Gli “amanti (?) del Lutetia”
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(Umberto Saba, Ulisse)

Notizia. «Bernard e Georgette Cases, 86 anni, hanno prenotato una suite all’hotel Lutetia, uno dei più lussuosi di Parigi, hanno ordinato la colazione per il mattino dopo, poi si sono stesi vestiti sul letto. Il cameriere che portava il caffè, il mattino seguente, li ha trovati senza vita. Accanto a loro, morti suicidi, una lettera contro lo Stato francese che nega l’eutanasia. Bernard e Georgette erano sani, ma terrorizzati dall’idea di morire uno prima dell’altro. Avevano chiesto la dolce morte, ma i medici l’avevano negata».
Altra notizia. «Il Belgio è diventato il primo paese al mondo che consente di praticare l’eutanasia anche sui bambini, senza limiti di età».
Ho aspettato qualche giorno, prima di scrivere, per vedere le reazioni. Sull’eutanasia ai bambini, sì, si sono levate alcune voci dal mondo cattolico, mentre la (solita) associazione Coscioni si chiede perché no anche in Italia, quanto si dovrà ancora aspettare.
Sul suicidio degli “amanti del Lutetia”, come li hanno soprannominati, ho trovato poco e niente. E mi viene in mente la risposta che la settimana scorsa ha dato il custode del giardino pubblico in cui è avvenuto lo stupro del branco ai danni della quattordicenne di Molfetta: «Non sono intervenuto perché non erano fatti miei». Idem le tre ragazze che hanno visto tutto, sedute su una panchina della villa. Idem le amiche che sapevano e sono state zitte.
Oggi, l’aria che si respira è questa: mortifera e pilatesca. «Non mi riguarda. Non sono fatti miei».
E’ questo che dicono o che pensano anche certi cattolici rispetto all’eutanasia, o al testamento biologico. E’ quello che dicevano e dicono per l’aborto. Non lo farei mai ma non posso impedirlo agli altri, ognuno è padrone della propria vita, ciascuno decida come crede… e via di “libertà” in “libertà”, di menefreghismo in menefreghismo.
Non sono una giurista, non sono un politico, sono solo un’insegnante. Ma in classe, ieri, ho aperto il giornale e ho letto la storia di Bernard e Georgette. E non occorre avere un’intelligenza superiore alla media per cogliere il modo in cui è stata data la notizia: glissando sul fatto che – per ciò che ci è dato sapere – marito e moglie fossero sani e senza problemi, e calcando invece, romanticamente, sull’immagine di questi coniugi spirati tenendosi per mano, e che non sopportavano l’idea di poter morire l’uno prima dell’altra. Se non è amore questo…
Ho letto di questa resa rabbiosa, di questa morte per soffocamento in una stanza bella ma anonima, di un hotel che non è la propria casa. Poi abbiamo letto le poesie che dovevamo leggere. Perché non serve modificare i programmi ad hoc, per commentare la realtà: la letteratura ha da dirci ogni giorno qualcosa.
In terza abbiamo appena studiato il canto XXVI dell’Inferno: Ulisse. Dante, attraverso di lui, riflette sulla statura dell’uomo. «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza».
Non si suicida, Ulisse. Varca le colonne d’Ercole. Vuole «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore». Non chiede ai compagni «dammi una lametta che mi taglio le vene»: pur «vecchi e tardi» li spinge a proseguire il viaggio, dopo i «cento milia perigli».
Ma in classe stiamo leggendo anche altri autori che, dopo Dante, hanno raccontato il “loro” Ulisse: Tennyson, D’Annunzio, Pascoli, Saba, Levi, Kavafis…
Nessuno ha immaginato un Ulisse che rifiuta la vita, che interrompe il viaggio anzitempo.
Questo, Tennyson. «We are not now that strength which in old days Moved earth and heaven, that which we are, we are, / One equal temper of heroic hearts, / Made weak by time and fate, but strong in will / To strive, to seek, to find, and not to yield» (Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza / più che nei giorni lontani moveva la terra ed il cielo: / noi, s’è quello che s’è: una tempera d’eroici cuori, / sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri / sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai».
Questo, Kavafis. E sono solo due esempi. «Tieni sempre Itaca a mente: / raggiungerla è il tuo ultimo scopo. / Non affrettare però minimamente il viaggio, / meglio lasciarlo durare molti anni; / attraccare alfine all’isola quando sarai vecchio, / ricco di tutto ciò che avrai raccolto per strada».
No, se qualcuno si ammazza perché non ha (più) ragioni per vivere, io non dico, io non dirò «la cosa non mi riguarda, non sono fatti miei». Vita e morte ci riguardano eccome. Ci riguarda la solitudine, la disperazione di chi vuol farla finita. E ci riguarda questa cultura di morte che avanza incalzante. E, ancor più, questo silenzio che è assenso. O palude.
Chi educa i giovani ha un compito che non gli è permesso disertare.
QUI il giudizio di Papa Francesco