A margine della sede vacante
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“Se ai mortali fosse possibile scegliere tutto da sé, sceglierebbero il giorno del ritorno del padre.”
Odissea, XVI, 148-149.
Mai profezia fu più vera. Non fu pronunciata da un profeta, ma da un poeta antico, Omero che, in mezzo al racconto epico di un figlio in cerca del padre, scoprì e lasciò vibrare questa nostalgia primordiale, comune a ogni uomo: se davvero potessimo scegliere tutto, se potessimo realizzare ciò che ci sta più a cuore, se fossimo onnipotenti, sceglieremmo il giorno del ritorno del Padre.
Non vincere una guerra o il Superenalotto.
È la nostalgia che ci definisce, fin da quando l’uomo fu cacciato dal Giardino. Là, Adamo ed Eva camminavano con Dio nella brezza della sera. Il Giardino non era solo un luogo, ma una compagnia, una familiarità con il Padre. Il peccato ha spezzato questa comunione: ci siamo nascosti, e Dio ha dovuto ritirarsi. Chi ama davvero, quando vede l’altro perdersi, a volte deve ritirarsi, per non essere usato, manipolato, deformato nel delirio dell’altro. Quanti padri e madri sanno che non c’è sacrificio più grande.
Eppure Dio non ci ha abbandonati. Il suo ritirarsi non è stato un addio. Ha giurato inimicizia al serpente per mezzo della Donna - Maria - e ha voluto la Chiesa come sua presenza umile e materna nella storia. Ha educato un popolo, Israele, passo dopo passo, caduta dopo caduta. Ha parlato, ha atteso, ha combattuto, ha amato. Il Padre aspetta alla finestra dell’eternità che affaccia sul tempo, il nostro ritorno.
Due sono i modi della mancanza: l’essere stati allontanati, e l’essersi allontanati. In entrambi, il Padre non cede. Resiste al nostro disconoscimento, alla nostra fuga, alla nostra indifferenza. Si lascia bestemmiare, tradire, dimenticare... ma non smette di aspettare.
Chi ha perso il proprio padre carnale, chi lo ha visto andare via - e si può andare via in molti modi: con la morte, con il silenzio, con la distanza, con l’abbandono - forse intuisce più velocemente.
Chi ha condannato o dimenticato il proprio padre, se è onesto, sa che quella condanna lascia un vuoto, una ferita, una domanda.
Ma tutti, nessuno escluso, sanno che in fondo, nel cuore di ogni uomo, non si aspetta altro che il ritorno del Padre.
Questo mondo era il Giardino.
E lo sarà ancora, quando torneremo al Padre, quando il Padre, ancora una volta, verrà a cercarci.
Come sempre fa.
Per questo i giorni della sede vacante sono giorni speciali. Non solo per la Chiesa, ma per l’umanità. Sono giorni in cui manca il segno visibile del Padre. Il Papa non è Dio, non è un eroe, non è un mito: è un uomo. Ma proprio perché è un uomo, proprio perché è un padre, quando non c’è, sentiamo la sua mancanza.
Questi venti giorni circa che ci separano dall’elezione del Pontefice sono lunghi. E lo devono essere. Perché non sono un tempo vuoto, ma un tempo gravido, in cui si può imparare di nuovo a dire: “Padre”.
Il ministero del vicario di Cristo per il solo fatto di esserci, con tutti i limiti e le insufficienze della persona, è segno di ciò che Gesù ci ha insegnato. E tutto ciò che Gesù ci ha insegnato può stare in una parola: “Dite: Padre”. Non servono tecniche particolari. Serve il cuore dei figli.
E allora, prima che il nostro cuore si insuperbisca o si scoraggi nuovamente, domandiamo allo Spirito di gridare in noi:
“E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Rm 8,15).
Nel chiedere - soprattutto nel chiedere - dobbiamo restare figli. Tornare bambini. Perché solo i bambini sanno attendere davvero. Attendono tutto dai grandi. E nella Chiesa, i “grandi” non sono i potenti, sono i santi.
I santi sono i veri adulti dell’umanità: non perché hanno dominato, ma perché vivono della comunione con il Padre, con il Figlio, con lo Spirito, e tra loro.
Vivono qui, con noi, spesso nascosti, vivono la vita che passa.
E vivono nella vita che non passerà.
A loro possiamo guardare, a loro possiamo chiedere che ci insegnino ancora una volta ad attendere, a desiderare, a fidarci di Dio.
Perché la fede non è solo sapere chi è il Padre per noi, è sperare in Lui come figli, è amarLo nella sede vacante nel pieno della Speranza.
Pregare, offrire. Chiedere un padre. Dire “Padre”.
Cosa c’è di più semplice?
Pietro Gargiulo
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