Il Vate Enzo #Bianchi ha parlato
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Adesso, con un nuovo maturo sentimento, egli sentiva in se stesso e nel mondo una nuova legge: che anche la coscienza ci è data una volta sola»

Il Vate ha parlato. Colui che una infinita schiera di autorità ecclesiastiche hanno invitato ai loro corsi, convegni e seminari, oggi prende – e giustamente – le distanze da quanto stabilito dalla CEI. Ecco quanto Enzo Bianchi scrive su Repubblica: «In questi ultimi giorni siamo testimoni dell’epidemia di coronavirus ma siamo anche travolti dall’epidemia della paura. E in questa condizione faticosa e buia sembra essere travolta anche la Chiesa. Nessuna polemica da parte mia, nessuna certezza, ma molte domande. L’ho scritto fin dall’inizio di questa emergenza: siamo sicuri che la Chiesa, adottando contro il possibile contagio misure che impediscono liturgie, preghiere e funerali partecipati dalla comunità, sia solidale con chi soffre, ha paura e cerca consolazione? Rincresce constatare come la Chiesa non sia capace di una parola umile, senza pretese, ma chiara. Abbiamo ricevuto disposizioni ecclesiastiche sull’emergenza, equiparate alla disciplina imposta dall’autorità politica, nelle quali non s’intravede la presenza di preoccupazioni pastorali e cristiane dettate dal Vangelo: compassione, urgenza della cura e della vicinanza ai malati e alle persone in condizione di fragilità, messaggio della speranza per chi è vittima di questa pestilenza. Ci si è limitati alla richiesta di sospendere le celebrazioni, offrire un’eucaristia celebrata in privato, interrompere la celebrazione dei funerali. Ma la virtualizzazione della liturgia significa morte della liturgia cristiana».
Parole giuste (finalmente!) dopo i tanti suoi sproloqui sentiti e letti sui vari giornali che lo ospitano abitualmente, e che non starò qui a ricordare (alcuni lo hanno fatto con acume e competenza), ma segno inequivocabile di quel clima che oramai ha preso dimora presso tanti cattolici: è il trionfo dell’opinione, come se la fede fosse diventata un oggetto manipolabile da chiunque. E come se la disciplina ecclesiastica fosse solo uno spunto per affermare quello che più ci aggrada al momento. Non solo, ma con tutta la sicumera e l’assenza di coraggio (il contrario di parresia e sinodalità con cui ci riempiamo la bocca) per cui si può obbedire al Papa senza chiarezza di giudizio e poi accusare lo stesso Papa di mancanza di chiarezza (come è accaduto per la vicenda delle chiese chiuse o aperte a Roma).
Ho scritto recentemente su Facebook:
«È con dolore che ho letto la notizia di ieri 12 marzo che si chiudevano tutte le chiese di Roma, per precauzione contro il contagio, ma ancora più mi ha addolorato la comunicazione del Card. Vicario di Roma che oggi 13 marzo riapriva le chiese, dopo il severo ammonimento del Papa a s. Marta: «Le misure drastiche non sempre sono buone, per questo preghiamo: perché lo Spirito Santo dia ai pastori la capacità e il discernimento pastorale affinché provvedano misure che non lascino da solo il santo popolo fedele di Dio».
La lettera ai sacerdoti del Card. De Donatis al clero di Roma inizia in questo modo: «Con una decisione senza precedenti, consultato il nostro Vescovo Papa Francesco, abbiamo pubblicato ieri, 12 marzo, il decreto che fissa la chiusura per tre settimane delle nostre chiese.»
Mi ha addolorato perché non ci si salva la pelle e la reputazione addossando ai superiori la responsabilità delle scelte che non si hanno il coraggio di contestare quando vengono proposte. Non ho mai agito così con i miei vescovi. Se si è d’accordo, va bene, ma se ci si trova su posizioni differenti, non basta un «signorsì» che poi diventa accusa in caso di cambiamento di opinione. Mi sembra che siamo di fronte a un clima che è il contrario della parresia tanto invocata e della sinodalità, che più che una realtà di comunione sembra nascondere una autocrazia centralistica che chiede solo obbedienza «cieca e assoluta».
Così può accadere che coloro che proclamano la necessità di costruire ponti, dialogo e apertura, appena si trovano di fronte a obiezioni e domande si rinchiudono in un mutismo da «vergine cuccia» di pariniana memoria. Non solo, ma ti tacciano di nemico, di odiatore, di provocatore, di divisore. E così proprio la stessa comunione ecclesiale va a farsi benedire.
Mi è ritornato in mente questo giudizio del grande romanziere Solženicjin nel suo romanzo «Il primo cerchio»: «Era andato a Parigi e laggiù aveva lavorato nell’organismo del Comitato economico-sociale dell’ONU e laggiù aveva letto ancora molto, tutto ciò che gli riusciva di leggere oltre al suo lavoro. E, in un certo momento, aveva sentito che forse reggeva in mano il timone.
Non che in questi anni avesse scoperto molto per se stesso, ma qualcosa comunque sì.
Prima, la verità di Innokentij era che la vita ci è concessa una volta sola.
Adesso, con un nuovo maturo sentimento, egli sentiva in se stesso e nel mondo una nuova legge: che anche la coscienza ci è data una volta sola.
E come non si può restituire una vita già data, così non si può restituire una coscienza deviata.
Così aveva cominciato a intendere le cose e a pensare Innokentij, quando il sabato, alcuni giorni prima d’un nuovo suo viaggio a Parigi, per sua sventura era venuto a sapere della nuova provocazione che si stava allestendo a spese dell’ingenuo Dobroumov.»
La coscienza ci è data una volta sola e, se deviata, nessuno ce la può restituire. Chiediamo ai pastori un sussulto di coscienza e di coraggiosa responsabilità. Sempre il nostro scrittore russo ci ricordava di «vivere senza menzogna» ed esemplificava: se non hai il coraggio di dire la verità, abbi almeno il coraggio di non sostenere la menzogna.
Forse qui, in questa incapacità di testimoniare la verità a tutti i costi, adagiandosi in una comoda rassegnazione e connivenza, sta quel clericalismo che proprio il Papa condannava nella omelia che ha dato il via alla riapertura delle chiese di Roma.»