Una donna così...
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L’ho osservata, in questi due giorni. Ho visto come gli parla e come parla di lui. Come lo aiuta a mangiare, a vestirsi, a sedersi bene. Come gli tiene la mano. Ho capito che lo ascolta sempre con amorevole attenzione, ma a volte lo asseconda e a volte no. Se c’è da rimproverarlo, lo fa. Ho visto come si guardano negli occhi e come quel solo guardarsi è capirsi. Fino in fondo.
Avevo già letto la loro storia nel 2012 e l’ho voluta rileggere in questi giorni, dopo le lunghe chiacchierate al telefono per prendere accordi. Loro sarebbero venuti qui, e li avremmo fatti conoscere ad alcuni studenti delle classi superiori della città in cui vivo. Poi, la sera, un incontro aperto a tutti.
Ricordo che l’avevo divorato, quel libro con la copertina arancione e i loro volti in primo piano. L’incidente, il 15 agosto del 1991, il coma, i medici che dicono che per quel giovane non c’è nulla da fare. «Vedete quel tronco morto giù in giardino? E’ stato colpito da un fulmine anni fa. Vostro figlio è così, non potrà mai più fare niente: il suo cervello è come una centralina elettrica nella quale si sono bruciati tutti i fili», avevano detto. Ma mamma e papà non ci stanno, non gettano la spugna. Decidono di portare il figlio a casa per provare ad accudirlo lì, a curarlo lì.
Poi il racconto dei dieci anni in stato vegetativo: i problemi, le paure, le difficoltà, ma anche tanti, tantissimi amici che girano ogni giorno per casa per dare una mano come possono. Gli amici storici, ma anche volontari, pensionati, giovani dell’oratorio… Poi le visite specialistiche, la fisioterapia… Lei, la mamma, non ha mollato mai. Sentivo che c’era, l’ho sempre trattato come persona, non come malato, dice anche oggi. “Bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato…” Sono queste parole a darle il coraggio di alzare la voce in ospedale, dai medici, all’Asl. Chiedevo per lui le cose di cui aveva diritto, aveva scritto in quel libro. E già allora, alla prima lettura, mi dicevo che una donna così dovevo conoscerla, assolutamente. Un concentrato di amore e tenacia come a 50 anni non credo mai di aver visto. Anche il marito, certo. Anche Barbara e Gabriele, gli altri figli, certo. E così gli amici, che hanno sempre mantenuta accesa la speranza. Ma lei di più. Tanto che gli amici che in questi anni hanno condiviso e sostenuto le fatiche di questa famiglia, si sentono tutti un po’ “figli”. E mentre loro seguivano l’amico per gli esercizi di fisioterapia, necessari anche durante lo stato vegetativo, e ogni giorno gli tenevano compagnia e lo stimolavano con le loro voci, con la musica, lei preparava pizze, focacce, torte per tutti. Per ricambiare. Perché nella vita si dà, si riceve. L’amicizia e l’amore sono questa roba qui.
Poi, nel 2000, quel figlio che per quasi dieci anni non aveva dato “segni di vita” – del resto l’avevano detto, i medici, che non c’erano speranze, e di non farsi illusioni – beh, a Natale del 2000 quel figlio è “tornato”. Qualche timido abbozzo di sorriso, il segno della croce da solo, i gesti con la mano che per un po’ sono stati la sua voce, e finalmente qualche parola. «Sentivo e vedevo tutto», ha poi fatto capire. C’ero. C’era sempre stato.
Immaginatevi lei, la mamma. Ci sei, ce la puoi fare. Forza, coraggio, lotteremo tutti insieme. Ancora fisioterapia, tanta; inizia la logopedia, l’arte-terapia. Non demordono, gli amici, che anzi riprendono lena. E lei, ancora di più, che lo tratta come tutti, non come un malato.
«Dammi la forza», aveva chiesto a Lourdes, per questo figlio in coma. Volevo chiedere il miracolo – racconta – poi, davanti alla grotta, ho visto tanti bambini malati, in carrozzina. Io mio figlio l’ho visto sano fino ai vent’anni, per vent’anni ha praticato tutti gli sport che voleva, ha corso, è stato con gli amici, ha potuto cantare, muoversi divertirsi… Non posso chiedere, io, quella grazia. Dammi la forza, e sia fatta la Tua volontà.
Forza ne ha, come un leone. No, una leonessa. Sapete, quella che guai a toccarle i cuccioli. Lei, uguale. Io non mollo mio figlio, aveva detto ai medici sin dal primo giorno.. «Un figlio è un dono. Quali che siano le sue condizioni, tocca ai genitori amarlo e custodirlo, offrendogli tutto quello che possiamo, nessuno può prendere il nostro posto e sostituirci», ha scritto nel libro.
Lei si chiama Lucrezia Povia, classe 1948. E’ la mamma di Max Tresoldi. Sono venuti a raccontare la loro storia – 10 anni di “coma” e ritorno – prima agli studenti degli Istituti superiori e poi, la sera, a chi volesse sentirla. Li ho osservati, non li ho persi di vista mai perché volevo capire, perché desideravo imparare.
Oggi è l’8 marzo, festa della donna. Non me ne viene in mente un’altra tosta così.