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Analisi e lettura del Padre Nostro secondo Jean Carmignac

Autore:
Roberta Collu
«La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell'uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso»

La tentazione viene attribuita in maniera esplicita al demonio in Marco 1,13; Matteo 4,1.3; Luca 4,2; 4,13; 8,12-13; 22,28-31; 1 Corinti 7,5; 1 Tessalonicesi 3,5; Apocalisse 2,10. In particolare, Giacomo 1,12-14 affronta il problema dell'origine della tentazione e conclude, come abbiamo visto, riaffermando che Dio non tenta nessuno al male.
Il Primo e il Secondo Testamento ci forniscono numerosi esempi, nei quali Dio mette l'uomo alla prova; ma la prova non è mai una punizione, anche se dolorosa può essere positiva e persino necessaria per la crescita e la purificazione della fede, della speranza e della carità.
I concetto reale di tentazione, con il demonio come tentatore, appare solo nel Vangelo; tutto comincia subito dopo il battesimo di Gesù, e termina con il dramma del Getsemani.
San Luca scrive che in seguito alla triplice tentazione di Gesù nel deserto (4,13), «Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato».
Si tratta del momento favorevole nel quale il demonio entra in Giuda per spingerlo a tradire Gesù.
Se il demonio non ha nessun potere su Cristo, che si offre interamente a Dio, in perfetta comunione con il Padre, non è così per i discepoli. Gesù ne è cosciente, riesce a vedere il pericolo che essi corrono, per questo motivo durante la sua agonia li esorta dicendo loro: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione». Dicendo queste parole, Egli non pensava certo a una prova, ma a una vera e propria tentazione escogitata dal demonio, così pericolosa che gli apostoli soccomberanno, come lo stesso Giuda.
Per fedeltà al pensiero di Gesù e al testo originale del Padre Nostro, Carmignac mantiene l'idea che in questa domanda si tratti di una tentazione e non di una prova.
Inoltre, se nella domanda precedente si parla dei «nostri debiti», cioè dei peccati commessi in passato, mentre nell'ultima domanda chiediamo a Dio di allontanare il male a venire, in un futuro prossimo, allora questa sesta domanda, intermedia, non può che riferirsi al peccato presente e alla sua causa, la tentazione.
[…] Possiamo dunque concludere con Carmignac che la traduzione più conforme all'originale dovrebbe tener conto di questi elementi legati alla lingua greca del Vangelo e al suo sostrato semitico, rispettando quindi le regole del causativo e della negazione, così come l'uso contestuale del termine peirazo e la sua accezione più stretta di «tentazione». Inoltre, per conservare la struttura stessa della frase greca, legata alla formula eisphero eis, che in questo caso non è costruita con il dativo e presuppone nell'ebraico soggiacente il verbo causativo BW’, si dovrà tradurre «far entrare nella tentazione». Dove la preposizione eis ripetuta corrisponde al «B» ebraico nel senso di «entrare all'interno», che troviamo nell'Antico Testamento e nei testi di Qumran.
Entrare nella tentazione significa, infatti, per la mentalità ebraica, cadere nelle macchinazioni del demonio. E nella preghiera ebraica i fedeli chiedono di non entrare nelle mani del peccato e della tentazione, per non diventare la loro preda. Quando entriamo in tentazione, scegliamo di penetrare in un luogo proibito, quello dello stato di peccato, suggerito dalla tentazione, accettando la scelta perversa che essa propone e unendo la nostra volontà a quella del tentatore.
Anche san Paolo concepisce la tentazione come una trappola nella quale entriamo quando acconsentiamo (1 Cor. 10,13); per questo Dio dà sempre all'uomo la possibilità di opporsi e un modo per sfuggire, ekbasis significa «via d'uscita», ed è proprio questo il termine scelto per tale passaggio. Quindi se la vittoria sulla tentazione è concepita come una «via d'uscita» allora la sconfitta è da intendersi come un'«entrata» all'interno di essa, in modo tale che diventiamo prigionieri del peccato.
Origene interpreta in questo senso la sesta domanda quando precisa nel suo De Oratione, al capitolo 29, che nel Padre Nostro non chiediamo di essere liberati dalla tentazione, essendo questo impossibile per l'uomo nella sua esistenza terrena, ma di non soccombere, quando siamo tentati. Per il Padre della Chiesa chi soccombe alla tentazione, entra nella tentazione, viene preso nei suoi lacci. Altri Padri della Chiesa hanno interpretato in questo stesso modo la frase della Preghiera. L'immagine utilizzata da Cirillo di Gerusalemme (verso il 350) è particolarmente bella quando compara la tentazione a un fiume in piena, che alcuni attraversano senza essere sommersi; così Pietro entra nella tentazione del rinnegamento di Gesù ma riesce, nuotando con forza, a venirne fuori, mentre Giuda, entrato nella tentazione dell'avarizia, non riesce a nuotare fino alla riva, viene travolto spiritualmente e corporalmente e affoga (Catechesi Mistagogiche V).
Qui la riflessione filologica sul senso del termine greco e la riflessione teologica sulla vera natura della causalità divina concordano e portano allo stesso risultato trasmessoci dalla Tradizione, grazie a Origene. Dobbiamo dare alla frase «fa’ che non entriamo nella tentazione» il senso di «impediscici di entrare nella tentazione» acconsentendo. Possiamo anche adottare l'eccellente suggestione di J. Lebourlier, riportataci da Carmignac, che propone un verbo dagli accenti giovannei «garder», guardare, nel senso di custodire, vigilare e anche proteggere e assistere. Giovanni 17,15 lo impiega in un passaggio del suo Vangelo che affronta un tema molto vicino a quello del Padre Nostro, Gesù chiede infatti al Padre suo di custodire i suoi discepoli e guardarli dal Perverso. Anche l'Apocalisse 3,10 esprime la stessa concezione della tentazione «Ti guarderò dall'ora della tentazione».
In italiano, si esprimerebbe molto bene il vero contenuto della sesta domanda se dicessimo: «Guardaci dall'entra-re nella tentazione», oppure «Guardaci dal consentire alla tentazione» o ancora «Guardaci dal cedere alla tentazione».
Comprendere esattamente la Preghiera che Cristo ci ha insegnato, permette di tradurla in uno stile letterario proprio a ogni lingua, rispettando la sua letteralità. Carmignac compara la traduzione «non indurci in tentazione» alla pietra d'inciampo del Vangelo, motivo di caduta per molti fedeli, come Marras, che non riuscirono mai ad accettarne le implicazioni e la portata teologica di questa formula.
[Roberta Collu, Il Padre Nostro e i Rotoli di Qumran nel lavoro scientifico di Jean Carmignac, pp. 188-191]

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