Quali cattolici faticano a rispondere alle sfide culturali?

Ho letto su Avvenire l'articolo che pone la domanda sulla insignificanza dei cattolici e ho risposto. Spero in un confronto, e non a senso unico. E soprattutto capace di dare ragioni e di aprirsi a 360°, perché anche l'autoreferenzialità di troppi impedisce di rispondere e di accogliere con rispetto le risposte
Fonte:
CulturaCattolica.it
Vai a "Ultime news"

HO INDIRIZZATO LA LETTERA AD AVVENIRE AL DOTT. RIGHETTO



Caro Dottor Roberto Righetto,

ho letto il suo articolo «Perché i cattolici faticano a rispondere alle sfide culturali?».
Con moltissimi limiti, certo, ho creato con amici e gestisco un sito che, anche nel nome, vuole dare risalto e rilievo alla «Cultura cattolica». E due sono le parole chiave del mio impegno in CulturaCattolica.it: «Mille argomenti. Un solo giudizio», e l’affermazione straordinaria di s. Giovanni Paolo II: «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta».

In particolare gli argomenti più visitati riguardano l’impegno degli insegnanti di religione cattolica, perché è sempre più chiara la domanda: «Se raggiungiamo nel complesso la maggior parte degli studenti in Italia, perché questo insegnamento incide così poco nella formazione dei giovani?». E non è certo perché si fa o non si fa catechesi, e neppure perché non si preferisce una generica “Storia delle religioni” piuttosto che l’insegnamento della Religione Cattolica. Qui il problema è reso evidente dalle domande che lei si pone e ci pone.

Una volta un autore convertitosi al cristianesimo, Olivier Clément, così si espresse: «La tragedia della storia europea sta nel fatto che il socialismo, in ciò che ha di meglio, non ha realmente incontrato la parte migliore del cristianesimo. Il socialismo, questo «cristianesimo dell’esterno», come diceva Péguy, ha sempre ed esclusivamente trovato davanti a sé un pietismo impaurito dalla vita, privo di qualsiasi dinamismo di trasfigurazione. Certo, c’è stato Péguy, poi Berdjaev, e la loro convergenza nel personalismo francese, visto che Mounier, agli inizi degli anni Trenta, fondava il movimento Esprit ispirandosi a Péguy e con la collaborazione di Berdjaev. Ma questi uomini, questi gruppi, erano troppo isolati, le correnti totalitarie erano troppo potenti, troppo smisurate le convulsioni storiche, perché il personalismo potesse portare frutto nell’immediato (solo oggi qualcosa comincia a prendere forma in questo senso con Comunione e Liberazione in Italia e con lo sviluppo delle tendenze personaliste nell'intelligencija cristiana dell’est).
Quello che il socialismo europeo ha incontrato e trasmesso poi al resto del mondo, non è allora il cristianesimo, ma il marxismo.» (Olivier Clément, La rivolta dello spirito, p. 35)
Un “pietismo impaurito dalla vita” o un cristianesimo col complesso di inferiorità di fronte al mondo non potrà mai dialogare con nessuno, né tantomeno, generare cultura.

Personalmente ritengo che in Italia, l’impegno di don Giussani abbia costituito la possibilità di una rinascita culturale cristiana, sia per la chiarezza di posizione e la centratura sulla esperienza (non nel senso modernistico del termine), sia la stima e l’apprendimento della lezione del magistero di Giovanni Paolo II, sia la capacità di confronto con chiunque (e qui basta ricordare almeno Il Sabato e il Meeting di Rimini per capire la fecondità di quella stagione).
Penso sempre che se avessimo come cattolici seguito certi maestri, non saremmo al punto in cui siamo. Leggere, seguire e comunicare l’itinerario culturale di Giovanni Paolo II (ben documentato del libro Testimone della speranza di George Weigel) e riscoprire l’acuta filosofia di Augusto Del Noce, come ritrovare la voce di un maestro e testimone come Dietrich von Hildebrand indicano la strada di quel «dialogo» di cui ci si riempie la bocca ma di cui si è profondamente incapaci.


Nella presentazione del suo articolo sul web viene riportata l’immagine “Natanaele «...un israelita in cui non c’è falsità» (Gv 1,47)” di Andrea Saltini - In mostra al Museo Diocesano di Carpi. Sinceramente credo che se la risposta alle sfide culturali sia quella mostra, con altre immagini pubblicate sui social, e sia la risposta, a mio avviso moralista e ideologica, di chi l’ha curata, allora siamo ben lontani da quella capacità di risposta che sa valorizzare, replicare e correggere le sfide culturali.


Nel passato abbiamo avuto grandi maestri (penso a sant’Agostino e a san Tommaso, le cui risposte hanno sfidato i secoli), nel presente dobbiamo e possiamo percorrere una pista che tenga conto della nostra originalità e delle domande che gli interlocutori hanno sia nel cuore come nelle opere, se è vero che non c’è risposta più incredibile di quella alle domande che non sono state poste.
Abbiamo avuto lo straordinario messaggio di Giovanni Paolo II all’UNESCO, proprio sul tema della cultura, abbiamo imparato nella Fides et ratio quella alleanza per cui Papa Benedetto affermava che la fede allarga la ragione, abbiamo imparato a leggere il senso della femminilità nella Lettera alle donne, lettera che ha colpito persino una atea e militante di sinistra come Maria Antonietta Macciocchi… insomma, possiamo, con questi maestri, imparare non solo a rispondere alle sfide culturali, ma a sfidare la cultura con la verità di cui siamo testimoni e portatori. È una sfida epocale ma può essere giocata (e vinta) solo da chi è appassionato alla verità da protagonista.

È vero, il cristianesimo «non può rinunciare ad esprimere una cultura, come ha ricordato papa Francesco nel discorso all’Università Cattolica di Budapest il 30 aprile 2023, sollecitando a combattere l’omologazione imperante che dà vita a nuove colonizzazioni ideologiche e al contempo a unire la conoscenza con l’avventura della libertà». Ed è vero che «Solo i codardi chiedono al mattino della battaglia il calcolo delle probabilità; i forti e i costanti non sogliono chiedere quanto fortemente né quanto a lungo, abbiano da combattere, ma come e dove, e non hanno bisogno se non di sapere per quale via e per quale scopo, e sperano dopo, e si adoperano, e combattono, e soffrono così, fino alla fine della giornata, lasciando a Dio gli adempimenti» (Cesare Balbo, Le speranze d’Italia, Torino 1925, 272.)