“A me che importa?”
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Questo atteggiamento è esattamente l’opposto di quello che ci chiede Gesù nel Vangelo. Abbiamo ascoltato: Lui è nel più piccolo dei fratelli: Lui, il Re, il Giudice del mondo, Lui è l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ammalato, il carcerato… Chi si prende cura del fratello, entra nella gioia del Signore; chi invece non lo fa, chi con le sue omissioni dice: “A me che importa?”, rimane fuori».
(Papa Francesco, Omelia al Sacrario militare di Redipuglia, 13 settembre 2014)

Ve la ricordate l’omelia di Papa Francesco a Redipuglia?
Vabbè, parlava della prima guerra mondiale, al massimo della «terza, combattuta a pezzi». Che c’entra? Mica siamo noi, in guerra. A me che importa? Sono forse io il custode di mio fratello?
Appunto.
Si ascolta (distrattamente) Papa Francesco, lo si legge (distrattamente, e quasi sempre solo nella versione “veline politically correct” proposta dai giornali) e poi si continua la vita di sempre, convinti che il Papa parli ogni volta agli altri e non a noi. «A me che importa?»
E invece il Papa – questo Papa, esattamente come i precedenti – quando parla, parla a tutti. Parla per seminare, o per irrigare il seme che già c’è perché l’ha seminato un Altro.
Parla a tutti perché la vita è, per tutti, cammino. Perché volgiamo gli occhi del cuore a ciò che conta davvero.
Allora la sua voce al Sacrario di Redipuglia, il suo tonante «A me che importa?» è il nostro pavido ed egoistico pensiero quotidiano espresso ad alta voce. Non quello dei governanti che dichiarano le guerre, non quello dei generali che pianificano gli attacchi. Il nostro. Il mio e il tuo che leggi.
«Humani nihil a me alienum puto», scrisse Terenzio. Sono uomo, e niente di ciò che è umano ritengo mi sia estraneo. Questo è ciò che rende pienamente umano l’esistere: sentirsi personalmente coinvolti quando la vita degli altri sfiora la nostra e ci interroga: le sue gioie, i suoi dolori, le fatiche, le domande… E invece il più delle volte voltiamo la faccia dall’altra parte e più o meno velatamente scrolliamo le spalle. «A me che importa?»
Un esempio.
Riporto da Vanity Fair del 10 settembre. Cristina si rivolge alla psicologa Irene Bernardini che cura la rubrica Lui & Lei - ma anche lui & lui, lei & lei… Le scrive che ha 49 anni, che il marito ne ha 58, che ha già un figlio adulto e un nipotino, e che ha scoperto di essere incinta di nove settimane. «Sono, anzi siamo, sotto shock», dice. In accordo con il marito hanno deciso «una settimana di, come dire, silenzio stampa, alla fine ognuno dei due esprimerà le proprie decisioni» e nel frattempo chiede un parere alla psicologa. «Mi spaventa l’età, il fatto che non ho un lavoro, che sto ancora aiutando economicamente mio figlio, e che probabilmente questo non lo vedrò crescere e farsi una famiglia». E conclude così: «La prego, mi aiuti».
Ventotto righe di risposta, ventotto righe di aria (ben) fritta. «I tempi tecnici tra la lettura delle lettere e la pubblicazione… Non mi sarei mai permessa di entrare a gamba tesa con qualche presunta perla di saggezza… Come puoi pensare che una psicologa di carta possa aiutarti davvero…». Ecco la conclusione: «Qualunque sia stata la tua, la vostra decisione, Cristina, spero con tutto il cuore che abbia tenuto conto di tutti quei colori del passato così come dei timori e delle speranze del futuro».
Non so voi, non so Cristina, ma io non ci ho capito niente. Una supercazzola prematurata.
Se Cristina scrive alla psicologa di carta di Vanity Fair è vero che avrebbe dovuto sapere da sola che è molto meglio parlare con familiari e amici in carne ed ossa, ma se le scrive è segno che vuole chiedere a lei, anche a lei – e lo dice! – «aiuto».
E’ segno che non ha (ancora) deciso se tenere quel figlio o interrompere la gravidanza e farlo fuori per le paure (legittime) che le ha elencato. E’ segno che ha bisogno di essere sostenuta.
Avete visto la risposta. Un chi sono io per dirti cosa fare?, che è un altro modo (elegante) per dire a me, in fondo in fondo, che importa di te, e (soprattutto) di quella vita che hai in grembo?
Ecco la mentalità del mondo, che tante volte, ammettiamolo, ci calza a pennello. Menefreghismo camuffato da rispetto-della-libertà-personale e quell’arrangiati, addolcito da discorsi sui massimi sistemi senza mai venire al dunque. Senza mai parlare di quella vita che pur c’è, di quel cuoricino che batte, di quel figlio. L’innominabile, l’innominato.
Roba da far accapponare la pelle a Pilato, che in confronto è stato solo un dilettante.
Parla a noi, Papa Francesco. Sempre. Anche a Redipuglia.
Contro la guerra fuori e dentro l’Europa, fuori e dentro di noi; contro la cultura dell’indifferenza e dello scarto occorre innanzitutto la conversione del cuore.