«Sono inutili. Uccidiamoli»
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(Eric-Emmanuel Schmitt, Oscar e la dama in rosa)

Ho letto la proposta di estendere l’eutanasia ai bambini di età inferiore ai 12 anni, avanzata dall’Associazione dei pediatri olandesi. L’eutanasia in Olanda è legale dal 2002 per chi abbia compiuto i 16 anni, ma il protocollo di Groningen di fatto l’ha estesa anche ai bambini e ai ragazzi mentalmente in grado di operare questa scelta, cioè quelli tra dodici e sedici anni, con il consenso dei genitori. I pediatri ora hanno chiesto che «l’eutanasia attiva» sia possibile anche per i bambini di età compresa tra uno e dodici anni che presentino gravi patologie o handicap. Secondo i medici, l’eutanasia non necessita però del consenso dei bambini ma solo di quello dei genitori e del medico curante, dunque non ci vuole una laurea per capire che il diretto interessato non avrà alcuna voce in capitolo. Questo è quanto.
Letta la notizia (lo confesso: peggio di un pugno nello stomaco!) mi sono passati davanti alla mente i volti dei parenti e degli amici a cui ho fatto compagnia in ospedale fino ad accompagnarli, mano nella mano, all’ultimo soffio di vita. Dentro la fatica di quei mesi, degli ultimi giorni, ricordo, per loro e per me, l’intensità di quando sai che ogni istante è dono perché te ne stai per andare e tutto acquista colore e sapore, e niente è scontato.
Ma leggendo questa notizia terribile (l’avete sentito mai un bambino – un treenne, un decenne... – che chiede di morire?!) mi è tornato alla mente anche un libro bellissimo che mi ha regalato un amico qualche anno fa per il mio compleanno. Si intitola Oscar e la dama in rosa. Novanta pagine che si leggono in un baleno (ma poi le ho rilette, e rilette, e regalate…) e che dovremmo avere in ogni casa, anzi, in ogni cuore. Perché Eric-Emmanuel Schmitt, l’autore, nel raccontare la storia del piccolo Oscar, ci rammenta ciò che conta davvero nel rapporto tra esseri umani. Copio dal retro di copertina.
«Oscar ha solo dieci anni, ma la sua vita sta già per finire. La leucemia lo sta uccidendo. E lui lo sa. Lo sa ma non può parlarne con nessuno, perché i grandi per paura fanno finta di non saperlo. Nell’ospedale in cui il bimbo passa le sue giornate, solo l’anziana signora vestita di rosa, che va sempre a trovarlo, intuisce la sua voglia di risposte. E gli suggerisce un gioco: fingere di vivere dieci anni in un giorno e scrivere a Dio per raccontargli la sua vita. Oscar ci sta: così si immagina di vivere a vent’anni, a quaranta, a novanta. A centodieci, dieci giorni dopo l’inizio del gioco, si addormenta. Ha lasciato un biglietto sul comodino: “Solo Dio ha il diritto di svegliarmi”».
Non scenderò nei dettagli perché non mi va di rovinare la lettura a chi ancora questo libro non lo conosce e non ha nemmeno visto il film (così poco politically correct che si sono guardati bene dal doppiarlo dal francese...), ma più penso alla proposta dei pediatri olandesi e a questo mondo che ha imboccato la china, più mi dico che è necessario, anzi indispensabile, ripartire dall’educazione. E questo romanzo breve può essere un aiuto.
In meno di cento pagine ce n’è per tutti. Per noi che non sappiamo (più) testimoniare buone ragioni per vivere la vita, che è gioia ma anche dolore. Per noi che ci crediamo padroni di tutto, e così abbiamo rimosso la morte dal nostro orizzonte e l’abbiamo fatta diventare un tabù.
Per quest’epoca che non sa che farsene degli improduttivi, degli imperfetti, di chi soffre, e anziché chiedersi come mai e cercare risposte, ci dimostra ogni giorno di più che ha scelto di eliminare il problema eliminando le persone.
Per Oscar, i suoi amici in ospedale, i bambini (quelli veri) malati gravi come lui. Che non vogliono essere guardati come diversi, come i senza-speranza, ma come i bambini che sono. E, anche tra le pareti d’ospedale - lì, ancora di più! -, cercano amore, compagnia, qualcuno che li aiuti a capire perché la vita vale sempre la pena, anche quando fa male. E non abbia paura a dire che, tutti, prima o poi si muore. «Ho l’impressione, Nonna Rosa, che abbiano inventato un ospedale diverso da quello che esiste veramente. Fanno come se si venisse all’ospedale solo per guarire. Mentre ci si viene anche per morire». «Hai ragione, Oscar. E credo che si commetta lo stesso errore per la vita. Dimentichiamo che la vita è fragile, friabile, effimera. Facciamo tutti finta di essere immortali».
In questo romanzo ce n’è per i genitori, sguarniti, sempre di più, di strumenti per vivere e dare senso al dolore, e così spesso lasciati soli di fronte alla malattia grave di un familiare, di un figlio. «Da quando sono ricoverato in permanenza all’ospedale, i miei genitori hanno qualche difficoltà con la conversazione; allora mi portano dei regali» (…) «Non hanno paura di te, Oscar. Hanno paura della malattia». «La mia malattia fa parte di me. Non devono comportarsi in modo diverso perché sono malato. O possono amare solo un Oscar in buona salute?».
Hanno un sacco da dire a noi, quelle pagine. A noi che l’ospedale lo rimuoviamo dalla vista e dalla vita, e ci tocca solo se/quando a stare male siamo noi. Questo mondo di sani che non conosce condivisione, che non sa donare tempo ed energie a chi soffre, a chi fa fatica.
Oscar e la dama in rosa racconta di amicizia e di condivisione tra i piccoli pazienti, e l’amicizia, dolcissima, con Peggy Blue: «Non voglio sedurre solo con il mio corpo, Nonna Rosa».
«Che cosa provi per lei?»
«Ho voglia di proteggerla dai fantasmi».
Ci sono parole per i medici, per la medicina. «Non bisogna fare una faccia simile, dottor Düsseldorf … La smetta con quell’espressione colpevole. Non è colpa sua se è costretto ad annunciare brutte notizie alle persone, malattie dai nomi latini e guarigioni impossibili. Deve rilassarsi, distendersi. Non è Dio Padre. Non è lei a comandare alla natura. Lei è solo un riparatore».
Poi c’è Nonna Rosa, che in questa storia di amicizia e di condivisione riceve il centuplo di ciò che ha dato, e nell’ultima pagina scrive: «Caro Dio… grazie di avermi fatto conoscere Oscar. Grazie a lui ero divertente, inventavo delle leggende, me ne intendevo persino di catch. Grazie a lui ho riso e ho conosciuto la gioia. Mi ha aiutata a credere in te. Sono piena di un amore ardente, me ne ha dato tanto che ne ho per tutti gli anni a venire».
Ma le scene e i dialoghi più belli sono al centro, come accade spesso. Quando Nonna Rosa accompagna Oscar nella cappella dell’ospedale e insieme vanno «a trovare Dio». Non svelerò nulla, scalfirei il gusto della lettura di queste pagine, commoventi e profondissime. Concludo però con le parole di Oscar, che ha deciso di fidarsi, e di seguire con impegno i consigli che gli stava dando Dio. «Contemplavo la luce, i colori, gli alberi, gli uccelli, gli animali. Sentivo l’aria che mi passava nelle narici e mi faceva respirare. Udivo le voci che salivano nel corridoio come nella volta di una cattedrale. Mi trovavo vivo. Fremevo di pura gioia. La felicità di esistere. Ero incantato.
Grazie, Dio, di aver fatto questo per me. Avevo l’impressione che mi prendessi per mano e che mi conducessi nel cuore del mistero a contemplarlo. Grazie».
Muore, Oscar. Muore non perché i genitori, o il medico, hanno deciso, “per il suo bene” (!), un’iniezione letale. Muore quando giunge la sua ora. Ma grazie alla compagnia di chi gli è stato amorevolmente accanto, muore sazio di vita.