Giorello e i soldati giapponesi
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Ad essere sinceri, tutti questi scienziati e filosofi che si fanno un vanto del loro non credere in Dio ci sono venuti a noia. Danno l’impressione di quei soldati giapponesi che, dopo anni che la guerra era finita, ancora stavano a combattere un nemico che non esisteva più, che era solo nella loro immaginazione. Fuori del tempo, insomma, o meglio, rimasti in un tempo mitico, dei sogni o degli incubi.
Mi spiace per loro.
E la ragione è anche che non sanno dare ragioni, che affermano una idea di ragione che non sa sostenere né la vita né la scienza, che sembra più paralizzare che rendere possibile la ricerca dell’uomo.
Sul sito dei soliti atei (ai quali non si può controbattere, e non solo perché i loro commenti alle notizie sono di una grettezza inaudita, ma perché chi vuole entrare in un dialogo ragionevole con loro viene bollato come «troll», cioè come chi «nel gergo di Internet, e in particolare delle comunità virtuali come newsgroup, forum, social network, mailing list, chatroom o nei commenti dei blog - è detto un individuo che interagisce con la comunità tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente stupidi, allo scopo di disturbare gli scambi normali e appropriati») ho letto le parole di Giorello, con cui giustifica il suo non credere in Dio. Non mi pare che ci sia molto di nuovo né francamente di interessante nelle considerazioni che esprime, sembra materiale stantio e avariato, dettato da risentimento, non da ragioni. Peccato, perché è triste confrontarsi con chi non sa guardare avanti, con chi non sa scommettere sull’avventura della vita, con chi ripete e non crea.
Ho appena partecipato a un seminario di studio su «Cristianesimo primitivo e Paideia greca» e mi ha commosso il tentativo, documentato da questi studiosi, dei primi cristiani per incontrare realmente il grande pensiero dei greci, con quella stima che ti fa rispettare anche chi pensa diversamente da te. Mi è caro ricordare quanto affermava Giovanni Paolo II nella Redemptor Hominis: «L’atteggiamento missionario inizia sempre con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò che c’è in ogni uomo, per ciò che egli stesso, nell’intimo del suo spirito, ha elaborato riguardo ai problemi più profondi e più importanti; si tratta di rispetto per tutto ciò che in lui ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole. La missione non è mai una distruzione, ma è una riassunzione di valori e una nuova costruzione, anche se nella pratica non sempre vi è stata piena corrispondenza a un ideale così elevato». Chissà se potremo assistere a una nuova era di questo dialogo fecondo e costruttivo, o dovremo accontentarci di scaramucce che paralizzano la vita, la storia e la cultura? Chissà se potremo incontrare uomini con cui varrà la pena dialogare, anche se con diverse posizioni e senza dovere per forza arrivare ad una posizione comune? Insomma, se ci starà più a cuore la verità che non gli schemi? Uno degli interventi di quel Seminario così concludeva: «Il dialogo incompiuto: lo scandalo della ragione permane. Il dialogo [di Giustino con l’ebreo Trifone] non ha convinto, e questo è il segno della sua autenticità. L’autore non ha cercato un happy end, gli interlocutori si lasciano senza essersi convinti a vicenda. È questo carattere incompiuto dell’apologia e del dialogo che ci pone di nuovo di fronte all’opposizione paolina della sapienza greca e della sapienza di Dio […]». Preferisco questo dialogo incompiuto che un dialogo impossibile: là rimane aperta la speranza, per tutti. E di questo, anche col sito, ne abbiamo continua esperienza.