“La Vie d’Adèle”: non c'è di meglio???
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«Non ho visto il film “La Vie d’Adèle” di Kekchiche, che ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes» «Allora non ne puoi parlare». «Perché?». «Semplice: perché devi farne tu un’ esperienza, altrimenti…» «Ah, ho capito. Come per la droga: se non la provi, non ne puoi parlare». «Il solito esagerato. La droga è un’altra cosa. Comunque, la critica gli è stata favorevolissima. Non solo, ma anche Radio Vaticana ne ha parlato bene». «Sì???». «Certo. E’ su tutti i giornali. Pare questo il suo commento: “Interpretato da due attrici formidabili (Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos), messo in scena con una fluidità che non fa avvertire lo scorrere del tempo, ricco di scene indimenticabili di esplosione dei sentimenti, La Vie d’Adele è al momento ciò che di meglio ci ha proposto il Concorso”». «Ho capito. E’ quel film che parla di un amore lesbo, che solo per pochi mesi [la ragazzina ha appena 15 anni] non è anche pedofilo…»
Così sono andato sui siti che ne parlano e ho trovato, tra le tante, questa breve recensione: «La Palma d’Oro va ad Abdel Kechiche: come da pronostici, il premio più ambito del Festival di Cannes 2013 è stato vinto da “La vie d’Adèle”, toccante pellicola dell’autore tunisino che conquista così il riconoscimento più significativo della sua carriera.
La storia d’amore tra Adèle, una liceale di quindici anni, ed Emma, misteriosa ragazza dai capelli blu, ha conquistato il cuore della giuria capitanata da Steven Spielberg, oltre a quello dei tanti critici che ne hanno esaltato lo spessore stilistico e narrativo. Anche le due protagoniste, Adele Exarchopoulos e Lea Seydoux, sono state premiate - eccezionalmente - con la Palma d’Oro.»
Ho già detto che non ho visto il film, ma le considerazioni che faccio hanno altra natura. Mi rifaccio alla straordinaria “Lettera agli artisti” che Giovanni Paolo II ha inviato a «a quanti con appassionata dedizione cercano nuove “epifanie” della bellezza per farne dono al mondo nella creazione artistica».
Così egli affermava: «Nel vasto panorama culturale di ogni nazione, gli artisti hanno il loro specifico posto. Proprio mentre obbediscono al loro estro, nella realizzazione di opere veramente valide e belle, essi non solo arricchiscono il patrimonio culturale di ciascuna nazione e dell’intera umanità, ma rendono anche un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune.
La differente vocazione di ogni artista, mentre determina l’ambito del suo servizio, indica i compiti che deve assumersi, il duro lavoro a cui deve sottostare, la responsabilità che deve affrontare. Un artista consapevole di tutto ciò sa anche di dover operare senza lasciarsi dominare dalla ricerca di gloria fatua o dalla smania di una facile popolarità, ed ancor meno dal calcolo di un possibile profitto personale. C’è dunque un’etica, anzi una “spiritualità” del servizio artistico, che a suo modo contribuisce alla vita e alla rinascita di un popolo. Proprio a questo sembra voler alludere Cyprian Norwid quando afferma: “La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere”».
Ma dove sta la bellezza che ci farà risorgere, se l’uomo ha dimenticato la verità dell’amore, quella verità che oramai da tutti i pulpiti è tragicamente cancellata; quella verità che – certo strettamente unita alla carità – la Chiesa ha il compito di testimoniare (e non dimentichiamo che testimoniare significa “martirio”, come Papa Francesco non smette di ricordarci)?
Lo abbiamo oramai ripetuto più volte, ma oggi la persecuzione ha il volto suadente «della disinformazione, la diffamazione, la calunnia, per convincere, far avanzare e – come ogni opera del Demonio – far sì che la persecuzione cresca, contagi e si giustifichi fino al punto di sembrare ragionevole».
Non ci stiamo ad una “ragionevolezza” che dimentica sistematicamente e programmaticamente la verità dell’amore così come la storia millenaria della nostra Chiesa e la Rivelazione biblica ci hanno insegnato!
P.S.: Ecco cosa dice Natalia Aspesi su Repubblica, tanto per non essere fraintesi: «“Adesso siamo una famiglia”, dice Emma ad Adèle, con cui tempo prima ha diviso l’incanto di una travolgente passione carnale: la famiglia è un’altra donna, e non è il sesso a essere essenziale tra loro, piuttosto i due figli di una diventati i figli di tutte e due, la condivisione della quotidianità domestica, l’appartenere alla stessa élite culturale. Ed è per queste poche parole, che alla fine La vie d’Adèle finisce per essere un film militante sui diritti degli omosessuali; non per le lunghe (una almeno 20 minuti) scene di totale possessione carnale tra i due bellissimi corpi nudi di Emma, Léa Seydoux, e di Adèle, Adèle Exarchopoulos, ma proprio per quella piccola frase, “adesso siamo una famiglia”: una famiglia come tante, che oggi in Francia sarebbe riconosciuta.»