No, mi spiace io non sono Charlie Hebdo
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Parce sepultis! Dei morti bisogna sempre avere pietà. Soprattutto quando sono vittime di efferati crimini come l’attentato di Parigi del 7 gennaio 2015. Pietà, però, non significa immedesimazione con idee o comportamenti delle vittime.
Non possiamo, infatti, dimenticare – e non è giusto farlo in nome di buonismo celebrativo – che la rivista satirica presa di mira dai terroristi e i disegnatori trucidati, sono gli stessi che il 22 novembre 2012 avevano sollevato scandalo, pubblicando una vignetta blasfema in cui veniva rappresentato un amplesso tra Dio e Gesù, a sua volta sodomizzato dallo Spirito Santo. Un sacrilego “trenino gay”, quale provocazione per rivendicare il diritto al matrimonio omosessuale e criticare la posizione “omofoba” della Chiesa cattolica.
Ora che è accaduta questa tragedia, imbarazza il cordoglio lacrimoso per i morti in nome della “libertà di espressione”, mentre disgusta il cinico pianto delle prefiche, quelli che per interesse personale – spesso politico – si mettono in mostra e primeggiano nell’urlare un dolore straziante. All’insegna del kennedyano «Ich bin ein Berliner», si è diffusa a livello virale una planetaria campagna intitolata «Je suis Charlie Hebdo», che ha coinvolto giornalisti, politici, intellettuali, opinon maker, star dello spettacolo, e compagnia cantante. Oggi in Italia cominciato persino a circolare magliette con la scritta «siamo tutti Charlie Hebdo». E no, cari amici, io non mi iscrivo in questa schiera. Io non sono e non voglio essere Charlie Hebdo. Non si può confondere la pietà con la condivisione delle idee dei morti.
La tragedia che è accaduta non può far dimenticare il dibattito sui limiti del diritto di satira. Non si può invocare a pretesto la libertà per offendere gravemente il sentimento religioso di miliardi di persone, per disprezzare con violenza sacrilega la fede di un popolo, per irridere ingiuriosamente chi ha un credo religioso, per mancare di rispetto alla dignità personale di tanti fedeli, per schernire impunemente un diritto fondamentale riconosciuto dall’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
No, io non sono Charlie Hebdo. Mi unisco al cordoglio umano di fronte alla morte causata da mani assassine, ma non mi arruolo nella schiera di chi continua a citare a sproposito la libertà di espressione confondendola con la libertà di offesa.
Dopo il massacro parigino è assai probabile che la satira sarà più cauta con la religione islamica. Continuerà tranquillamente a sfogarsi sui cristiani, che, com’è noto, reagiscono mansuetamente e tendono sempre a porgere l’altra guancia. E’ triste però pensare che i sacrileghi della matita conoscano solo il linguaggio della violenza e non sappiano, invece, fare un serio esame di coscienza su cosa significhi rispettare la dignità e il credo religioso delle persone. Arretrano solo di fronte all’uso cruento e disumato della forza.
Aggiungo una piccola postilla. Le ultime agghiaccianti statistiche ci dicono che muoiono cinque cristiani al minuto a causa della loro fede. La quasi totalità di quegli eccidi a ritmi che ricordano la Endlösung der Judenfrage, ovvero la famigerata “soluzione finale” dei lager nazisti, è dovuta al fondamentalismo islamico. Eppure non mi pare di aver visto lacrimare molti di quelli che oggi, giustamente, piangono per Charlie Hebdo, e si accorgono della violenza del fondamentalismo musulmano. In realtà i cristiani uccisi in nome di Allah non meritano neppure una lacrimuccia, perché loro sono i paria delle vittime del fondamentalismo sanguinario. Ma questo già lo sapevamo.
Io, comunque, piango umanamente la morte di Stephan Charbonnier, direttore del settimanale Charlie Hebdo, come piango la morte della diciottenne pakistana Mariah Manisha di Faisalabad, l’ultima ragazza cristiana uccisa in odium fidei dal fanatismo islamico, perché la sua vita non vale meno di quella di un vignettista parigino.