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“Ettore è guerriero perché è padre…”

Fonte:
CulturaCattolica.it
«Ettore sa bene che il suo tempo sta per finire e come lui lo sa sua moglie Andromaca. E’ una scena di famiglia, inusuale per l’Iliade, e Luigi Zoja, che l’ha studiata e analizzata, così la descrive: “Ettore si sfila l’elmo, lo pone a terra e può abbracciare il figlio... Formulando un augurio per il futuro, leva il figlio in alto con le braccia e con il pensiero. Questo gesto sarà per tutti i tempi il marchio del padre”. E aggiunge: “Ettore è guerriero perché è padre… Con solitaria consapevolezza, e ancora una volta con radicale anacronismo, combatte per difendere la famiglia e la città dall’assalto mortale dei nemici. Ettore è già un padre nel senso affettivo e civile. E’ insieme due cose moderne: padre di famiglia e padre della patria. Sa che non basta aver dato un giorno ai figli la vita, bisogna riportarla ogni giorno a loro ripetendo su un altro piano la donazione”».
(Walter Veltroni, Ciao)

Un amico scrittore mi ha detto che è contento quando, nei suoi libri, i lettori trovano spunti di riflessione personale; quando colgono un particolare, si aggrappano a un filo e lo seguono come Teseo nel labirinto.
Io questo filo l’ho trovato, nell’ultimo libro di Walter Veltroni, che si intitola “Ciao” e parla di suo padre.
Sono tante le strade che si possono seguire, ad esempio la ricostruzione della vita di Vittorio Veltroni, il padre, che ha contribuito alla nascita di radio e tivù: qui vengono proposte alcune radiocronache e raccontati i servizi più importanti. Da queste pagine escono nomi di amici giornalisti, di personaggi di spicco della nostra storia del ’900. Ci sono riferimenti al fascismo a Roma, alla guerra civile dopo l’8 settembre. C’è la bella storia d’amore tra Vittorio e Ivanka, la madre di Walter. E c’è tanto altro ancora.
Ma in questo libro c’è, anche e soprattutto, la ricerca struggente del padre. «Mio padre mi è sempre mancato, non l’ho mai nascosto. Non l’ho conosciuto, è morto che avevo un anno. Non ho neppure una foto con lui, un biglietto in cui mi dicesse qualcosa, magari per il futuro. Non so quanto mi ha tenuto in braccio, se mai mi ha dato un bacio e se gli sembravo carino ed era orgoglioso di me. Non so cosa immaginava per il mio futuro, come voleva che fossi, come sperava che fossi. Non ho mai sentito dal vivo la sua voce, non mi ha mai rimproverato né fatto un elogio: io potrei anche non essere esistito. Nemmeno uno dei mille fili della vita ci lega. Se non il fatto che lui è il mio sangue e i suoi geni sono in me e mi hanno reso forse simile a lui».
E’ questo che mi ha colpito del libro, perché un figlio che perde il padre ha incise nella carne le ferite della sua assenza.
Qui non si finge, non si può.
Altri, dai salotti televisivi, dagli scranni della politica, dalle colonne sui giornali possono, potranno dire che “avere due mamme” (e lasciamo stare l’idiozia sottesa a questa dicitura politically correct nella forma ma bugiarda nella sostanza)… altri potranno dire che “avere due mamme” sia lo stesso, perché Love is love e ciò che conta è essere amati, non importa da chi. Veltroni non ha interesse alcuno a pronunciarsi qui contro l’eterologa, la donazione di sperma, le donne che vogliono farsi un figlio negandogli deliberatamente e per sempre il padre. Non è un saggio politico o di bioetica, questo. Tanto meglio. Non c’è ideologia, qui. C’è la verità di una storia vera e un’assenza che brucia nel cuore. C’è un padre che muore a 37 anni e lascia due figli; Walter, il più piccolo, ha poco più di un anno.
Come si cresce senza padre? Cosa manca alle giornate, alla vita? In quest’ultimo libro di Veltroni si racconta questo. Con la dolcezza di un figlio che, ormai adulto, confessa al suo papà «ti ho aspettato tanto». Poi un giorno gli pare di vederlo, quel padre che ha cercato tutta la vita: è un giovanotto anni Cinquanta sul pianerottolo di casa. Perché questo incontro? E perché proprio ora? «Perché per la prima volta mi sembri fragile», gli dice suo padre. «Mi sembra tu abbia bisogno di me. Hai sempre saputo cosa fare e hai seguito la tua strada. Ora mi pare che tu sia incerto, come se la vita che hai sempre pensato di controllare ti stia sfuggendo di mano».
E’ adulto, adesso, Walter Veltroni. Ma il pensiero, nelle pagine del libro, corre spesso all’infanzia e all’adolescenza.
Cosa gli è mancato, di suo padre? «Quando uscivo da scuola, il sabato, e i miei compagni trovavano i due genitori ad aspettarli, quando in classe dicevano “Walter fu Vittorio”, quando mia madre doveva firmare la pagella nello spazio di “il padre o chi ne fa le veci”, quando gli amici mi raccontavano che la sera a casa il loro genitore li aveva rimproverati o il lunedì il mio compagno di banco faceva il resoconto della domenica pomeriggio allo stadio con il papà, quando avevo un problema da maschio e non sapevo con chi parlarne, quando avrei avuto bisogno di una voce da temere». Lascio a voi il capitolo 16, le pagine che non sono racconto, sono una poesia, una collana di ottativi, di avrei desiderato che…
Anche il padre soffre per l’assenza, per la distanza, per non esserci stato. «Come se fosse colpa sua, come se non fosse sicuro del mio amore e cercasse la mia comprensione».
Non c’è un’età in cui un figlio possa dire che un padre non serve, anzi. «Da bambino eri un mito, un vuoto, un’assenza. Ma nulla di devastante. Poi il bisogno di te si è fatto più forte quando sono diventato padre e mi sono accorto che non avevo parametri di riferimento. Dovevo camminare sul filo sospeso tra due grattacieli senza che nessuno mi avesse mostrato come si faceva». E allora non è mai troppo tardi per gli incontri che segnano la vita.
«Forse per la prima volta sta facendo il padre: mi sta consigliando, indicando la via sulla base dell’esperienza. Forse si sta rialzando da terra per riprendere in mano il testimone caduto. Forse per questo mi ha aspettato sul pianerottolo… Forse ha capito che a un certo punto della vita si è più fragili. Lui che non ci è arrivato, a questa stagione della vita. Forse mi ha visto, con i miei pensieri orfani di certezze, e allora ha deciso di parlarmi, da padre». E il ricordo corre a ritroso ad altri momenti, ad altre immagini.
«C’è stato solo un altro momento, nella mia vita, in cui ho creduto di averti trovato. Un giorno preciso. Ero tornato a casa stanco e felice… Ero solo, in una sera di fine estate. Passai davanti alla tua fotografia, quella in primo piano con la cornice annerita, e mi fermai. Per la prima volta, all’improvviso, riuscii a vedere quello che non avevo mai capito prima. I nostri occhi sono uguali, papà. Ma non eri cambiato tu, nella foto animata. Ero cambiato io. Perché quel giorno era nata Martina, alle 17.50. Era nato qualcuno che mi avrebbe chiamato come io non avevo mai potuto fare»
Ivanka, la madre, è stata «lo scrigno della sua esistenza, un tesoro che aveva resistito in fondo al mare del dolore per trentasei anni. Tredicimila giorni, trecentomila ore che lei ha vissuto nel ricordo, accarezzandolo e conservandolo» e ha tenuto in uno scatolone di vimini tutto quel che poteva del marito. «Che magnifica invenzione, le donne. Quando tutto crolla, quando noi uomini facciamo casino, quando le intemperie della vita ci travolgono e ci perdono, a salvarci c’è sempre la saggezza, la dolcezza, il nerbo delle donne».
Però. Però non sono figure interscambiabili, padre e madre. Chiunque di noi nel fondo del cuore lo sa: è la vita a insegnarcelo. «La madre è il qui e ora sempre, il padre è l’altrove. Il padre è la testimonianza, il modello, un’idea di ciò che è giusto. Il padre è poster da contemplare e totem da abbattere. Il padre è la sorgente dell’eredità, è l’autorità da cui trarre il senso di giustizia e l’autorità da contestare. La nostra è diventata una società di fratelli, orfana di padri». E in queste pagine, a metà circa del libro, l’autore riflette sulla precarietà dei ruoli che frammenta la formazione dei giovani, sulla crisi della Chiesa e dei partiti, sugli esiti del Sessantotto. «Nessuna autorità, metafora della paternità… Società orfana, come me. Forse noi due, senza volerlo, rappresentiamo tutto questo. Nei nostri ruoli smentiti dalle nostre età: un figlio con i capelli bianchi e un padre con la brillantina sul ciuffo ribelle».
Così è nella nostra vita personale e nella società, oggi. Ma anche volessimo annullarlo, quel padre, cancellarlo dalla memoria perché l’assenza fa male, la ricerca fa male, il ricordo fa male (struggenti le pagine sul funerale di Vittorio!); anche se qualcuno vorrebbe farci credere che si può fare senza, ché tanto è lo stesso, lui c’è, è sempre con noi. E’ in noi. «Tu e io non ci siamo conosciuti ma mi devi aver passato un po’ di carattere attraverso il Dna. I geni della composizione, dell’armonia, il fastidio per tutto quello che è urlato, la ricerca, persino ingenua, del buono nelle persone, non sono farina del mio sacco, come pensavo, ma del tuo».
Vi lascio con questo sguardo silenzioso tra padre e figlio. Chi vuol capire, capisce.
«Ora siamo in silenzio, nessuno dei due ha voglia di parlare. Ci fissiamo negli occhi, per la prima volta. I miei esistono perché i suoi hanno scelto un giorno quelli verdi di mamma, perché una sera di ottobre del 1954, guardandosi, hanno avuto voglia di fare l’amore. Per questi suoi occhi io sono al mondo. Credo di sapere che a lui che c’era devo molte delle mie qualità e a lui che non c’era più i miei difetti».

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