Ero alla festa del compleanno del Papa
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(Gustave Thibon, Il pane di ogni giorno)

C’ero, alla festa di compleanno del Papa. C’ero, lontana eppur vicinissima con la preghiera. C’ero, con il cuore di una bambina che sente, sicura, la mano del padre che stringe la sua e, insieme, con la serenità della figlia ormai adulta che vive la sua vita certa che il padre, non accanto fisicamente, però “c’è”.
C’ero, al compleanno del Papa, e mi sono sentita al sicuro. Come lui. «Parte della nuova famiglia di Dio che è più forte di tutte le forze negative che ci minacciano».
C’ero. Ed ho gioito con lui, ho festeggiato con lui, ho ringraziato Dio con lui e per lui.
C’ero e, bambina e adulta insieme, mentre lo guardavo e lo ascoltavo, ho capito che, come accade solo nelle feste più belle, chi riceve di più, alla fine, sono gli invitati. L’abbiamo raccontato nel nostro sito.
Ho provato la stessa sensazione oggi, all’Udienza generale del mercoledì.
Mentre il mondo è ingolfato nelle cose di quaggiù, il capo chino, dimentico dell’Infinito; mentre tanti media – anche cattolici – interpellando esperti più o meno autorevoli si scervellano ad analizzare la situazione di crisi generale, prospettano strategie, indicano come priorità l’“impegno nel sociale”, “lo scatto etico e il senso civico”, progettano azioni, ipotizzano soluzioni, Benedetto XVI ci invita ad alzare lo sguardo e ci richiama… all’unica cosa che vale: la relazione con Dio. La preghiera. «Di fronte al pericolo, alla difficoltà, alla minaccia – ci ricorda il Papa –, la prima comunità cristiana non cerca di fare analisi su come reagire, trovare strategie, come difendersi, quali misure adottare, ma, davanti alla prova, si mette in preghiera, prende contatto con Dio». «Nell’originale greco – prosegue – san Luca usa il vocabolo “homothumadon” – “tutti insieme”, “concordi” – un termine che appare in altre parti degli Atti degli Apostoli per sottolineare questa preghiera perseverante e concorde (cfr At 1,14; 2,46). Questa concordia è l’elemento fondamentale della prima comunità e dovrebbe essere sempre fondamentale per la Chiesa».
Dovremmo avere questa certezza stampata nel cuore; dovremmo averla nel DNA, noi che ci professiamo cattolici, eppure…
Ma c’è un altro passaggio che spiazza, nelle parole pronunciate oggi dal Santo Padre durante l’Udienza generale. «Che cosa chiede a Dio la comunità cristiana in questo momento di prova? (…) Chiede solamente che sia concesso “di proclamare con tutta franchezza” la Parola di Dio (cfr At 4, 29), cioè prega di non perdere il coraggio della fede, il coraggio di annunciare la fede».
Spiazza e fa riflettere, perché dell’Anno della fede che sta così a cuore al successore di Pietro, nella situazione di grave crisi che sta attraversando la Chiesa, francamente, ad ascoltare e a leggere tanti interventi di questo periodo, pare non ricordarsi quasi nessuno. Preoccupati, come Marta, delle “cose da fare”, è come si dimenticasse ciò che conta davvero. La roccia su cui costruire.
E in questo momento storico, in cui sempre più forte è il rischio di appiattirsi sul linguaggio, la mentalità, la misura del “mondo” (come se il compito affidatoci non fosse, invece, essere “sale” e “lievito”), è chiarissimo, il Papa, anche nel ricordarci quale dev’essere il metodo per accostarci alla realtà, per leggerla, per interpretarla. Senza sensi di inferiorità. Senza compromessi.
«Prima – ci rammenta il santo Padre – (la comunità cristiana ndr) cerca di leggere gli avvenimenti alla luce della fede e lo fa proprio attraverso la Parola di Dio, che ci fa decifrare la realtà del mondo».
Tante volte su questo sito ci siamo chiesti se noi cattolici è questa la strada che stiamo seguendo: se, nel giudicare ciò che ci accade nella vita, ciò che succede nelle nostre comunità, nella piccola storia di ciascuno e nella storia più grande, quella di tutti, il faro che illumina è Cristo o sono invece i nostri schemi, la voce che urla di più, che fa audience; il luccichio delle mode, o i nuovi fumosi profeti del nulla…
Nel nichilismo e nel relativismo dilagante e in quest’approccio all’esistenza che sta riducendo anche il Cristianesimo ad ideologia, o a pragmatismo, Papa Benedetto ci richiama infine all’impegno missionario che è la ragione, unica, per cui siamo al mondo: «La richiesta che la prima comunità cristiana di Gerusalemme formula a Dio nella preghiera non è quella di essere difesa, di essere risparmiata dalla prova, dalla sofferenza, non è la preghiera di avere successo, ma solamente quella di poter proclamare con “parresia”, cioè con franchezza, con libertà, con coraggio, la Parola di Dio (cfr At 4, 29)».
E’ questo ciò che avvertiamo come il compito primario delle nostre giornate? Nei rapporti umani, nei luoghi di lavoro, nei media, nelle realtà educative nelle quali siamo chiamati ad essere una presenza che “attragga e non trattenga”? Sappiamo “risplendere abbastanza perché le anime vengano a noi, spegnerci a tempo perché non si attacchino a noi e ci oltrepassino”?
La richiesta della comunità cristiana, aggiunge Benedetto XVI, è che «questo annuncio sia accompagnato dalla mano di Dio, perché (…) sia visibile la bontà di Dio, come forza che trasformi la realtà, che cambi il cuore, la mente, la vita degli uomini e porti la novità radicale del Vangelo».
Tante volte l’abbiamo scritto e tante volte occorrerà ripeterlo a noi, prima ancora che annunciarlo agli altri: «Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo».
Altrimenti saremo come il mondo: impantanati come il mondo, senza speranza come il mondo…