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Come si fa quando il mare diventa burrasca...

Fonte:
CulturaCattolica.it
«Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano / getto a una rupe, a un albero, a uno stelo, / a un filo d’erba, per l’orror del vano! / a un nulla, qui, per non cadere in cielo!»
(Giovanni Pascoli, La vertigine)

La notizia sui media, i commenti su Facebook. Questo resta, di C e D, le due giovani che si sono tolte la vita, a gennaio appena iniziato. Il tempo di un tweet, due tweet, dieci tweet e poi basta. La notizia scivola via e si passa ad altro: alla campagna elettorale che incalza, a nuovi fatti di cronaca.
Nel turbinio io ho detto stop, mi sono fermata. Non ho inseguito notizie nuove, ho portato in classe queste due ragazze e la loro storia: in seconda, in terza, in quinta liceo. Abbiamo provato a metterci nei loro panni, nella loro fatica di adolescenti e abbiamo capito che la loro inquietudine è la nostra, le loro domande sulla vita sono le nostre. Anche la loro fragilità.
Su questo ci siamo interrogati. Ma anche sui social network. Sul fascino e sugli inganni della rete, sul bene che fa e anche sul male. Sul virtuale nel quale ci rifugiamo e sul reale in cui annaspiamo.
Perché non possiamo far finta di non vedere, di non sapere. Perché il loro salto nel vuoto di senso, Dio non voglia che un giorno sia il nostro. Perché la scuola non è un altro mondo: è un pezzo di mondo nel mondo.
Ho chiesto e ho lasciato parlare. Ho ascoltato.
Sanno più di noi, i ragazzi: sulla vita di C e di D. Su quel che gli amici prima e dopo hanno scritto su Facebook e su Twitter. Sanno, ma a casa di queste cose non parlano, neanche a scuola.
E allora capisci perché sembrano fiumi in piena e sono contenti che qualcuno, finalmente, si fermi e dica ciò che è accaduto mi interessa; trovi tempo e coraggio di dar voce a C e a D, e si lasci interrogare dal loro grido di dolore.
E allora in classe parliamo dell’amicizia, del cammino della vita, della fatica e della bellezza che sono dono di ogni giornata. Parliamo dell’errare inquieto dell’adolescenza, del tempo che è occasione di crescita, di come giocare la nostra libertà di esseri umani pensanti. Parliamo delle azioni che compiamo e delle inevitabili conseguenze, perché nella vita indietro non si torna. Parliamo di giustizia e di misericordia. E poi degli adulti che abbiamo intorno: di come sono e di come li vorremmo.
Alla fine raccontano di sé, i ragazzi, anche i più timidi, e capisci che ciò che cercano è uno sguardo paterno e materno che guida ed accoglie, che regge e corregge.
Vorrei che i miei mi vedessero quando faccio bene e anche quando sbaglio, dicono. Poter correre lì e trovare un abbraccio. Alzarmi e ripartire se cado, e ritrovare la strada. Vorrei poter guardare voi adulti e sapere come si fa quando il mare diventa burrasca. Guardarvi e imparare dove ancorare la vita. Per non cadere nel vuoto… anch’io.

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