Adozioni a coppie gay
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Omosessualità eziologica
La genesi biologica
Il primo a tentare di gettare le basi della natura biologica (quindi, innata) dell’omosessualità, fu Magnus Hirschfeld (1868-1935), medico tedesco, omosessuale militante, dedito al travestitismo femminile, considerato tra i fondatori del movimento gay internazionale. La sua raccolta di documenti – ottenuti studiando le abitudini sessuali dei frequentatori di un bordello annesso al suo istituto di ricerca – andò letteralmente in “fumo”: gerarchi nazisti ne ordinarono il rogo, quando si accorsero di far parte del “campione” studiato, temendo di vedere pubblicate le personali abitudini sessuali perverse.
Ipotesi ormonale
L’ipotesi di una causa “ormonale” dell’omosessualità fu la prima a essere presa in considerazione, ma venne rapidamente abbandonata, essendo emerso che gli ormoni – pur avendo un ruolo fondamentale nello sviluppo degli organi genitali e dei caratteri sessuali secondari – non avrebbero un particolare effetto sull’orientamento sessuale della persona (al massimo, possono incidere sul cosiddetto “appetito sessuale”). William H. Perloff, una delle massime autorità scientifiche sul tema, chiuse l’argomento con l’affermazione che ”l’omosessualità è un fenomeno puramente psicologico, la cui etiologia non dipende da un fatto ormonale e la cui modificazione non è conseguibile con sostanze endocrine”. Più recentemente, con studi inerenti il ruolo della struttura genetica del cromosoma Y e la sua espressione in termini di produzione ormonale (androgeni e testosterone), si è configurata la possibilità che la carenza patologica di ormoni maschili durante lo sviluppo embriofetale possa giocare un ruolo in ordine alla “mascolinizzazione”, alla vis sessuale, e anche all’orientamento sessuale.
Ipotesi neurologica
Nel 1978 veniva pubblicato uno studio dell’Università della California (USA) in cui veniva descritta una precisa diversità morfologica cerebrale tra sesso maschile e femminile (R.A. Gorski, J.H. Gordon, J.E. Shryne, A.M. Southam, Evidence for a morphological sex difference within the medial preoptic area of the rat brain, “Brain Research”, 148, 1978, pp. 333-346). Si era evidenziato che uno dei nuclei ipotalamici anteriori, nucleo preottico, presentava nei ratti maschi un volume maggiore rispetto alle femmine. Simon LeVay, neuroscienziato di San Diego (California) e noto attivista gay, pensò che il medesimo dimorfismo sessuale poteva presentarsi nell’uomo, e che potesse anche spiegare il comportamento sessuale. Così nel 1991 pubblicò su “Science” uno studio in cui dichiarava:
-anche nel maschio umano il “nucleo 3 dell’ipotalamo anteriore” è più voluminoso che nella femmina;
-studiando un gruppo di 27 gay morti per Aids, il suddetto nucleo aveva dimensioni inferiori rispetto agli eterosessuali, ed era invece molto simile volumetricamente a quanto si rileva nelle femmine;
-conclusione: “Questi risultati indicano che il nucleo ricercato presenta un dimorfismo in relazione all’orientamento sessuale, almeno negli uomini, e suggerisce che l’orientamento sessuale abbia un substrato biologico” (S. LeVay, A difference in hypothalamic structure between heterosexual and homosexual men, “Science”, 253, 1991, pp. 1034-1037).
Quindi, l’omosessualità ha una base biologica! La comunità scientifica, pur perplessa per una dichiarazione tanto affrettata sulla base di evidenze scientifiche inaccettabilmente esigue, stimando il neuroscienziato, si mise al lavoro, ricercando riscontri positivi. Che nessuno ritrovò. Apertamente attaccato e smentito nel mondo scientifico, LeVay ammise la propria “leggerezza”: “Bisogna considerare ciò che non sono riuscito a dimostrare. Non ho provato che l’omosessualità è genetica, né ho trovato una causa genetica dell’omosessualità. Non ho dimostrato che omosessuali si nasce (in “Discover”, marzo 1994, pp. 64-71)”
Ipotesi genetica
Nel 1993 lo stesso Le Vay pubblicò un libro intitolato Il cervello sessuale (The sexual brain, MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 1993) in cui sostenne la tesi di un certo Dean H. Hamer, genetista dell’Istituto Nazionale del Cancro USA, che affermò di aver individuato un gene localizzato sul cromosoma X, responsabile dell’orientamento omosex (D.H. Hamer et al., A linkage between DNA markers on the X chromosome and male sexual orientation, “Science”, 261, 1993, pp. 321-327) Hamer osservò che nelle famiglie in cui era presente più di un figlio omosex, un numero significativo di zii materni avevano anch’essi più di un figlio omosex. Arruolò 40 coppie di fratelli omosex e, ricercando sul cromosoma X, ritenne di aver trovato un gene Xq28 specifico: “Abbiamo dimostrato che una forma di omosessualità maschile si trasmette in modo preferenziale per via materna ed è legata geneticamente alla regione q28 del cromosoma X”. Nel 1995, Hamer allargò il proprio gruppo di ricerca e pubblicò un secondo studio sul medesimo tema (S. Hu, A.M. Pattatucci, C. Patterson, D.H. Hamer et al., Linkage between sexual orientation and chromosome Xq28 in males but not in females, “Nature Genetics” 11, 1995, pp. 248-256).
Stimolati dallo studio di Hamer, si compose un diverso gruppo di ricercatori, che provò a replicare/verificare il lavoro di Hamer, arruolando un nuovo gruppo di 52 coppie di fratelli omosex. Nel 1999 gli AA. concludevano il loro studio dichiarando: ”Questi risultati non supportano l’esistenza di un gene localizzato sul cromosoma X responsabile dell’omosessualità (G. Rise et al., Male homosexuality. Absence of linkage to Microsatellite markers at Xq28, “Science” 23, 1999, pp. 665-667)”. In verità, già nel 1993, due ricercatori della Columbia University, William Byne e Bruce Parsone, analizzando lo studio di Hamer – trovandolo molto lacunoso e, addirittura, con sospetto di manipolazione dei dati – concludevano che “oggigiorno non ci sono evidenze scientifiche che supportino una teoria biologica dell’omosessualità” (W. Byne, B. Parsons, Human Sexual Orientation, Arch. Gen. Psychiatry 50, 1993, pp. 228-239)
Ipotesi cromosomica
Nel 1956, C.M.B. Pare volle verificare la cosiddetta “teoria di Lang” sulla femminilità cromosomica delle persone con tendenze omosessuali. Egli indagò il sesso cromosomico di 50 maschi classificati omosessuali, confrontandoli con un gruppo di controllo composta da 50 maschi e 50 femmine eterosessuali. Il risultato finale fu il seguente: ”Tutti i soggetti omosessuali erano maschi del tutto tipici e l’incidenza della cromatina sessuale era identica all’incidenza del gruppo di controllo”. Altri tentativi in ambito di individuazione di anormalità cromosomiche sono stati esperiti negli anni successivi, ma l’esito è stato sempre identico: anormalità anche grosse dei cromosomi sessuali non hanno ruolo causale dell’omosessualità. Oggi, questa linea di ricerca è stata definitivamente abbandonata.
Ipotesi genetica e ricerca sui gemelli
Il lavoro veramente “pionieristico” in questa direzione venne condotto nel 1960 da Rainer, Mesnikoff, Kolb e Carr, e venne pubblicato sulla rivista “Psychosomatic Medicine” (n. 22). I ricercatori giunsero alla seguente conclusione: “L’esame degli studi condotti in questi ultimi quattro anni su un numero considerevole di coppie di gemelli monoculari rivela la presenza di sole due coppie con caratteristiche veramente notevoli”. Un analogo studio venne ripreso e condotto nel 1991 dai genetisti Bailey e Pillard, focalizzando l’attenzione sulla cosiddetta “proband-wise concordance” (PWC). Di che cosa si tratta? È la misura per cui viene conteggiata ogni persona con tendenze omosessuali che ha un gemello con le stesse tendenze. Risultò che i gemelli omozigoti hanno una PWC del 52%: di per sé questo risultato è già sufficiente a smontare l’ipotesi genetica dell’omosessualità, perché trattandosi di gemelli geneticamente identici era scontato aspettarci una PWC del 100%. Ma emersero altri dati molto interessanti: i gemelli di omozigoti omosessuali avevano una PWC del 22%, i fratelli non gemelli del 9,2% e i fratelli adottivi (quindi, geneticamente completamente diversi) del 10%. Risultò chiaro che altre cause, non riconducibili all’assetto genetico, giocavano un ruolo essenziale, prime fra tutte le relazioni familiari e l’ambiente socioculturale in cui si realizza lo sviluppo psichico del bimbo. Numerosi studi successivi, confermarono le conclusioni di cui sopra. In verità, qualche anno prima di Bailey e Pillard, uno studio condotto studiando il comportamento (in generale, non specificamente sessuale) di 55 coppie di gemelli omozigoti che erano stati divisi e cresciuti in ambienti completamente diversi, aveva evidenziato un dato significativo anche per il tema in discussione: di queste 55 coppie, in 6 coppie un gemello aveva tendenze omosessuali, e di queste 6 solo 1 aveva entrambe i gemelli – cresciuti in ambienti diversi – omosessuali. Lo stesso Hamer, alla fine, dovette riconoscere:
“Da studi effettuati sui fratelli gemelli, sappiamo che nella maggior parte dei casi l’orientamento sessuale non è ereditario (1995)”
Ipotesi antropologica: l’ordine di nascita della persona omosessuale
È un filone di ricerca che si poneva come obbiettivo di verificare se vi fosse un rapporto significativo tra la persona omosessuale e il proprio ordine di nascita all’interno della famiglia d’origine. I modelli valutati sono stati numerosi, prendendo in considerazione anche molte variabili, come il sesso dei fratelli precedenti e seguenti, il rapporto maschi/femmine, l’età dei genitori e di ogni fratello, ecc., cioè tutte le possibili variabili inerenti le caratteristiche del contesto familiare. L’esito finale, comune sostanzialmente a tutti gli studi, fu che le relazioni familiari giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo della personalità e, quindi, anche dell’orientamento sessuale. Interessante – in questa direzione – è la constatazione riportata da Bogaert, Barman e Brukner che ” i maschi appartenenti a coppie di gemelli di sesso diverso hanno una probabilità più alta di sviluppare tendenze omosessuali rispetto a ogni altro gruppo di soggetti”. Tutto ciò non fa che confermare l’importanza dell’ambiente familiare e sociale in cui avviene lo sviluppo del bimbo. Nel 2010, sulla rivista “Neuroscientist” (16, pp. 550-565), apparve un articolo (A.M. Bao e D.F. Swaab) in netta controtendenza con tutta la bibliografia precedente, in cui si afferma che ”allo stato attuale non vi sono prove che l’ambiente sociale post-natale abbia un effetto cruciale sull’identità di genere o nell’orientamento sessuale”.
Non può sfuggire la “strana” coincidenza temporale fra quest’articolo e l’irrompere sulla scena pubblica del tema delle “adozioni gay”.
Conclusioni
In modo sintetico, per quanto attiene lo studio della componente “biologica” dell’omosessualità possiamo affermare di avere raggiunto alcune documentate conclusioni:
1. Non esiste un gene dell’omosessualità.
2. Non vi sono anomalie cromosomiche che spieghino l’omosessualità.
3. L’omosessualità non è ereditaria in termini genetici.
4. Assume un ruolo di grande importanza l’ambiente “biografico” in cui avviene lo sviluppo del bimbo (relazioni familiari, modello educativo pedagogico-culturale, ambiente sociale).
5. Lo studio sui gemelli omozigoti evidenzia un quid in termini di “fattori di predisposizione” non meglio sostanziabili sul piano biologico, per la cui espressione comportamentale gioca un ruolo ancora più determinante l’ambiente socio-familiare in cui avviene la crescita del soggetto.
Non si può categoricamente escludere a priori che in alcuni, particolari casi fattori biologici, genetici e neurologici, non possano giocare un ruolo nello sviluppo dell’orientamento omosessuale, ma questi vanno affrontati ed interpretati come “co-fattori” interagenti con il determinante rappresentato dall’ambiente “biografico”.