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“Chi mi libererà dal mio male, non della vita?”

Autore:
Costa, Luca
Fonte:
CulturaCattolica.it

Nel momento in cui gli organi e le istituzioni delle nostre democrazie disconoscono ogni principio trascendente - ad esempio quello del rispetto incondizionato della vita umana - nel momento in cui tutto diventa negoziabile in base al comune sentire della maggioranza (un comune sentire preso in considerazione solo dopo che la maggioranza è stata ben lavorata ai fianchi dai media), la democrazia finisce per accordarsi il potere di decidere chi è degno di vivere e chi no, quale vita è degna di essere vissuta e quale invece va spenta (per compassione si intende).
Il modernismo techno - liberal - socialista ha ormai emesso la sua sentenza: in una società del comfort, dove il sacrificio non ha più nessun valore, la conseguenza della sofferenza deve poter essere ineluttabilmente il suicidio assistito. E questo poter essere va tradotto in legge dello Stato.

La Corte europea dei diritti dell’uomo esamina in questi giorni il caso di Vincent Lambert (in stato minimamente cosciente in seguito ad un incidente d’auto avvenuto nel 2008, per il quale la famiglia chiede ai giudici la sospensione del nutrimento e dell’idratazione). Deve vivere o morire? La sua esistenza fisicamente immobile ha senso? O lo Stato stabilirà che qualcuno ha il dovere di ucciderlo, poiché lui da solo non ci riesce? Il filosofo francese Fabrice Hadjadj si interroga sulle pagine di Le Figaro, ponendo alcuni interessanti interrogativi riportati di seguito e uniti ad alcune personali considerazioni.

Nell’antica Grecia, il maestro di Diogene di Sinope, Antistene, soffriva di atroci dolori a causa della tubercolosi. L’allievo, sentendolo lamentarsi di continuo al grido di: “chi mi libererà dal mio male?”, gli presentò un coltello dicendogli: “ecco maestro!” - ma Antistene rispose: “ho detto del mio male, non della vita”.

Ogni malato che dice di non voler più vivere, in realtà non vuole più soffrire, la vera soppressione da lui richiesta è quella del male, e non della vita. Ora, perché i malati terminali che soffrono non hanno accesso alle cure palliative, perché su queste cure non si investe più? Perché il malato terminale è considerato inutile, un costo inutile in un momento di crisi, uno scarto improduttivo, buono solo per essere l’oggetto di una sentimentalista compassione omicida? Il silenzio intorno a tali questioni scottanti è assordante.

Davvero la formula tanto amata dai progressisti “diritto di morire nella dignità”, corrisponde alla pratica di sopprimere esseri umani con punture da clinica veterinaria, in nome di una orgogliosa conservazione della propria lucidità e nel rifiuto di un dolore che chi dovrebbe curare rifiuta di curare? Ricordiamo che oggi in Francia oltre la metà dei malati terminali non ha accesso alle cure palliative, muore nel dolore mentre i mezzi per alleviare questo dolore esistono e sono efficaci nell’85% dei casi! Perché?

Se ci ricordassimo più spesso che compatire vuol dire soffrire con…allora ci sarebbe ancora più da discutere…

Fonte: Le Figaro, 7 gennaio 2015 “Quale avvenire per l’incurabile nel mondo della performance?” di Fabrice Hadjadj

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