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Dio salvi l'America

Fonte:
CulturaCattolica.it

Quando ero piccola era un luogo lontano e fantastico, si raccontava di qualcuno partito per andarci a lavorare e che ne era tornato ricco. Come spesso accade di chi non ha fatto fortuna, o dei sacrifici, delle lacrime e del sudore di chi torna vittorioso non si parla, per pudore o per evitare il dolore. Ma c’era, e c’è, chi all’America attribuiva la colpa di tutti i mali del mondo. Non poteva esserci nessun americano da cui imparare qualcosa, nessun americano portatore di cose buone.
Si è riusciti a scindere il binomio tedesco/campo di concentramento, ma con gli americani no.
Se hanno aiutato la ricostruzione del nostro Paese, avranno avuto i loro buoni motivi, per il resto, con buona pace e superficialità, restano quelli della guerra in Vietnam e di quelle seguite dopo.
Così, quando le torri gemelle sono crollate come costruzioni di pastafrolla e insieme a loro, le vite di tanti e le storie di uomini e donne normali, che erano in quel luogo quel giorno come ogni giorno o per caso, qualcuno ha persino pensato che, se non se lo meritano, almeno se la son cercata, e forse, in fondo, quell’orrore l’avranno pure architettato da sé.
Quando sono stata in America, ho visto i luoghi che ci sono diventati familiari guardando la tv, tutto quello che vediamo in televisione è girato in America, o di cui avevo sentito parlare da chi ci era già stato. Ho visto la grandezza degli spazi, le contraddizioni di un mondo che forse crede di bastare a se stesso, ma che è anche aperto a tutto quanto arriva da fuori, insomma, sono una provinciale e forse non ci vivrei nella grande mela, ma mi è piaciuta.
A Cleveland, il tempo di un semaforo rosso e dell’attraversamento di una strada (otto corsie sia chiaro) uno sconosciuto ci ha chiesto da dove venivamo, e ci ha raccontato che si era trasferito dopo l’attentato alle torri gemelle, prima lavorava a New York. Ho avuto l’impressione che ci tenesse a mettere a corrente anche noi che lui era un sopravvissuto.
A New York dove tutto è esagerato, ho girovagato attorno al sito, dove sorgevano le torri gemelle e mi è stato chiaro, che lo sgomento, la paura, l’orrore provato da chi era in zona quel giorno non è nemmeno lontanamente immaginabile. Quegli attimi che hanno segnato in modo indelebile chi è sopravvissuto, chi è cresciuto sentendosi invulnerabile, sentendosi parte di un grande e unico Paese.
Il paese della libertà, costretto a frugare persino negli sguardi di chi entra, per cercare il nemico, per difendere la propria gente, il proprio nome di paese libero.
E ora ecco Boston, ecco una maratona, meno famosa ma più genuina, storica, ecco di nuovo storie di uomini e donne, salvi per caso, o morti, o dilaniati per caso. E capisci che il caso non esiste, che c’è una storia per ognuno di noi scritta da un Altro. Così c’è chi si è salvato a causa dei crampi che l’hanno rallentato o di un gelato che era andato a comprare e chi è morto perché stava al traguardo ad attendere fiducioso, suo padre.
Qualcuno con estrema semplicità e superficialità ha già chiesto di perdonare, forse perché teme che il dolore generi rabbia e altro dolore, ma penso che il perdono sia un cammino così personale e lungo, che prima ci vorrebbe un po’ di giustizia. Perché chi è così diabolico da far esplodere un ordigno micidiale, hanno parlato di una pentola a pressione piena di chiodi, non può avere nessuna rivendicazione da portare a sua giustificazione. Si tratta del buio della mente, che oscura il buonsenso prima ancora che l’intelligenza e il cuore. Si tratta del diavolo che crede di poter governare il mondo servendosi della capacità di fare il male degli uomini. Ma non è mai accaduto che il diavolo vinca, là dove c’è anche un solo uomo che si sente amato da Dio e quindi capace di continuare ad amare.

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