#Domenico Mauroantonio, una morte che interroga la nostra vita
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Fare polemiche sui social o sui giornali è cosa semplice. Non si deve guardare in faccia l’interlocutore, rendere ragione di quello che si afferma. Puoi trovare un capro espiatorio, insultarlo, affibbiargli le colpe di un fatto accaduto o dei mali del mondo, come se tu fossi un giudice senza colpe e senza peccato, poi scordartelo, tornare alla tua vita sino al prossimo twit. Non sfugge a questa logica nemmeno la morte di Domenico Maurantonio, il ragazzo di Padova in gita scolastica a Milano che è precipitato dal quinto piano di un albergo. Colpa di chi non ha vigilato, di chi ha messo in atto uno scherzo finito male, dicono coloro che si affrettano a dar aria alla bocca prima di sapere. Le responsabilità per quanto accaduto sarà la magistratura ad appurarle.
Io vorrei solo tentare una riflessione, perchè nessuno restituirà alla famiglia e alla vita Domenico, ma noi dobbiamo pur chiederci cosa passa nella testa di questi giovani che sembrano sentirsi invincibili, che temono più la vita della morte.
Non stiamo parlando di bambini sfuggiti al controllo di un adulto. Si tratta di ragazzi diciannovenni in gita scolastica, ragazzi maggiorenni, a quell’età si guida l’auto, si ha diritto di voto, si è responsabili penalmente dei gesti compiuti.
Probabilmente era l’ultima gita prima dell’esame di maturità, prima di dare una svolta alla vita, il lavoro, l’università, l’età adulta che si affaccia e che spesso il mondo intero ci invita a respingere, in quello che sembra il gioco dell’eterna giovinezza.
Non sappiamo ancora cosa sia accaduto, solo che tutti avevano bevuto molto, dicono i compagni di stanza.
Viene da chiedersi cosa cercano questi giovani, a cosa aspirano, quali sono i loro sogni, che progetti hanno, quali sacrifici sono disposti a fare per realizzarli, siamo riusciti ad insegnare loro a camminare sulle proprie gambe? Perché gli adulti, padri o madri che siano, insegnanti o allenatori, nonni o catechisti, altro compito non hanno che quello di aiutarli ad andare nel mondo a testa alta, con la certezza che la vita vale la pena di essere vissuta. Non possiamo sempre controllarli, proteggerli, tenere bassa l’asticella per preservarli dalla fatica del vivere. Questo atteggiamento li cresce deboli e insicuri.
Qui non si tratta di guardarsi con coraggio allo specchio, di chiederci cosa vogliamo dalla vita, qual è la via che abbiamo scelto per essere felici, perché è quella via che noi adulti “vendiamo” ai giovani, ai nostri figli, ai nostri studenti, alla gioventù che ci guarda vivere che si sente onnipotente.
Recentemente ho avuto la fortuna di passare una settimana insieme a un gruppo di persone tra le quali due giovani ragazze, allegre, spiritose, belle, sorridenti, ballerine di professione.
La prima tra qualche mese si laureerà in architettura, insegna danza e fa molte altre attività come molti altri giovani per arrotondare lo stipendio. La seconda viaggia con una compagnia di ballo che mette in scena spettacoli sulle navi da crociera, ama Leopardi, la campagna toscana dove è cresciuta. Entrambe hanno una vita che molti loro coetanei potrebbero invidiare, ma dietro a questa vita frenetia, ai viaggi, agli spettacoli, alle fotografie, alle loro risate sincere, alla loro professionalità (erano con noi per posare per delle fotografie) c’è lavoro, fatica, rinunce, prove, allenamenti, settimane lontane da casa, poco tempo per coltivare l’amore, dietro alle scarpette da ballo, ai tutù, agli abiti vaporosi con cui danzano o posano, c’è quello che con una parola che può sembrare desueta si chiama sacrificio. Ascoltandole mi è parso evidente che il loro cuore aveva lo stesso desiderio mio, lo stesso desiderio di tutti. Come il desiderio di Domenico e dei suoi compagni di classe, il desiderio di essere felici.
Anche loro cercano “felicità”, un po’ a tentoni, un po’ spaventate dalla vita, dalle sconfitte dalle delusioni che qualche volta la vita ci riserva, hanno la con la speranza che i loro sogni si realizzino e con il timore che ciò non accada.
Di certo “allenate” alla fatica, al sacrificio, sono certa sapranno affrontare, non come una disgrazia, ma come un’opportunità la vita e il futuro che le attende.
I figli che mettiamo al mondo non sono nostri, a noi guardano per imparare ad andare nel mondo, a noi guardano per poter vagliare se quanto abbiamo cercato di trasmettere loro sia un bagaglio buono, come un viaggiatore d’altri tempi, che prima di salpare, ascoltava i racconti di chi aveva toccato prima di lui terre lontane e sconosciute, ma poi vagliano, sperimentano, cercano la loro strada.
Mi viene da chiedere cosa sia che li fa sentire onnipotenti, come se la morte non dovesse mai sfiorarli, come se si trattasse sempre di un videogioco, dove la vittima si rialza e riprende a vivere.
Quale vuoto, quale paura, li porta a cercare il nulla, nell’alcool che ti stordisce, nella droga, nella spasmodica ricerca di emozioni forti.
Siamo diventati uomini e donne tiepidi, incapaci di testimonianze forti, abbiamo diluito anche il cristianesimo pensando che chiedendo meno, si sarebbe ottenuto di più, non è così, la realtà è caparbia e ci dice che abbiamo perso.
Nel vangelo c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno. La vita è un dono, la realtà non è maligna, quello che ci accade non è per il nostro male ma per la nostra conversione, non ci resta che prendere seriamente la conversione del nostro cuore, si cambia il mondo cambiando noi stessi.