Il diritto di firmare
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Nella recente lettera del «Foglio» a papa Francesco, viene chiesto al Pontefice di “aiutarci a promuovere una controffensiva di preghiera, di azione pastorale, di idee” nei confronti delle accuse mosse al Vaticano (di fatto alla Chiesa) dal Comitato Onu sui diritti dell’infanzia. Ritengo più che legittimo interrogarsi se tale modalità comunicativa sia non solo la migliore, ma anche opportuna: come di fronte a tutte le cose, anche di fronte a questa si dovrebbe cioè aver il diritto non solo di non firmare, ma anche di invitare altri a non farlo. Non sempre, però, le motivazioni addotte risultano convincenti: non riesco, ad esempio, a capire in che senso, come si evince dagli articoli di Vincenzo Tondi della Mura e di Federico Pichetto apparsi sul sussidiario.net, firmare quell’appello comporterebbe un andare contro al significato della presenza della Chiesa nel mondo.
Che il potere spirituale e il potere temporale non siano la stessa cosa e che, quindi, gerarchie ecclesiastiche e laici possano (e a volte debbano) agire autonomamente le une dagli altri è assodato almeno fin dai tempi di Gregorio VII. Ma perché la richiesta da parte di un gruppo di laici al Papa di prendere posizione su un certo argomento dovrebbe essere un esempio, come vuole Tondi della Mura, di “teologizzazione della politica” e di “cesaropapismo”?
Credo che il rischio di confondere politica e religione si presenti non quando le due parti cercano un dialogo su quel terreno comune (la verità) che non è possesso esclusivo di nessuna delle due (in quanto le supera entrambe), ma quando, viceversa, non lo cercano: tirannia politica e tirannia religiosa nascono non dal dialogo sulla verità, ma dal dualismo tra politica e religione sulla base della convinzione che, essendoci due verità diverse (una politica e una religiosa), tra le due sia possibile solo conflitto e/o supremazia assoluta di una sull’altra.
La Chiesa, quindi, diventa partito non quando si impegna nella battaglia per la verità (come invece ritengono i due autori in questione), ma quando rinuncia a essa: è vero, come vuole Pichetto, che la Chiesa non è un partito, ma questo è un argomento non contro (come vuole lui), ma a favore del dovere, proprio della Chiesa, di contrattaccare gli erranti in difesa della verità. E non credo che l’episodio di Gesù che riattacca l’orecchio del servo del sommo sacerdote al Getsèmani significhi che il servo venne messo “nelle condizioni fisiche migliori per nuocergli”; così come non credo proprio che l’Eucaristia sia una presenza “muta” e francamente non vedo come l’episodio di Gesù di fronte a Pilato possa servire a giustificare l’immobilismo del credente nella sfera pubblica: mi sembra infatti che Gesù abbia detto a Pilato di essere venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità.
Il dualismo tra politica e religione è figlio del dualismo tra ragione fede e, come quest’ultimo, non giova (purtroppo) alla missione della Chiesa (annunciare Cristo agli uomini offrendo loro la possibilità di salvarsi dal peccato), ma fa il gioco del relativismo culturale odierno: ritenere, caro Pichetto, che sia più importante sperare che Hollande si formi una famiglia rispetto al fatto che riveda la sua legislazione sulla famiglia significa non solo non essersi accorti che la testimonianza pubblica della verità rientra nel paolino “guai a me se non annuncio il Vangelo!”, ma anche (a causa di questa dimenticanza) rinunciare del tutto a giocare la partita della fede, preferendo, al campo da gioco, la panchina (comoda?) dell’avversario.
Quando dovette delineare il ruolo dei laici nella Chiesa, il beato John Henry Newman non si limitò a dire di volere un laicato “non arrogante, non precipitoso nel parlare, non polemico”, ma aggiunse di volerlo anche “conoscitore della propria religione [….], in grado di rendere ragione del proprio credo, conoscitore a sufficienza della propria religione da essere in grado di difenderla”: e non credo che John Henry Newman sia accusabile da Pichetto di volere un laicato prono ai dettami della gerarchia e non in grado di agire senza l’imprimatur di quest’ultima (come secondo lui sarebbero invece i promotori della lettera del «Foglio»), visto che, proprio sul ruolo dei laici, è considerato uno dei padri spirituali del Concilio Vaticano II.
In fondo, ci sarà pur stato un motivo se Gesù, nonostante avesse già vinto il mondo, abbia poi anche chiesto di percorrerlo in lungo e in largo per evangelizzare le genti e si sia ostinato a insegnare che, per essere cristiani, non basta che Egli viva in noi, ma dobbiamo anche fare discepoli. Almeno tentare: altrimenti, prima o poi, Cristo non vivrà più nemmeno in noi.