Quella compagnia che il covid non ha potuto rompere
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Un anno esatto è passato, da quando è iniziata questa brutta storia.
Un virus aggressivo, polmoniti mai viste: lastre bianche, tac del torace con ampie aree interstiziali di interessamento polmonare che arrivano a trasformare il tessuto del polmone, quasi ad epatizzarlo, la presenza di frequenti fenomeni trombotici che complicano il quadro.
Abbiamo imparato ad usare il cortisone, le eparine sottocute, il supporto ventilatorio precoce e protratto (casco cpap, intubazione).
Siamo passati per la fase 1 con una mortalità alta delle forme di distress respiratorio severo (ARDS), la fase 2 dove la mortalità dei pazienti con ARDS si era ridotta, l’attuale fase 3 dove siamo tornati a vedere forme rapidamente aggressive per colpa delle varianti.
Ci siamo in qualche modo “abituati” in questo anno alla distanza: per un paziente che entra in un reparto covid non ci sarà possibilità di toccare fisicamente i suoi parenti finché esca dall’ospedale. Abbiamo cercato di colmare questa distanza con le videochiamate, attraverso i tablet, per consentire di vedersi, almeno virtualmente.
E se arriva la morte abbiamo cercato di accompagnare all’estremo saluto anche quando sembrava impossibile, cremando a volte i corpi e rimandando le esequie a quando la famiglia del defunto si negativizza dal covid.
Andrà tutto bene… Come si può affermare una cosa simile?
Forse perché ora finalmente ce ne potremo liberare con il vaccino?
E tutto quest’anno?
Le immagini dell’arcobaleno non si vedono più, ora siamo tutti stanchi.
Eppure siamo arrivati alla Pasqua; attraverso un lungo calvario, una lunga via crucis di sofferenze fisiche e psicologiche.
Dall’ospedale due immagini, due tra tante mi porto nel cuore in questa Pasqua.
La prima… è accaduto il pomeriggio dell’Epifania, il 6 gennaio 2021: ero di guardia, tra gli altri avevamo in carico un paziente sui 60 anni. Il tutto era esordito con una trombosi severa dell’arto superiore, complicata da embolia polmonare, l’avevamo trattato, coinvolgimento linfonodale come da metastatizzazione, eravamo andati alla ricerca del tumore primitivo, trasferito poi ad altra struttura specialistica. Il mio primario era molto affezionato a questo paziente, l’avevamo nuovamente ricoverato noi per scompenso e versamento pleurico bilaterale. Toracentesi efficace in acuto, ma il versamento inesorabilmente si riformava. Non stava bene e quel pomeriggio il primario mi aveva chiamato, chiedendomi durante la guardia di rivalutarlo. Guardo i suoi esami ematici, la diuresi in cartella, cerco di capire come ottimizzare al meglio la terapia. Entro in stanza. Il paziente mi conosceva perché ci eravamo già visti durante il precedente ricovero. Mi rendo conto della situazione clinica avanzata e che quanto si poteva fare già era stato messo in atto.
Lo visito, mi metto a parlare con lui. Ha una grande rabbia dentro, per quel tumore troppo avanti. Parliamo per un po’. Poi ad un certo punto piangendo mi chiede di essere chiaro con lui di dirgli cosa penso, cosa farei al suo posto… esito un attimo… penso… non riesco proprio a mentire… ma come confortarlo?... Alla fine gli dico l’unica cosa vera per me: “Io quello che vorrei sapere, quello che farei è che… vorrei sapere dove vado a finire… comunque vada… questo è quello che mi interesserebbe di più: sapere che non finisco nel nulla”. Comunque vada. Che vada bene la chemio e viva altri anni, che guarisca o no comunque vada vorrei SAPERE che non vado nel nulla. Gli ho chiesto non senza un certo impaccio: “E’ credente? Mi scusi se glielo chiedo”… mi risponde: “Un tempo lo ero, ora con quello che mi è successo non più”… percepivo quanto fosse arrabbiato. Gli ho detto allora che in ospedale da noi c’era un cappellano molto bravo, era stato rettore di seminario in Africa – don Almeida – e negli anni lo avevo conosciuto ed eravamo diventati un po’ amici: “Le farebbe piacere parlare con lui? Io credo che sarebbe bello”. Non mi dice di no, magari non quel giorno, ma i giorni seguenti volentieri. Prima di terminare la guardia sono passato dalla chiesetta a trovare don Almeida, gli ho raccontato di quell’incontro e se poteva andarlo a trovare i giorni successivi. Mi risponde: “Oggi è proprio l’Epifania, la manifestazione del Signore!”
Nei giorni successivi si sono visti alcune volte ed ha preso i sacramenti.
Una decina di giorni dopo il paziente è in partenza per un reparto di oncologia di un altro ospedale, il primario mi avvisa e mi dice: “Viene trasferito oggi, vai a salutarlo”. Vado da lui. Mi ringrazia e mi saluta. Ma la cosa che mi ha più colpito è che non era più arrabbiato.
E’ morto qualche giorno dopo.
La seconda immagine: direttamente dal reparto covid.
Qualche giorno fa ero in turno di reparto covid ai piani. Scopro che nel reparto che avrei visto io c’era ricoverata la mamma del primario della Medicina, 92 anni, insufficienza respiratoria grave, condizioni terminali. Entro in stanza e c’è Michele – bardato come tutti noi – seduto vicino alla mamma. Mi vengono in mente tante cose. Per me lui è stato una figura decisiva nella mia professione: mi sono laureato con lui, una persona mite ed umile, difficilmente perdeva la pazienza, mi ha insegnato un sacco di cose ed ha sempre avuto con i pazienti un bel rapporto.
Ora è lì vicino alla mamma che sta veramente male. Si sente soffocare, lo riconosce solo a tratti. Le somministra un po’ di sedativo, si tranquillizza e si assopisce… un’altra collega è nella stessa stanza, Silvia, accarezza la paziente sul volto… io sono in silenzio e mi dispiace tantissimo per Michele e la sua mamma. Dopo una manciata di minuti dobbiamo riprendere il giro, abbiamo diversi pazienti da vedere, alcuni complessi. Silvia esce, io rimango ancora alcuni istanti nella stanza con Michele e la mamma. Attraverso la maschera e la visiera vedo i suoi occhi rossi. Una mamma ed un figlio. 92 anni, ma la mamma è sempre la mamma. Questo maledetto virus: che grande sofferenza! Mi viene da pensare alla Madonna: “Michele, diciamo insieme un’Ave Maria”… “prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte, amen.”
E’ morta il giorno dopo. Appena l’ho saputo gli ho mandato un messaggio. Mi ha risposto: “Grazie Alfredo, anche per la preghiera che mi hai fatto dire insieme a te in quello che è stato il momento più duro. Il gesto che cambia lo sguardo sulle cose. Ciao.”
Questo porto nel cuore in questa Pasqua: il gesto che cambia lo sguardo sulle cose.
Ho visto pazienti morire e pazienti uscirne in questo anno, abbiamo insieme al nostro gruppo di lavoro lottato con tutte le nostre energie per strappare alla morte quanti più possibile. Ma allo stesso tempo ci siamo scoperti tante volte insieme. Insieme a curare i pazienti. Insieme a parlare con le famiglie. Insieme a prendere decisioni e capire cosa fare e cosa non fare. Piccoli gesti a volte, che fanno la differenza.
Ma nel mio intimo ultimamente in questa Pasqua mi sento insieme a Cristo Gesù che muore e risorge per noi, insieme alla Madonna che è madre di tutti, soprattutto ora, quando la cosa più naturale: un parente che ti sta vicino nel momento del passaggio, non è possibile.
Ho bisogno quest’anno più che tutti gli altri scorsi anni della Pasqua, di quel punto fermo della storia per cui tutto ciò che facciamo non finisce nel nulla, ma viene salvato.
Dottor Alfredo Corticelli