscimento della realtà del peccato e del male anche all’interno del popolo chiamato all’esistenza escatologica propria della condizione cristiana (si pensi solo ai rimproveri contenuti nelle lettere alle sette Chiese dell’Apocalisse). Secondo la petizione che si trova nella preghiera del Signore questo popolo invoca: «Perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore» (Lc 11,4; cf. Mt 6,12). I primi cristiani, insomma, mostrano di essere ben consapevoli di poter agire in maniera non corrispondente alla vocazione ricevuta, non vivendo il battesimo della morte e risurrezione di Gesù con cui erano stati battezzati.

2.3. Il Giubileo biblico


Un significativo retroterra biblico della riconciliazione legata al superamento di situazioni passate è rappresentato dalla celebrazione del Giubileo, così come è regolata nel libro del Levitico (cap. 25). In una struttura sociale fatta di tribù, clan e famiglie, inevitabilmente si creavano situazioni di disordine quando individui o famiglie di condizioni disagevoli dovevano ‘riscattare’ se stessi dalle proprie difficoltà consegnando la proprietà della loro terra o casa o di servi o figli a coloro che erano in condizioni migliori delle loro. Un tale sistema aveva come effetto che alcuni Israeliti venivano a soffrire situazioni intollerabili di debito, di povertà e di schiavitù in quella stessa terra, che era stata data ad essi da Dio, a vantaggio di altri figli d’Israele. Tutto questo poteva far sì che in periodi più o meno lunghi di tempo un territorio o un clan cadessero nelle mani di pochi ricchi, mentre il resto delle famiglie del clan veniva a trovarsi in una forma di debito o di servitù, tale da dover vivere in totale dipendenza dai più benestanti.
La legislazione di Lv 25 costituisce un tentativo di capovolgere tutto questo (tanto da poter dubitare che sia mai stata messa in pratica pienamente!): essa convocava la celebrazione del Giubileo ogni 50 anni al fine di preservare il tessuto sociale del popolo di Dio e restituire l’indipendenza anche alla più piccola famiglia del paese. È decisiva per Lv 25 la regolare ripetizione della confessione di fede d’Israele nel Dio che ha liberato il Suo popolo attraverso l’Esodo: «Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto, per darvi il paese di Canaan, per essere il vostro Dio» (Lv 25,38; cf. vv. 42.45). La celebrazione del Giubileo era un’implicita ammissione di colpa e un tentativo di ristabilire un ordine giusto. Ogni sistema che alienasse un qualunque Israelita, una volta schiavo, ma ora liberato dal braccio potente di Dio, veniva di fatto a smentire l’azione salvifica divina nell’Esodo e attraverso di esso.
La liberazione delle vittime e dei sofferenti diventa parte del più ampio programma dei profeti. Il Deutero-Isaia, nei Carmi del Servo sofferente (Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), sviluppa queste allusioni alla pratica del Giubileo con i temi del riscatto e della libertà, del ritorno e della redenzione. Isaia 58 è un attacco contro l’osservanza rituale che non ha riguardo per la giustizia sociale, un richiamo alla liberazione degli oppressi (Is 58,6), centrato specificamente sugli obblighi di parentela (v. 7). Più chiaramente, Isaia 61 usa le immagini del Giubileo per ritrarre l’Unto come l’araldo di Dio inviato ad ‘evangelizzare’ i poveri, a proclamare la libertà ai prigionieri e ad annunciare l’anno di grazia del Signore. È significativamente proprio questo testo, con un’allusione a Isaia 58,6, che Gesù usa per presentare il compito della sua vita e del suo ministero in Luca 4,17-21.

2.4. Conclusione


Da quanto detto si può concludere che l’appello rivolto da Giovanni Paolo II alla Chiesa perché caratterizzi l’anno giubilare con un’ammissione di colpa per tutte le sofferenze e le offese di cui i suoi figli sono stati responsabili nel passato, (39) così come la prassi ad esso congiunta, non trovano un riscontro univoco nella testimonianza biblica. Tuttavia, essi si basano su quanto la Sacra Scrittura afferma riguardo alla santità di Dio, alla solidarietà intergenerazionale del Suo popolo e al riconoscimento del suo essere peccatore. L’appello del Papa coglie inoltre correttamente lo spirito del Giubileo biblico, che richiede che siano compiuti atti volti a ristabilire l’ordine dell’originario disegno di Dio sulla creazione. Ciò esige che la proclamazione dell’’oggi’ del Giubileo, iniziato da Gesù (cf. Lc 4,21), sia continuata nella celebrazione giubilare della Sua Chiesa. Questa singolare esperienza di grazia, inoltre, spinge il popolo di Dio tutto intero, come ciascuno dei battezzati, a prendere ancor più coscienza del mandato ricevuto dal Signore di essere sempre pronti a perdonare le offese ricevute.

Note

(30) Sui diversi metodi di lettura della Sacra Scrittura cf. il documento della Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993).
(31) Possono ricondursi a questa serie ad esempio: Dt 1,41 (la generazione del deserto riconosce di aver peccato rifiutando di avanzare per entrare nella terra promessa); Gdc 10,10.12 (al tempo dei Giudici il popolo per due volte dice «abbiamo peccato» contro il Signore, riferendosi all’aver servito ai Baal); 1 Sam 7,6 (il popolo del tempo di Samuele afferma: «Abbiamo peccato contro il Signore!»); Nm 21,7 (questo testo si distingue in quanto qui il popolo della generazione mosaica ammette che, nel lamentarsi a riguardo del cibo, si è reso colpevole di ‘peccato’ perché ha parlato contro il Signore ed anche contro la sua guida umana, Mosè); 1 Sam 12,19 (gli Israeliti dell’epoca di Samuele riconoscono che - chiedendo di avere un re - hanno aggiunto questo «a tutti i loro peccati»); Esd 10,13 (il popolo riconosce davanti ad Esdra di aver grandemente «peccato in questa materia» [sposando donne straniere]»); Sal 65,2-2; 90,8; 103,10 (107,10-11.17); Is 59,9-15; 64,5-9; Ger 8,14; 14,7; Lam 1,14,18a.22 (‘Io’= personificazione di Gerusalemme); 3,42 (4,13); Bar 4,12-13 (Sion evoca le colpe dei suoi figli che hanno portato alla sua devastazione); Ez 33,10; Mic 7,9 (‘Io’).18-19.
(32) Ad esempio: Es 9,27 (il Faraone dice a Mosè ed Aronne: «Questa volta ho peccato: il Signore ha ragione; io e il mio popolo siamo colpevoli»); 34,9 (Mosè invoca: «Perdona la nostra colpa e il nostro peccato»); Lv 16,21 (il Sommo Sacerdote confessa i peccati del popolo sul capo del ‘capro espiatorio’ nel giorno dell’espiazione); Es 32,11-13 (cf. Dt 9,26-29: Mosè); 32,31 (Mosè); 1 Re 8,33ss (cf. 2 Cr 6,22ss: Salomone prega perché Dio perdoni eventuali futuri peccati del popolo); 2 Cr 28,13 (i capi degli Israeliti affermano: «La nostra colpa è già grande +); Esd 10,2 (Secania dice ad Esdra: «Noi siamo stati infedeli verso il nostro Dio, sposando donne straniere +); Ne 1,5-11 (Neemia confessa i peccati commessi dal popolo d’Israele, da se stesso e dalla casa di suo padre); Est 4,17 (n) (Ester confessa: «Abbiamo peccato contro di te e ci hai messi nelle mani dei nostri nemici, per aver noi dato gloria ai loro dei»); 2 Mac 7,18.32 (i martiri giudei affermano che stanno soffrendo a causa dei ‘nostri peccati’ contro Dio).
(33) Fra gli esempi di questo tipo di confessione nazionale si può rinviare a: 2 Re 22,13 (cf. 2 Cr 34,21: Giosia teme la collera del Signore «perché i nostri padri non hanno ascoltato le parole di questo libro»); 2 Cr 29,6-7 (Ezechia afferma: «I nostri padri sono stati infedeli»); Sal 78,8ss. (un ‘Io’ riassume i peccati delle generazioni passate a partire dall’Esodo). Cf. pure il detto popolare citato in Ger 31,29 ed Ez 18,2: ‘I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati’.
(34) È il caso di testi come i seguenti: Lv 26,40 (gli esiliati sono chiamati a «confessare la loro iniquità e l’iniquità dei loro padri»); Esd 9,5b-15 (preghiera penitenziale di Esdra, v. 7: «Dai giorni dei nostri padri fino ad oggi siamo stati molto colpevoli»; cf. Ne 9,6-37); Tb 3,1-5 (nella sua preghiera Tobi invoca: «Non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri» [v. 3] e prosegue con la costatazione: «non abbiamo osservato i tuoi decreti» [v. 5]); Sal 79,8-9 [questo lamento collettivo implora Dio di «non imputare a noi le colpe dei nostri padri [...] salvaci e perdona i nostri peccati»); 106,6 («abbiamo peccato come i nostri padri»); Ger 3,25 («[...]abbiamo peccato contro il Signore nostro Dio [...] noi e i nostri padri»); Ger 14,19-22 («riconosciamo la nostra iniquità e l’iniquità dei nostri padri», v. 20); Lam 5 («i nostri padri peccarono e non sono più, noi portiamo la pena delle loro iniquità» [v. 7] «guai a noi, perché abbiamo peccato» [v. 16b]); Bar 1,15-3,18 («abbiamo offeso il Signore» [1,17, cf. 1,19.21;2,5.24] - «non ricordare l’iniquità dei nostri padri» [3,5, cf. 2,33; 3,4.7]); Dn 3,26-45 (la preghiera di Azaria: «Con verità e giustizia ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati»: v. 28); Dn 9,4-19 («poiché per i nostri peccati e per l’iniquità dei nostri padri Gerusalemme [...] è oggetto di vituperio [...]», v. 16).
(35) Essi includono mancanze di fiducia in Dio (così, per esempio, Dt 1,41; Nm 14,10), idolatria (come in Gdc 10,10-15), richiesta di un re umano (1 Sam 12,9), matrimoni con donne straniere in contrasto con la Legge divina (Esd 9-10). In Is 59,13b il popolo dice di sé di «parlare di oppressione e di ribellione, concepire con il cuore e pronunciare parole false».
(36) Cf. il caso analogo del ripudio delle mogli straniere da parte dei Giudei raccontato in Esd 9-10, con tutte le conseguenze negative che esso avrebbe avuto sulle donne implicate. La questione di una richiesta di perdono rivolta a loro (e o ai loro discendenti) non si pone proprio, in quanto il ripudio è presentato come un’esigenza della Legge divina (cf. Dt 7,3) in tutti questi capitoli.
(37) Viene in mente a questo proposito il caso delle relazioni permanentemente tese fra Israele ed Edom. Questo popolo - nonostante la sua condizione di ‘fratello’ d’Israele - participò e gioì alla caduta di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi (cf., ad esempio, Abdia 10-14). Israele, in segno di oltraggio per questo tradimento, non sentì alcun bisogno di chiedere perdono per la strage dei prigionieri Edomiti indifesi, perpetrata dal Re Amazia secondo 2 Cr 25,12.
(38) Giovanni Paolo II, Discorso del 1 settembre 1999, in L’Osservatore Romano, 2 Settembre 1999, 4.
(39) Cf. TMA, 33-36.