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Prozac o non Prozac, è questo il problema?

Autore:
Paciolla, Sabino
Fonte:
CulturaCattolica.it

Al Adnani, prima del 2000 era un giovanotto ordinario, che amava giocare a calcetto e fare interminabili partite a carte; è divenuto poi portavoce e capo delle operazioni esterne dell’ISIS. Nel maggio scorso, preso atto del corso degli eventi, ha rivolto il seguente proclama ai potenziali foreign fighters: “Se i tiranni vi hanno sbarrato la porta per raggiungere lo Stato islamico, aprite la porta del jihad in casa loro. Davvero, apprezziamo di più un’azione piccola commessa da loro che un grande gesto compiuto qui, perché così è più efficace per noi e più dannoso per loro. Terrorizzate i crociati, notte e giorno, fino a che ciascuno non avrà paura del suo vicino”. In precedenza aveva detto: “Uccidete il militare e il civile, sono la stessa cosa. Se non potete trovare un proiettile o una bomba, usate una pietra per rompergli la testa, o un coltello, o investitelo con l’automobile, o gettatelo dall’alto, o strangolatelo, oppure avvelenatelo”.

Questo invito è stato messo in pratica in varie circostanze nell’ultimo anno. Questa volta però, con lo sgozzamento di padre Jacques Hamel, mentre sull’altare celebrava messa nella chiesa di Saint-Etienne-du Rouvray, vicino a Rouen, in Francia, è stata segnata una svolta, poiché è la prima volta da decenni che un sacerdote, nella sua chiesa, viene ucciso in territorio europeo per mano di un terrorista jihadista.

Il fatto, come si vede, è chiarissimo nella sua dinamica: un terrorista di religione islamica, gridando Allah Akbar, uccide un sacerdote di religione cristiana nella sua chiesa. Eppure, stando a quanto si è potuto sentire e leggere, la cosa non è così lineare nella sua interpretazione, poiché la causa di questa atrocità, dal pensiero mainstream, viene in realtà attribuita a tutt’altro che non sia la religione.

Una delle fobie che ci portiamo addosso, frutto del politicamente corretto (basta leggere a tal proposito, alcuni giornali, in particolare La Repubblica), è quella di non voler aprire gli occhi e di guardare la realtà per quella che è: essa, come detto, ci dice che la violenza terroristica attuale è jiahdista, cioè realizzata da persone che hanno abbracciato una espressione radicalizzata della religione islamica. Punto! Infatti, la parola jihad può significare tanto uno “sforzo” proteso ad una lotta interiore per il raggiungimento di una fede perfetta, quanto la guerra santa. Da noi, invece, sembra proprio che giornalisti, politici, uomini di cultura e di religione, anche cattolica, siano affetti da una paurosa fissazione poiché, alla notizia di un attentato terroristico, la prima cosa che dicono, e continuano imperterriti a ripetere, quasi a voler convincersi e convincerci, è che gli attentatori sono squilibrati, sbarellati di mente, disadattati, non integrati, ecc. ecc. Si potrebbe quasi concludere che basterebbe una distribuzione di prozac per mettere le cose a posto.
Il fatto è, invece, che buona parte di questi terroristi sono sani, anzi sanissimi di mente, tanto da suscitare sorpresa nei loro vicini di casa per la atroce azione da loro commessa. Ad esempio, il giovane che ha sgozzato il sacerdote Hamel lavorava all’aeroporto, ha superato il controllo psicologico, veniva descritto come gran lavoratore e persona del tutto socievole. Altri giovani, invece, hanno manifestato chiaramente anticipati segnali di volontà terroristica che amici e vicini di casa, però, non hanno voluto, o non hanno avuto il coraggio di riconoscere e denunciare per tempo. Solo una minoranza è certamente affetta da disagi psicologici più o meno gravi. Fa un certo effetto, a tal riguardo, leggere su Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, di mercoledì scorso, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e per anni suo presidente che, a proposito dell’assassinio di père Jacques Hamel, scrive: “un gesto rivelatore della disumanità dei terroristi e della loro assoluta mancanza di senso religioso” (...) “giovani, folli, ingabbiati nella logica totalitaria dell’odio”. Ancora una volta, torna in prima fila la parola “FOLLIA”. Ma i conti non tornano; perché, che un islamista abbia ammazzato in nome della sua religione è un fatto certo; che abbia ammazzato una persona perché l’ha ritenuta un infedele a causa del suo essere cristiano, è sempre un fatto certo; che questo grave fatto sia l’espressione di una radicalizzazione religiosa è altrettanto un fatto certo; che, invece, come dice Riccardi, sia “espressione di assoluta mancanza di senso religioso”, questo sì che è francamente dubbio e, se vogliamo dirla tutta, palesemente falso.

Mi domando infatti: visto che père Jaques Hamel è stato barbaramente assassinato in odio alla sua fede, proprio sull’altare, mentre celebrava la messa nella sua chiesa, rifiutandosi di inginocchiarsi, come si fa a negare l’evidenza del fatto religioso? Di più, del martirio? Se così non fosse, allora, ad esempio, anche santo Stefano, morto per lapidazione, o San Paolo, morto decapitato, o lo stesso San Pietro, morto crocifisso a testa in giù, tutti trucidati per aver testimoniato pubblicamente la loro fede in Cristo, non sarebbero martiri della fede. Sarebbero infatti morti, secondo il modo di vedere dei nostri signori dei giornali, per mano di semplici FOLLI, degni, anche loro, di un buon prozac ante litteram!

Parlare dunque di follia, a mio parere, è pura follia, perché la verità è che si tratta di vera e propria ideologia religiosa, di puro pensiero totalitario che, come tutti i totalitarismi della storia (giacobinismo, nazismo, comunismo, ecc.), ha un volto inumano, nemmeno bestiale, semplicemente inumano.

Scambiare l’ideologia con la follia è come mettere la testa sotto la sabbia, la classica posizione dello struzzo. Ha invece ragione mons. Luigi Negri quando dice che: “ci vuole la preghiera e ci vuole il coraggio della verità”.

Non siamo in presenza di una “guerra di religione”, ma di una guerra senz’altro, asimmetrica per giunta, che parte da una matrice religiosa. Bisogna, dunque, usare le parole giuste, e cioè: “odio da parte dell’estremismo religioso”. Un estremismo, per altro, che non esclude dalle sue azioni violenti anche le stesse popolazioni musulmane (sciiti contro sunniti, o sciiti contro sciiti ritenuti non ortodossi). Questi terroristi, infatti, si rifocillano con i versetti più violenti del Corano, e si rivoltano poi contro tutte le religioni, contro le “religioni secolari”, fatte proprie dall’occidente laico ed ateo, e le “religioni religiose”, come il cristianesimo. Quello che in questi mesi stiamo toccando con mano in Europa è solo una lontanissima e pallida immagine della pesantissima persecuzione religiosa che i nostri fratelli nella fede in Cristo sperimentano ogni giorno, oramai da anni, nel Medio Oriente ed in Africa. Eppure ci si dice che non è guerra a matrice religiosa. Che strano! Chiediamolo allora alle centinaia di migliaia di cristiani che sono fuggiti dalle loro terre per non essere decapitati o crocifissi.

Negare la realtà, o fuggirla, fa comodo, oggi; certamente acquieta l’anima, fino a stordirla. Ma domani? Il politicamente corretto ci aiuta? Serve a ridurre le stragi? Ci fa vedere le cose per quello che realmente sono? Ci aiuta a combattere il male? O, invece, in Europa ci ritroveremo nel mezzo di una burrasca, un vero e proprio incubo, a cui avremo contribuito inconsapevolmente con la nostra indolenza, e della quale non sapremo indicare neppure da dove abbia preso le mosse? Sono domande legittime che è meglio porsi, ora. Una lettura puramente sociologica e psicologica dei fatti non giova a nessuno, perché ridicolmente ed intrinsecamente povera.

Sia chiaro, non dobbiamo cadere nel tranello di farci trascinare in una “guerra di religione”. Nessuno infatti deve essere animato da spirito di vendetta, quello spirito che spinge a vedere in ogni cittadino di fede islamica un potenziale terrorista, perché di gente perbene ce n’è, e pure tanta. Tra l’altro, Cristo stesso sulla croce e la Chiesa ci hanno educati a pregare anche per le anime più bisognose della misericordia di Dio, quindi anche per i nostri assassini. Ma il salame sugli occhi no, quello proprio no! Negare che la religione non centri, è negare la realtà. Ed è questo realismo che ci fa dire che se da una parte c’è tanta gente per bene di fede islamica, dall’altra dobbiamo altrettanto affermare chiaramente che una piccolissima parte della popolazione islamica (2% circa), quella di fede più radicalizzata (wahabita e fratelli Musulmani), ha espresso in maniera chiarissima l’intenzione di sottomettere gli infedeli con la “spada”. Infatti, questi estremisti di fede islamica hanno posto alla base della loro azione il dettato della Sura 9,123 che recita: “I musulmani devono far guerra agli infedeli che vivono intorno a loro”. Per questo, non chiamarli con il loro nome non ci aiuta. Non aiuta una nostra presa di coscienza necessaria e propedeutica ad una efficace azione di difesa. Una risposta che deve partire dal riconoscimento di una evidenza importante, che si riassume nelle seguenti parole: noi siamo noi, figli di una grande civiltà, sia pure oggi agonizzante, e loro sono jihadisti islamisti che devono essere fermati e, se necessario, come è necessario, combattuti ed abbattuti. Poiché lasciarli liberi di agire equivale a consentire la “soluzione finale” di un genocidio in atto di fronte al quale noi abbiamo girato la testa dall’altra parte. Non abbiamo infatti voluto ascoltare, ad esempio, quanto profeticamente disse il 47enne Amel Nona, l’arcivescovo caldeo di Mosul fuggito ad Erbil: «Le nostre sofferenze di oggi sono il preludio di quelle che subirete anche voi europei e cristiani occidentali nel prossimo futuro». Quello di una mancata risposta decisa ed efficace, con truppe di terra, che doveva essere realizzata in Iraq e Siria già qualche anno fa, è stato un nostro gravissimo errore, che è all’origine dell’affermazione dello stato dell’ISIS in medio oriente e della sua ulteriore diffusione a mezzo propaganda in Europa, e di cui oggi cominciamo a pagarne le conseguenze. Ma un Occidente dimentico della sua identità, della sua grandezza, non potrà che essere perdente poiché non vedrà altra alternativa se non la sottomissione. Per questo, occorre ritornare e riscoprire quanto ha reso grande la nostra civiltà, cioè le radici cristiane. Perché, come ha sottolineato il cardinale svizzero Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, chiamato anni fa a Roma da Benedetto XVI per succedere a Walter Kasper e confermato nell’incarico da Francesco: “Il problema non è tanto nella forza dell’islam, quanto nella debolezza del cristianesimo in Europa”. Infatti, se il cristianesimo è stato il lievito di una cultura che si è fatta grande civiltà, allora una fede debole, una fede relegata nel privato, o addirittura cancellata dalla scena pubblica, vanto dell’attuale occidente, una fede ridotta a puro sentimentalismo, non può che indebolire la cultura, rendendo di conseguenza fiacca e sterile la nostra civiltà. Un esempio di ciò è dato dalla rapida diffusione della cultura gender, cioè del niente, e ciò con grave colpa del mondo cattolico. Questo avrà le sue drammatiche conseguenze nelle nuove generazioni. Non ne dubito.

Oggi, dunque, in Europa, non sono più tollerabili da parte della popolazione e delle autorità islamiche posizioni pubbliche ambigue o reticenti, specialmente da parte degli imam che, nel caso, debbono essere immediatamente espulsi e rispediti nei loro paesi di provenienza. Occorrerà ripensare anche i nostri principi liberali e democratici che, in tempo di guerra (asimmetrica, come l’attuale), potrebbero subire, se necessario, delle limitazioni, aldilà della falsa ampollosità del “non ci toglieranno il nostro stile di vita”. Occorrerà, infine, ripensare criticamente, anche in ambito cattolico, dove abbonda “l’ecclesialmente corretto”, la vuota retorica della accoglienza senza limiti e senza freni dei flussi migratori, sia perché solo una minima parte di essi viene da territori di guerra, sia perché un incontrollato afflusso avrebbe scarse capacità di tenuta delle società accoglienti, sia perché vi è il rischio di infiltrazioni terroristiche, come è stato detto in tutti questi mesi, ma che ora stiamo amaramente verificando sul campo.

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